All’ombra del Biedermeier. L’Ottocento viennese
All’ombra del Biedermeier. L’Ottocento viennese
Una passeggiata, tra storia e immagini, alla ricerca del vero Danubio viennese. Un interludio, in quell’Ottocento che portò l’Austria al suo finale, rischiarato da immagini da favola, miriadi di particolari, attenzioni, minuti divertimenti.
Una delle delusioni di chi viene a Vienna per la prima volta e s’è figurato la città attraversata dal fiume come Roma dal Tevere o Verona dall’Adige, è il Danubio. Non che sia magro d’acque. E’ già grosso qui, dove si chiama Donau, e ancor più ingrosserà quando si chiamerà Dunev e poi Duna, nome con cui s’immerge nel Mar Nero. Ma delude all’aspetto, perché i Danubii sono tre. Quello che attraversa la città si chiama Kanal, ed è un braccio del fiume che nel secolo scorso fu stretto tra rive di pietra, come dappertutto: non è blu, ma giallo, e scorre con giravolte urbanistiche nella città, fino a congiungersi col Grande Danubio, appena fuori di questa. Il Grande Danubio si trova dopo aver attraversato tutta la zona del Prater, lungo stradoni di tetre case del primo Novecento, con tremende chiese falso gotiche e falso Rinascimento annerite di fumo, e dopo un’infilata di piazze, i cui nomi evocano le ultime vittorie (Teget-hoff-platz) e le prime grandi sciagure (Mexico-platz) dell’Austria. Il Danubio moderno è questo. Fu regolato nel 1875, l’anno che segnò la fine del Danubio storico. Ma una riva fiancheggiata da squallide preterie, che servono di sfogo alle inondazioni e l’altra orlata di chiatte e rimorchiatori.
Da questo Danubio tristissimo, i turisti vengon via immalinconiti e delusi. Il Danubio blu non esiste, dicono, dopo aver sostato sul piccolo fiume di città e l’enorme fiume giallo. Ma c’è. Il vecchio Danubio va cercato con fede.
E’ la Alte Donau, una sorpresa struggente, parentesi di una illusione. Scorre o, piuttosto, si muove appena, limpido e quieto, tra molli cortine di querce. Non comunica col nuovo fiume, se non per vie sotterranee, falde che filtrano le acque tra ghiaie e sabbie profonde. Questo Danubio, sì, è terso e limpido. Quando il cielo è sereno, l’acqua ha levigate apparenze che giustificano antichi paragoni con lo zaffiro. Se l’aria è cupa, ne riflette le ombre, come uno specchio appannato. Sulle rive passeggiano anziani signori col cane, meditativi malinconici, rade coppie d’innamorati. Nascosti negli alberi per non sciupare l’illusione, si annidano piccoli ristoranti, stabilimentini di bagni, barche a colori vivaci e imbarcaderi dove un cartello vi augura un felice ritorno, che mai non vi venisse in mente la sciagurata idea d’annegare.
Il vecchio Danubio è vivo, come un oggetto naturale amorosamente custodito in vetrina. Tra queste querce, questi prati solcati di leggeri sentieri, queste acque silenziose, si decisero nella primavera del 1809 le battaglie che dovevano costringere Francesco II a deporre la corona di Carlo Magno. Si può dire che tra queste spiaggette sabbiose venisse a morire il Sacro Romano Impero di nazione germanica. E qui nacque l’Austria borghese, che doveva sopravvivergli di un secolo.
La città, a differenza d’altri luoghi, non ha distrutto i suoi dolci sobborghi. Li ha avvolti, ma li ha lasciati vivere con l’architettura quieta, il verde, le palazzine tra fine Settecento e un Impero che il rimpicciolimento rende leggiadro. Viene ancora in mente quel passo di Tacito a proposito dei Germani: “Essi non amano le abitazioni unite e contigue come le nostre, ma usano separarle con grandi spazi di verde”. Di questo individualismo domestico restano intatti i sobborghi eleganti delle villeggiature. Se Vienna cominciò prima delle altre città europee lo stile borghese, bisogna dire che è anche l’ultima a difenderlo. Le scene di questa vita si possono vedere alle pareti del Belvedere del Principe Eugenio, dove si allineano i quadri dei Dannähuser, degli Agricola, dei Führich, di questi pittori dell’Ottocento austriaco che furono i Tiziano e i Goya dello Heimat domestico. Ma fra essi c’è anche Waldmüller, che seppe dipingere il terribile ritratto di Beethoven. In questi quadri sorride la grazia che oggi va tutta, un po’ alla rinfusa, sotto il nome dell’inesistente signor Biedermeier: mai personaggio fittizio ebbe tanto successo nella storia degli stili. Oggi, con l’aiuto degli antiquari, il signor Biedermeier, inventato a tavolino per celia di letterati, contende fama e spazio a qualsiasi Luigi storico.
Il sorriso dell’epoca risplende ancora intatto nelle tele popolate di gruppi di cugine in visita, mogli coi figlioli, proprietari terrieri, giovinetti, vestiti da contadinelli. Abbandonata la mitologia, la pittura scopriva gli affetti domestici, la vita in villa. Questo museo dell’Ottocento austriaco la dice più lunga d’un trattato. Nel Mulino presso Mödling di Ludwig Ferdinand Shnorr, un giovane gentiluomo seduto sotto un largo albero ombroso accanto a una ragazza vestita di rosso, con le spalle nude, offre una moneta ad un pastorello che gli s’inginocchia accanto. Pastori e contadini non disturbano l’idillio signorile, e si tengono a distanza. E via, tra capelli gialli nell’erba, bambine che abbracciano il cane, larghi rosei visi che sorridono incorniciati dai boccoli. Il conte Demetrius Apraxim si appoggia a un covone di grano, tra papaveri e fiordalisi: è un perfetto esemplare di agrario in erba, come potevano concepirlo genitori non ancora turbati dal sospetto che la loro proprietà sarebbe stata presto proclamata un furto. Ecco pittori che dipingono tranquillamente le loro spose, senza mascherarle da Veneri o da Messaline.
Ma poi, le cose si ingarbugliano. Si comincia con una rissa tra cocchieri, mentre un signore in cilindro si sporge dalla carrozza, un bimbo del popolo ride e due signori per strada osservano la scena con l’occhialino. Poi, ecco una servetta in bianco, con le grosse caviglie e la treccia disfatta, che guarda attraverso il buco della serratura. Il progresso cammina.
Ed ecco, oddio, “lo sfratto dei poveri”: il padre si tiene la mano sulla fronte in atto di disperazione, la moglie s’aggrappa al suo braccio, mentre al braccio della mamma s’aggrappa la bambinella con un carriolino di legno, giocattoletto di poveri, evidente opera del padre sfrattato. Una bambina più grandicella supplica un insensibile notaio, con tuba e ombrello verde. Invano, o bimba. Il figlio si appoggia piangente al muro, la vecchia nonna lacrima nel suo letto. Un gendarme e un infermiere, tra questo putiferio di lacrime, tolgono le povere cose dai cassetti e trascinano via il solo materasso della famiglia. Fuggiamo dal museo, ai primi squilli della retorica sociale.
Da “Il Giornale”, 14 luglio 1977