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Doppio binario e ne bis in idem: la spinosa questione davanti alla Corte Costituzionale

Nota a sentenza Corte costituzionale n. 102/2016
Doppio binario e ne bis in idem: la spinosa questione davanti alla Corte Costituzionale
Doppio binario e ne bis in idem: la spinosa questione davanti alla Corte Costituzionale

Abstract: la Corte Costituzionale si è pronunciata (sebbene non abbia deciso) sulla compatibilità del doppio binario sanzionatorio, previsto dalla disciplina degli abusi di mercato, con il principio del ne bis in idem. Nota a sentenza Corte costituzionale n. 102/2016

Sommario: 1. La vicenda innanzi la Corte Costituzionale; 2. I possibili scenari.

1. La vicenda innanzi la Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 102 del 2016 la Corte Costituzionale è intervenuta sulla spinosa questione concernente la compatibilità dei doppi binari sanzionatori con il principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la Consulta è stata investita da questioni formulate sia dalla quinta sezione penale della Cassazione sia dalla sezione tributaria della stessa Cassazione; questioni che avevano tutte come oggetto la normativa degli abusi di mercato contenuta nel Decreto Legislativo 58/1998(c.d. testo unico della finanza).

Più precisamente, la quinta sezione penale della Cassazione aveva sollevato,  in via principale, questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in poi CEDU), dell’articolo 187-bis, comma 1, del Decreto Legislativo 58/1998 nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato».

In via subordinata, invece, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’articolo 649 del codice di procedura penale nella parte in cui suddetta disposizione non prevede l’applicabilità della sua disciplina nel caso in cui l’imputato sia stato giudicato con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi Corte EDU).

La sezione tributaria, invece, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione in relazione agli articoli 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’articolo 187-ter, comma 1, del Decreto Legislativo n. 58/1998, nella parte in cui prevede la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall’articolo 185 del medesimo Decreto Legislativo n. 58/1998 e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’articolo 187-ter dello stesso decreto.

Tutte queste questioni, però, per vari motivi, sono state dichiarate inammissibili e, di conseguenza, la Corte Costituzionale non è entrata nel merito di questa spinosa questione.

Le ragioni di questa scelta appaiono censurabili, soprattutto per quanto concerne la questione subordinata sollevata dalla quinta sezione penale.

Infatti, se da un lato, la questione principale sollevata dalla quinta sezione penale appariva irrilevante poiché la norma aveva già trovato applicazione nel relativo procedimento amministrativo (punto 6.1 del considerato in diritto) e, dall’altro, il ricorso presentato dalla sezione tributaria era oscuro e incerto (punto 6.3 del considerato in diritto), non sembravano sussistere valide motivazioni per il rigetto della questione subordinata sollevata dalla quinta sezione penale che, però, a differenza di quanto ci si potesse aspettare, è stata anch’essa rigettata per il carattere perplesso della motivazione dell’ordinanza di rimessione (punto 6.2 del considerato in diritto).

La Corte Costituzionale, ha evidenziato che, come già fatto dalla stessa Corte rimettente, con questo intervento additivo si sarebbe potuto creare uno status di incertezza e di casualità in merito alle sanzioni applicabili e tale circostanza avrebbe comportato la violazione di principi costituzionali; tra questi possiamo ricordare: i principi di determinatezza e di legalità della sanzione penale e il principio di ragionevolezza e di parità di trattamento. In merito alla lesione dei principi, però, la Corte di Cassazione riteneva che questi sarebbero dovuti soccombere di fronte al primario e attuale diritto dei soggetti a non essere giudicati due volte per lo stesso fatto.

In aggiunta, la Corte Costituzionale ha risaltato che con tale intervento additivo, non sarebbero stati eliminati tutti i problemi generati dal doppio binario sanzionatorio; problemi che, come brillantemente messo in evidenza, possono essere eliminanti solo tramite un intervento legislativo. È anche vero, però, che la Consulta, qualora avesse effettuato questo intervento additivo, avrebbe di certo attenuato tali problematiche in attesa dell’intervento legislativo.

2. I possibili scenari

Come appena visto la Corte Costituzionale, con la decisione in esame, non è entrata nel merito della questione e, così facendo, ha demandato al legislatore, che dovrà attuare i nuovi atti delle Istituzioni europee, il compito di trovare una efficace soluzione. 

In tale modo, però, i giudici della Consulta non hanno considerato, come invece fatto dai giudici della Cassazione, la situazione di coloro che, oggi, sono stati già sanzionati in sede amministrativa e sono sottoposti a procedimento penale per il medesimo fatto. Chi deve tutelare i diritti di questi soggetti?

