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L'incontro tra il "sommo" Beethoven e il giovane Wagner

Franz von Lenbach. Ritratto di Richard Wagner (1871)
Franz von Lenbach. Ritratto di Richard Wagner (1871)

Richard Wagner, ancora giovanissimo, si invaghì della musica (oltre che della letteratura, della poesia, del teatro, della storia e della filosofia) e per impadronirsi dei suoi segreti, sempre restando autodidatta, decise di adottare un metodo poco ortodosso, ma infallibile: copiare e ricopiare, copiare e ricopiare mille volte sonate, concerti e sinfonie. Attraverso il faticoso lavoro della copiatura, esplorava tutti i dettagli, scopriva tutte le tecniche e tutti i segreti compositivi. Wagner aveva adottato il metodo dei pittori che, per imparare, negli atelier, copiavano i capolavori dei loro Maestri.

Alla fine di una ennesima copiatura ebbe una idea semplicemente folle: andare a Vienna e incontrare Ludwig van Beethoven, il grande sordo, il grande orso, lo scorbutico, ombroso, spigoloso, solitario gigante della musica, ancora vivente.

C’erano due difficoltà da superare: la prima era che il giovane Richard non aveva i soldi per pagarsi il lungo viaggio da Lipsia a Vienna; la seconda, la più difficile, forse insormontabile, un azzardo, era riuscire a farsi ricevere da quel vecchio misantropo.

Per pagarsi il viaggio Wagner era disposto a tutto, anche a umiliarsi. Si mise perciò a comporre centoni e galoppi, cioè piacevoli ballabili, gradevoli e facili melodie che gli editori acquistavano sempre volentieri. Il gruzzolo racimolato era sufficiente per pagarsi il vitto e l’alloggio durante il viaggio, ma non il passaggio in carrozza per un percorso così lungo. Perciò Richard, forte del suo tesoretto e della sua gioventù, si mise le gambe in spalla e, a piedi, partì alla volta di Vienna.

Giunto finalmente nella capitale della musica, il giovanotto si sistemò in una cameretta al quinto piano di una locanda situata proprio di fronte alla casa del Grande. “Lì”, scrive Wagner, “mi preparai al più solenne avvenimento della mia vita”.

La locanda era gremita di viaggiatori, di stranieri, di musicisti, di studenti di Conservatorio e di curiosi, disposti a tutto pur di incontrare, o almeno vedere, Beethoven. Ma il Sommo, che sapeva di essere braccato, di essere inseguito, di essere guardato dalla gente come fosse una bestia rara,  non voleva vedere nessuno, non voleva avere niente a che fare con l’umanità.

Beethoven non usciva mai di casa dalla porta principale; usciva da una porticina sul retro del giardino, nascosta dalle foglie di una siepe. Tutti i giorni, camminando a piccoli passi veloci, andava alla sua birreria preferita per bersi, con calma, un gran boccale di birra. Si sedeva in un angolo, da solo, con le spalle voltate alla gente, la testa tra le nuvole e lo sguardo perso nel vuoto. Quello era il suo tavolo, nessuno avrebbe avuto il coraggio di occuparlo e se qualche malcapitato, per ignoranza o per ardire, avesse osato avvicinarsi avrebbe trovato sulla sua strada le robuste braccia dell’oste e forse anche la sua gamba tesa.

Dopo alcuni giorni di appostamenti per la strada, Wagner riuscì a vederlo. Era lui, senza dubbio. Indossava un vecchio cappotto blu scuro ed era “vestito di un abito da mattino frusto e in disordine, con il busto cinto da una sciarpa rossa: la folta e lunga capigliatura grigia gli incorniciava il volto; e l’espressione dei suoi lineamenti era rabbuiata e dura”. Wagner cercò di fare un passo verso il Maestro, ma non riuscì a muoversi, le gambe gli tremavano dall’emozione. Capì che l’incontro a sorpresa con un tale uomo non avrebbe funzionato e che dunque bisognava tentare una strada diversa e meno improvvisata. Si rivolse allora all’oste della birreria. Gli parlò di sé, con accenti sinceri e accorati, e lo pregò di consegnare al Maestro, da parte sua, una busta contenente una lunga lettera e uno spartito. Nella lettera il giovane Richard aveva tracciato brevemente la storia della sua vita, raccontando come fosse diventato musicista, come avesse desiderato conoscerlo, come avesse sempre adorato la sua musica, come avesse compiuto il lungo viaggio a piedi, da Lipsia a Vienna, in devoto pellegrinaggio, con l’unico scopo di poterlo incontrare. Allegò alla lettera alcune pagine di musica sua e poi sistemò il tutto in una grande busta.

