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Isolitudine: soli, tuttavia mai da soli

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Isolitudine: soli, tuttavia mai da soli


Desiderando abitare alcuni sostantivi inusuali i quali, nondimeno, vivono nella nostra amata lingua italiana e possono avere un retro-significato riparativo-generativo, proviamo a cimentarci con isolitudine.

Sfogliamo, immediatamente, il Treccani on-line e troviamo: «condizione esistenziale propria di chi vive o è cresciuto in un’isola, in senso letterale o più raramente metaforico». Senza nulla togliere al valore dei primi significati segnalati, noi siamo interessati alla metaforica valenza del termine.

Il neologismo isolitudine gode di almeno una duplice paternità: il poeta cubano Guillermo Cabrera Infante (1929-2005) e lo scrittore, poeta ed aforista italiano Gesualdo Bufalino (1920-1996).

L’etimo salda isola e solitudine, entrambe di nobile stirpe latina: ìnsula e solitudinem. Nonostante l’istantanea assonanza, e come tale risuona nella nostra mente, in realtà sono falsi parenti. Mentre isola giunge a noi procedendo da in a cui si avvicina solum, mare includente, solo solitudine, chiedo venia per il raddoppio cacofonico, avanza dall’aggettivo solus.

Approdiamo, quindi, al senso metaforico.

Isolitudine è una ripercussione emotiva la quale fa diventare, noi stessi, isola nell’isola di noi stessi. Siamo difronte a quello che il filosofo Massimo De Carolis definisce “paradosso antropologico” costitutivo della natura umana.

Una spinta centripeta ed una centrifuga incedono nella nostra interiorità.

Mentre la prima vuole circoscrivere un rifugio portuale rasserenante, la seconda vuole salpare verso il mare aperto.

Entrambe eccedenti in ambiguità; entrambe essenziali.

Isolitudine è una sorta di Giano bifronte che dimora l’essere della persona.

Quando rientriamo in noi stessi, i fatti che abbiamo esperito diventano rappresentazioni dando vita a quegli scenari i quali costituiscono o ri-costruiscono il nostro intimo mondo simbolico: è la nostra partenza o ri-partenza.

Persino una profonda inquietudine può diventare un imprevedibile potenzialità.

Già il caro filosofo Ludwig Wittgenstein, alla proposizione n. 2.1 del suo Tractatus logico-philosophicus (1921) sosteneva che: «noi ci facciamo immagini dei fatti» e, proseguendo, rinforzava, alla 2.12: «l’immagine è un modello della realtà» per concludere, alla 2.141, con: «l’immagine è un fatto».

Azzardiamo un’ermeneutica: noi possiamo immaginare di essere soli, in realtà non lo siamo mai.

In alternanza di attenzione, come segnalazione dell’inganno che accompagna la vita o della consapevolezza viva dell’ontologia relazionale esistenziale, il filosofo Herbert Marcuse (1898-1979) e lo scrittore, monaco cristiano statunitense, Thomas Merton (1915-1968), sono sempre contemporanei.

Il primo, con il suo L’uomo a una dimensione (titolo originale: One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society), un testo del 1964, ricorda a noi come non si debba mai abbandonare l’esercizio del pensiero critico – prima di tutto proprio rientrando in noi stessi – per evitare l’accettazione supina dell’unidimensionalità che «qualcuno» vorrebbe, cripticamente o esplicitamente, imporci.

Il secondo, con il saggio del 1955 Nessun uomo è un’isola (titolo originale: No Man Is an Island), rammenta, sempre a noi, che ogni essere umano è costitutivamente partecipe al e del destino dell’intera umanità: l’uomo è sempre una parte, decisamente significativa, di un tutto relazionato in modo ininterrotto.

Thomas Merton è fermamente convinto che la realizzazione di ogni nostra attività è, di fatto, una scelta relazionale fatta per gli altri, con loro e, quindi, anche da loro. E, per reciprocità, ciò che gli altri fanno a noi è fatto in noi e diventa fatto da noi e per noi. Ciò nonostante, ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che lui stesso opera nella e per la vita dell’intera società.

Da queste intense riflessioni, sinteticamente, cosa possiamo recepire: che si è fertili e generativi stando sul confine del duplice desiderio che marca il nostro centripetismo ed il nostro centrifughismo quotidiani, senza obliare l’uno o l’altro polo del nostro essere personale e senza evadere dalla realtà stessa.