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Borghese e proletario

Leo Longanesi
Leo Longanesi

Le parole invecchiano come le idee, come le bandiere, come gli uomini: le parole si consumano come gli oggetti; le parole tramontano come i giorni; e come gli abiti cambiano foggia, così le parole mutano significato col passare del tempo.

Fino a cent’anni fa, nessuno restava offeso a sentirsi chiamare “borghese”: borghese era un titolo, una condizione onorevole che nessuno rifiutava; i borghesi non si credevano ancora aggettivi dispregiativi della storia, ma sostantivi, nobili, validi, gloriosi sostantivi.

Poi la parola “proletario” li sommerse. Cinquant’anni di polemica, di insulti, di risse, di sangue costrinsero i borghesi a soffiarsi il naso nella loro bandiera. E si disse: vile borghese. La prudenza borghese, l’onestà borghese, la dignità borghese, la tenacia borghese furono dipinte come soprusi fatti al povero, al proletario, al popolo sovrano. E cominciò la grande kermesse plebea, la grande stagione lirica del coro politico, l’ora delle idee cantate, il tempo canoro del socialismo.

Le parole da quel giorno non ebbero più un preciso senso, un preciso significato, un preciso valore; nuovi termini generici entrarono nella conversazione e nei discorsi parlamentari, e la parola progresso, che era un vocabolo borghese, un termine industriale della borghesia laboriosa, che era un sinonimo dell’ottimismo borghese, divenne il vessillo della massa che non aveva vocaboli propri e si affidava al linguaggio degli avvocati.

La borghesia accusata di tradire la libertà, convinta di godere di privilegi destinati al tramonto, si adattò al nuovo mito della violenza proletaria, e attese la rivoluzione. Ma il proletariato, armato di una filosofia che sembrava sconvolgere da capo a fondo l’umanità, non riuscì a distruggere l’ordine borghese.

La massa si inserì con prepotenza e con valide ragioni nella vita economica, agì con forza nella vita sociale, mutò la fisionomia della moderna società col peso della sua forza, ma non riuscì a sconfiggere la borghesia, perché la borghesia non era più una classe, la classe odiata, ma ormai soltanto, e soprattutto, il frutto di una lunga e combattuta storia; la borghesia non era più un ceto privilegiato, era soltanto una tradizione.

Moriva invece una particolare borghesia, quella giacobina, la borghesia di Rousseau, la borghesia democratica, la borghesia che chiameremo socialista, che credette nel suffragio universale, nel “governo della maggioranza cioè dei mediocri”, come diceva Proudhon; moriva quella borghesia che aveva fornito alla massa i propri ideali del progresso, la borghesia romantica, smarrita nel trasformismo politico e nei fronti popolari.

Ma l’anima borghese, lo spirito borghese, la vitalità borghese, l’individualismo borghese restano validi, ed ancora guidano la nostra vita civile.

Civiltà e borghesia sono sinonimi del mondo moderno; l’artigiano, il commerciante, il banchiere, l’avventuriero perfino, che ci precedettero nella costruzione della società attuale, sono pionieri di quell’individualismo borghese che non si è ancora spento, il solo capace di creare ricchezza.

Vario e discorde, povero o ricco, onesto o ladro, il borghese è il personaggio che ancora anima questo vecchio pianeta: egli è ancora l’Uomo per eccellenza, il solo protagonista della nostra storia, vinto o vincitore che sia.

Se dovessimo scegliere, fra tanti, un tipo di borghese, inquieto e sognatore, un borghese al quale erigere un monumento in San Pietro, sceglieremmo Machiavelli, il grande borghese italiano, il borghese umanista, il padre di quella antica patria della borghesia che è l’Italia, e non l’Olanda, non la Francia, non l’Inghilterra.

Umanesimo e borghesia, qui da noi, sono una cosa sola, e tutto quel che amiamo, le mura delle città, e le torri, e le chiese, e i palazzi, e gli affreschi, e gli ordini architettonici, e gli usi, e le leggi, e i poemi, e i giardini, e il linguaggio; e quel credere alle antiche cose, che chiamiamo classico, e quel credere alle moderne illusioni, che chiamiamo cattolico, e quel mescolare il santo al profano, e l’abitudine a conciliare nei sensi gli opposti pensieri, quel che fece grande e che ancora protegge e alimenta il nostro caro paese, quel che fa di noi uomini più vivi, anche se i più beceri, anche se i più poveri, anche se i più disprezzati dell’Europa, quel che ancora ci dà la forza e gloria, è soltanto il nostro umanesimo borghese.

 

   Il Borghese n. 2        

1 aprile 1950