È questo l’interrogativo al quale oggi ­­- in attesa dell’intervento legislativo ­- si deve dare una risposta immediata per evitare ulteriori censure della normativa e relative condanne ad opera della Corte EDU; risposta che, come vedremo, può trovarsi proprio nel concedere una più ampia sfera di applicabilità all’articolo 649 del codice di procedura penale anche alla luce della sentenza Grande Stevens contro Italia, del 04 marzo 2014 e divenuta definitiva il 7 luglio del medesimo anno, pronunciata dalla Corte EDU.

Più in dettaglio la Cassazione in questa questione aveva chiesto un intervento additivo affinché si potesse estendere l’operatività di questo articolo anche nel caso in cui la prima decisione fosse stata di natura penale-amministrativa e non prettamente penale-criminale.

A parere di chi scrive tale estensione era (è) possibile e ciò in quanto, come già detto da autorevole dottrina, la norma, sancendo un principio di garanzia, assume una «portata generale», e può quindi essere interpretata estensivamente, nel senso di far ricomprendere nel concetto di “sentenza o decreto penale” anche i provvedimenti di condanna formalmente amministrativi ma definiti sostanzialmente penali dalla giurisprudenza della Corte EDU.

D’altronde, tale dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 649 del codice di procedura penale, fu segnalata come una possibile soluzione già dai primi commentatori della Sentenza Grande Stevens c. Italia

Resta da precisare ancora una volta che questa soluzione interpretativa, qualora fosse stata avvallata, non sarebbe stata in grado di porre fine a tutte le problematiche generate dalla normativa in questione.

Infatti tale soluzione non è applicabile in alcuni casi: basti pensare ai procedimenti ancora in corso (sia in sede amministrativa che penale), a quelli già definiti (sia in sede amministrativa che penale) e a quelli ancora da iniziare.

In questi ultimi tre casi l’articolo 649 del codice di procedura penale è inapplicabile a priori poiché, testualmente, presuppone che uno dei due procedimenti sia terminato e, per questo motivo, sono state escogitate altre soluzioni.

È di tutta evidenza, dunque, che i giudici costituzionali non se la siano sentita di mettere a rischio i principi costituzionali di cui sopra per una decisione inidonea a superare ogni problematica in merito e, per questo, definita di ripiego.

Ora, stante così le cose, da un lato, si dovrà attendere il tanto auspicato intervento legislativo il quale dovrà essere idoneo ad eliminare ogni tipo di problematica in merito e, dall’altro, bisognerà trovare delle soluzioni alternative ed efficienti affinché si possano tutelare le situazioni di coloro che, oggigiorno, sono stati già sanzionati in sede amministrativa e sono sottoposti a procedimento penale per il medesimo fatto.

In ordine a quest’ultimo punto sono state prospettate varie soluzioni.

La prima è quella di interpretare in maniera conforme alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali l’articolo 649 del codice di procedura penale ed in tale senso, seppure in altra materia, si è espresso il Tribunale di Brindisi (Trib. Brindisi, Sezione penale, sentenza 17 ottobre 2014). È lampante che così facendo si avrebbero, seppure per via interpretativa, i medesimi effetti del mancato intervento additivo.

La seconda consiste nel dare applicazione diretta all’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea visto che siamo in presenza di una disciplina interna emanata in attuazione di quella dell’Unione Europea (Sentenza Corte Costituzionale n. 80 del 2011). Tale soluzione, però, sembra non percorribile in base alla statuizione Fransson (Grande sezione della Corte di Giustizia Europea del 26 febbraio 2013) ove è stato previsto - al paragrafo 36 -  che il giudice interno, prima di dichiarare la violazione del ne bis in idem, effettui delle valutazioni ulteriori e, più precisamente, deve valutare se le rimanenti sanzioni (ovvero quelle amministrative, verosimilmente già inflitte) siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Tale modo di procedere è, però, incompatibile con la Giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo perché, secondo la stessa, basta solo che le sanzioni amministrative applicate siano valutate come penali ai sensi dei criteri Engel per considerare violato il principio del ne bis in idem.

Sul punto merita ricordare che sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, qualora la stessa contenga dei diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione.

In definitiva è evidente che quanto detto nel caso Fransson non sia in linea con quest’ultima disposizione e, pertanto, la valutazione ulteriore richiesta al giudice può agevolmente essere bypassata.

In ultimo merita di essere ricordato che in questa materia sono intervenuti nuovi atti emanati dalle Istituzioni dell’Unione Europea e, più precisamente, la direttiva 2014/57/UE (MAD II) e il regolamento 2014/514/UE.

