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A bottega da chi non ha niente

carriera
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A bottega da chi non ha niente

 

In occasione di alcuni interessanti e vivaci scambi seguiti alla pubblicazione dell’ultimo contributo, mi sono persuaso della necessità di approfondire due termini che, nel dibattito intorno al merito, ho trovato spesso ricorrere alla stregua di sinonimi ma che, a ben osservare, sinonimi non sono. Anzi, nel trattarli come tali, si rischia di contribuire ad alimentare il calderone dell’equivoco. Sto parlando di carriera e di successo

Proviamo a fissare brevemente alcune coordinate minimali. 

Con carriera possiamo intendere il progressivo avanzamento della posizione lavorativa nell’ambito di un sistema formalizzato di ruoli. La sua misura consiste nel rilevare, in un dato momento, in quale punto di questa progressione ci si trovi e i più raffinati potrebbero anche misurare la distanza tra l’attuale approdo e il punto di partenza. 

Il successo è questione un po’ più sofisticata. Esso riposa sul riconoscimento e sulla considerazione dell’esistenza di una serie significativa di eventi o esiti favorevoli portati da un’esperienza lavorativa e di vita. Qui lo sguardo si può ampliare a tal punto da abbracciare il gusto per l’utilità di ciò che si fa, anche se non si sta facendo ciò che piace o che si vorrebbe fare, o la riconoscenza verso i nostri fallimenti, da cui abbiamo tratto importanti lezioni. Nell’ambito del successo può certamente rientrarvi la progressione di carriera, ma non è elemento necessario, né tantomeno sufficiente.

Precisazioni banali, certo. Ma già solo fare chiarezza su questi due termini può contribuire a scovare la vera eziologia di certi malesseri che avvelenano l’ambiente lavorativo.

Facciamo un passo in più. Se intesi nel modo proposto, carriera o successo celano, rispettivamente, due domande profondamente diverse: una è di censo, l’altra è di senso. E proprio tali domande definiscono, quasi programmaticamente, il nostro rapporto con la realtà che ci circonda.

Infatti, in una qualche misura, se il focus della vita professionale è sbilanciato sulla carriera, il rischio concreto è quello di vivere nel costante rifiuto della condizione presente, che si traduce in una perenne tensione verso altro. La realtà che si sta vivendo è una situazione transitoria di cui sbarazzarsene quanto prima, per potersi dedicare, tra apnee e affanni, al balzo successivo. Un po’ come alcuni sportivi impegnati in gare di resistenza che, pur attraversando luoghi incantevoli, non possono permettersi il lusso di alzare lo sguardo tanto è lo sforzo. 

Si finisce così nell’assolutizzare la propria fame di traguardo, non godendosi il viaggio (e va bene) e, cosa ben peggiore, rischiando di categorizzare i malcapitati compagni esclusivamente secondo le categorie dell’utilità e della non utilità. Praticamente le persone come utensili. 

Inoltre, e questo è un esito tra il beffardo e l’ironico, alla fine di questa corsa divoratrice di paesaggi e persone, individualissima competizione per risorse scarse, il discorso sul merito alla fine sopravvive solo sulla bocca di chi l’ha spuntata, mentre la numerosa schiera di delusi ne ha già pronto il sermone funebre. 

Diversamente, nella mia (per forza di cose, limitata) esperienza riscontro che il successo è spesso costruito sull'accoglienza della realtà così come si presenta, aprendosi ad essa e a quanto offre, anche quando questa offerta non è propriamente allettante.

Attenzione, non si sta affermando che bisogna accettare passivamente la realtà, annegando sogni e aspirazioni. Quelli sono il motore del nostro agire. Essi devono però essere riconciliati con una realtà che si impone con quella carica normativa tipicamente insita nel fattuale. 

Quindi, se dannarsi per la carriera presuppone di lavorare oggi per ciò che forse (non) sarà domani, il successo si costruisce partendo da ciò che c’è. Dai colleghi che abbiamo oggi, dal nostro ruolo attuale, dalla nostra maturità umana di adesso, da tutti i vincoli esogeni che sono dati. Magari non possiamo prendere decisioni, abbiamo un ruolo più basso di quello che potremmo ricoprire, tecnicamente potremmo anche dare un contributo professionale enormemente maggiore, e magari anche migliore di quello che stanno dando altri in posizioni superiori… tutto vero. Ma costruire buone relazioni, gettare ponti, accettare di compromettersi in un conflitto scomodo per deradicalizzarlo da dentro, agire con trasparenza, smascherare inganni chiedendo urbanamente chiarimenti… tutto ciò è in nostro potere, adesso.

Per voi coraggiosi che siete giunti fin qui: perdonate l’infilata di banalità cui vi ho sottoposto. Tutto questo sproloquio non è che l’introduzione a ciò che veramente vorrei condividere con voi.

Quando mi sento vacillare tra carriera e successo, ritorno ad un piccolo paragrafo di un grande testo, scritto da persone, queste sì, di successo. Sono quelle del titolo, cui mi riprometto di andare a bottega. Di queste persone, non tutte hanno fatto carriera, ma tutte hanno fatto la storia. 

Mi hanno detto che perfino in seminario ci sono dei ragazzi che si tormentano per trovare la loro vocazione. Se gli aveste detto fin dalle elementari che la vocazione l'abbiamo tutti eguale: fare il bene là dove siamo, non sciuperebbero gli anni migliori della loro vita a pensare a sé stessi.

(Da Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana)

Insomma, perché tormentarsi per quel che sarà? La sfida di accogliere quel che è non basta già a riempire una vita intera?