“Chiusi la lettera con un vero tumulto nel cuore”, scrive Wagner, “ed ebbi quasi un capogiro nello scrivere l’indirizzo: <Al signor Ludwig van Beethoven>”.

La risposta non si fece attendere: “Scusatemi signor Richard di non potervi ricevere sino a domattina, essendo occupato oggi a preparare un pacco di musica per il corriere. Vi aspetterò domani. Beethoven”.

Il giovanotto non stava nella pelle per la gioia e per l’ansia della attesa. Trascorse la giornata a girovagare per Vienna e la sera assistette alla rappresentazione del Fidelio. Si trattava del rifacimento di un’opera dal titolo Leonora, che alla prima rappresentazione venne condannata a un memorabile fiasco. Ora la parte di Leonora era sostenuta da una giovanissima cantante, Giuseppina Schroeder. L’artista, interpretando la sua difficile parte con passione e poesia, seppe trascinare il frivolo pubblico viennese a un irrefrenabile entusiasmo. Anche Wagner rimase profondamente colpito. “Quanto a me”, scrive, “si era aperto il paradiso; mi ero come trasumanato e mi beavo del genio che, come Florestan, mi aveva trasportato dalla notte e dalle catene alla luce e alla libertà”.

Richard non chiuse occhio tutta la notte per l’emozione e per l’eccitazione. La mattina successiva, finalmente, incontrò Beethoven.

Venne invitato a sedere a un tavolo coperto di penne e boccette d’inchiostro, di piatti con avanzi di cibo, di tazze, di bicchieri, di bottiglie vuote e di pile di carte da musica, in parte scritte e in parte vergini, disposte nel più assoluto disordine. Beethoven lo guardò con aria visibilmente contrariata e gli chiese: “Voi venite da Lipsia?”. Richard stava per rispondergli, quando il Maestro lo arrestò. Porgendogli un foglio di carta, gli disse con voce rauca: “Scrivete, perché non sento”. Richard sapeva della leggendaria sordità di Beethoven, ma quelle parole “furono come un colpo di pugnale”.

Beethoven parlava, chiedeva e rispondeva e Richard scriveva le sue domande e le sue risposte. Questo dialogo asimmetrico durò a lungo, facendosi sempre più intenso, e la ruvida scorza di timidezza del Genio cominciò lentamente a sgretolarsi. Beethoven dichiarò sorridendo a Wagner che: “I viennesi mi fanno spesso perdere la pazienza, essi sentono ogni giorno troppo deplorevoli futilità per essere in grado di ascoltare seriamente qualcosa di serio”.

Dopo aver trattato il tema del teatro musicale, che stava tanto a cuore al promettente compositore, Beethoven gli confidò, stringendosi nelle spalle e tenendo gli occhi bassi, di aver appena ultimato una sinfonia dalla forma piuttosto inconsueta, nella quale la musica strumentale apre la strada, per così dire, a un finale affidato al canto vocale. “Il bellissimo inno del nostro Schiller, Alla gioia, è certamente una bellissima e nobile poesia, pur se molto lontana dall’esprimere ciò che, del resto, nessun verso al mondo potrebbe esprimere”.

Molti anni più tardi, Wagner, ricordando quell’incontro memorabile, scrisse che: “Oggi ancora posso a fatica dominare il senso di felicità che mi dette Beethoven con l’iniziarmi all’intelligenza completa di quella sua prodigiosa ultima sinfonia, che egli aveva appena terminato, e che era dunque ancora ignota a tutti. Gli espressi con effusione la mia riconoscenza per questo suo raro favore e al tempo stesso gli esternai la commozione immensa che provavo per avere egli, a me per primo, dato notizia di una nuova opera del suo genio. Avevo le lacrime agli occhi e stavo per inginocchiarmi davanti a lui”.

Il racconto qui pubblicato è tratto da "Chopin a Palma di Majorca e altre storie", edito da La Vita felice, 2°ed, .2010.