Concludiamo con il dire che, il Governo, tramite la legge di delega 114/2015, è stato delegato ad attuare questa nuova normativa comunitaria e, pertanto, ad Esso è stato conferito questo arduo e delicato incarico di emanare una disciplina che si conformi a quanto statuito nella sentenza Grande Stevens contro Italia.

Abstract: la Corte Costituzionale si è pronunciata (sebbene non abbia deciso) sulla compatibilità del doppio binario sanzionatorio, previsto dalla disciplina degli abusi di mercato, con il principio del ne bis in idem. Nota a sentenza Corte costituzionale n. 102/2016

Sommario: 1. La vicenda innanzi la Corte Costituzionale; 2. I possibili scenari.

1. La vicenda innanzi la Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 102 del 2016 la Corte Costituzionale è intervenuta sulla spinosa questione concernente la compatibilità dei doppi binari sanzionatori con il principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la Consulta è stata investita da questioni formulate sia dalla quinta sezione penale della Cassazione sia dalla sezione tributaria della stessa Cassazione; questioni che avevano tutte come oggetto la normativa degli abusi di mercato contenuta nel Decreto Legislativo 58/1998(c.d. testo unico della finanza).

Più precisamente, la quinta sezione penale della Cassazione aveva sollevato,  in via principale, questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in poi CEDU), dell’articolo 187-bis, comma 1, del Decreto Legislativo 58/1998 nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato».

In via subordinata, invece, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’articolo 649 del codice di procedura penale nella parte in cui suddetta disposizione non prevede l’applicabilità della sua disciplina nel caso in cui l’imputato sia stato giudicato con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi Corte EDU).

La sezione tributaria, invece, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione in relazione agli articoli 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’articolo 187-ter, comma 1, del Decreto Legislativo n. 58/1998, nella parte in cui prevede la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall’articolo 185 del medesimo Decreto Legislativo n. 58/1998 e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’articolo 187-ter dello stesso decreto.

Tutte queste questioni, però, per vari motivi, sono state dichiarate inammissibili e, di conseguenza, la Corte Costituzionale non è entrata nel merito di questa spinosa questione.

Le ragioni di questa scelta appaiono censurabili, soprattutto per quanto concerne la questione subordinata sollevata dalla quinta sezione penale.

Infatti, se da un lato, la questione principale sollevata dalla quinta sezione penale appariva irrilevante poiché la norma aveva già trovato applicazione nel relativo procedimento amministrativo (punto 6.1 del considerato in diritto) e, dall’altro, il ricorso presentato dalla sezione tributaria era oscuro e incerto (punto 6.3 del considerato in diritto), non sembravano sussistere valide motivazioni per il rigetto della questione subordinata sollevata dalla quinta sezione penale che, però, a differenza di quanto ci si potesse aspettare, è stata anch’essa rigettata per il carattere perplesso della motivazione dell’ordinanza di rimessione (punto 6.2 del considerato in diritto).

La Corte Costituzionale, ha evidenziato che, come già fatto dalla stessa Corte rimettente, con questo intervento additivo si sarebbe potuto creare uno status di incertezza e di casualità in merito alle sanzioni applicabili e tale circostanza avrebbe comportato la violazione di principi costituzionali; tra questi possiamo ricordare: i principi di determinatezza e di legalità della sanzione penale e il principio di ragionevolezza e di parità di trattamento. In merito alla lesione dei principi, però, la Corte di Cassazione riteneva che questi sarebbero dovuti soccombere di fronte al primario e attuale diritto dei soggetti a non essere giudicati due volte per lo stesso fatto.

In aggiunta, la Corte Costituzionale ha risaltato che con tale intervento additivo, non sarebbero stati eliminati tutti i problemi generati dal doppio binario sanzionatorio; problemi che, come brillantemente messo in evidenza, possono essere eliminanti solo tramite un intervento legislativo. È anche vero, però, che la Consulta, qualora avesse effettuato questo intervento additivo, avrebbe di certo attenuato tali problematiche in attesa dell’intervento legislativo.

2. I possibili scenari

Come appena visto la Corte Costituzionale, con la decisione in esame, non è entrata nel merito della questione e, così facendo, ha demandato al legislatore, che dovrà attuare i nuovi atti delle Istituzioni europee, il compito di trovare una efficace soluzione. 

In tale modo, però, i giudici della Consulta non hanno considerato, come invece fatto dai giudici della Cassazione, la situazione di coloro che, oggi, sono stati già sanzionati in sede amministrativa e sono sottoposti a procedimento penale per il medesimo fatto. Chi deve tutelare i diritti di questi soggetti?

È questo l’interrogativo al quale oggi ­­- in attesa dell’intervento legislativo ­- si deve dare una risposta immediata per evitare ulteriori censure della normativa e relative condanne ad opera della Corte EDU; risposta che, come vedremo, può trovarsi proprio nel concedere una più ampia sfera di applicabilità all’articolo 649 del codice di procedura penale anche alla luce della sentenza Grande Stevens contro Italia, del 04 marzo 2014 e divenuta definitiva il 7 luglio del medesimo anno, pronunciata dalla Corte EDU.

Più in dettaglio la Cassazione in questa questione aveva chiesto un intervento additivo affinché si potesse estendere l’operatività di questo articolo anche nel caso in cui la prima decisione fosse stata di natura penale-amministrativa e non prettamente penale-criminale.

A parere di chi scrive tale estensione era (è) possibile e ciò in quanto, come già detto da autorevole dottrina, la norma, sancendo un principio di garanzia, assume una «portata generale», e può quindi essere interpretata estensivamente, nel senso di far ricomprendere nel concetto di “sentenza o decreto penale” anche i provvedimenti di condanna formalmente amministrativi ma definiti sostanzialmente penali dalla giurisprudenza della Corte EDU.

D’altronde, tale dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 649 del codice di procedura penale, fu segnalata come una possibile soluzione già dai primi commentatori della Sentenza Grande Stevens c. Italia

Resta da precisare ancora una volta che questa soluzione interpretativa, qualora fosse stata avvallata, non sarebbe stata in grado di porre fine a tutte le problematiche generate dalla normativa in questione.

Infatti tale soluzione non è applicabile in alcuni casi: basti pensare ai procedimenti ancora in corso (sia in sede amministrativa che penale), a quelli già definiti (sia in sede amministrativa che penale) e a quelli ancora da iniziare.

In questi ultimi tre casi l’articolo 649 del codice di procedura penale è inapplicabile a priori poiché, testualmente, presuppone che uno dei due procedimenti sia terminato e, per questo motivo, sono state escogitate altre soluzioni.

È di tutta evidenza, dunque, che i giudici costituzionali non se la siano sentita di mettere a rischio i principi costituzionali di cui sopra per una decisione inidonea a superare ogni problematica in merito e, per questo, definita di ripiego.

Ora, stante così le cose, da un lato, si dovrà attendere il tanto auspicato intervento legislativo il quale dovrà essere idoneo ad eliminare ogni tipo di problematica in merito e, dall’altro, bisognerà trovare delle soluzioni alternative ed efficienti affinché si possano tutelare le situazioni di coloro che, oggigiorno, sono stati già sanzionati in sede amministrativa e sono sottoposti a procedimento penale per il medesimo fatto.

In ordine a quest’ultimo punto sono state prospettate varie soluzioni.

La prima è quella di interpretare in maniera conforme alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali l’articolo 649 del codice di procedura penale ed in tale senso, seppure in altra materia, si è espresso il Tribunale di Brindisi (Trib. Brindisi, Sezione penale, sentenza 17 ottobre 2014). È lampante che così facendo si avrebbero, seppure per via interpretativa, i medesimi effetti del mancato intervento additivo.

La seconda consiste nel dare applicazione diretta all’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea visto che siamo in presenza di una disciplina interna emanata in attuazione di quella dell’Unione Europea (Sentenza Corte Costituzionale n. 80 del 2011). Tale soluzione, però, sembra non percorribile in base alla statuizione Fransson (Grande sezione della Corte di Giustizia Europea del 26 febbraio 2013) ove è stato previsto - al paragrafo 36 -  che il giudice interno, prima di dichiarare la violazione del ne bis in idem, effettui delle valutazioni ulteriori e, più precisamente, deve valutare se le rimanenti sanzioni (ovvero quelle amministrative, verosimilmente già inflitte) siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Tale modo di procedere è, però, incompatibile con la Giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo perché, secondo la stessa, basta solo che le sanzioni amministrative applicate siano valutate come penali ai sensi dei criteri Engel per considerare violato il principio del ne bis in idem.

Sul punto merita ricordare che sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, qualora la stessa contenga dei diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione.

In definitiva è evidente che quanto detto nel caso Fransson non sia in linea con quest’ultima disposizione e, pertanto, la valutazione ulteriore richiesta al giudice può agevolmente essere bypassata.

In ultimo merita di essere ricordato che in questa materia sono intervenuti nuovi atti emanati dalle Istituzioni dell’Unione Europea e, più precisamente, la direttiva 2014/57/UE (MAD II) e il regolamento 2014/514/UE.

Concludiamo con il dire che, il Governo, tramite la legge di delega 114/2015, è stato delegato ad attuare questa nuova normativa comunitaria e, pertanto, ad Esso è stato conferito questo arduo e delicato incarico di emanare una disciplina che si conformi a quanto statuito nella sentenza Grande Stevens contro Italia.