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Caravaggio di Siracusa, forse occorre il permesso, non il parere ...

Seppellimento di Santa Lucia, Caravaggio, 1608
Seppellimento di Santa Lucia, Caravaggio, 1608

Indice:

1. Premessa

2. Accesso agli atti

3. L’apparente parere favorevole e le espropriazioni dell’ottocento

4. La questione della proprietà del dipinto

5. Le modalità del prestito

6. Annotazioni sul procedimento

7. Conclusioni

 

1. Premessa

 

Il “Seppellimento di Santa Lucia”, capolavoro realizzato a Siracusa tra l’ottobre e novembre 1608 da Michelanelo Merisi da Caravaggio, è una grande tela (408 x 300 cm), il primo dei dipinti siciliani del grande artista, giunto a Siracusa dopo la rocambolesca evasione dalle prigioni maltesi.

Già ricercato dalle guardie papali per l’ordine di cattura da omicidio spiccato a Roma, adesso l’artista doveva guardarsi anche dagli agenti dei Cavalieri di Malta. A Siracusa ricevette riparo grazie alla mediazione del suo amico e modello degli anni romani, il pittore siracusano Mario Minniti, il quale, col sostegno del nobile siracusano Vincenzo Mirabella, grande erudito, naturalista (come il Caravaggio) e linceo, gli procurava, presso il Senato della Città, la committenza del dipinto.

Così il “Seppellimento di Santa Lucia” veniva eseguito all’interno della Basilica di Santa Lucia al Sepolcro, edificata, a quanto risulta, già nei primi secoli dell’era cristiana, negli stessi luoghi del martirio della santa siracusana, avvenuto nel 304 d.c., sotto l’impero di Diocleziano.

Il culto di Santa Lucia si diffuse rapidamente e si consolidò nei secoli. Durante la dominazione araba della Sicilia, il corpo della martire venne tenuto nascosto dai siracusani nelle catacombe, fin quando il generale bizantino Giorgio Maniace, presa la città nel 1040, lo trasportò a Costantinopoli, facendone dono all’imperatrice Teodora. Da Costantinopoli, il corpo fu poi trafugato dai Crociati veneziani, che lo portarono a Venezia, dove tuttora si trova, presso la Chiesa dei Santi Geremia e Lucia.

Si può comprendere quindi quale fosse l’intendimento e la ratio della committenza senatoria dell’opera al Caravaggio. La Città di Siracusa intendeva affidare all’iconologia sia il messaggio storico-civico sull’orgoglio dell’appartenenza siracusana della santa ormai universalmente famosa, sia il messaggio strettamente devozionale, nell’impossibilità di venerare in città le relative reliquie.

Caravaggio dipinge non il martirio, come sarebbe stato usuale per qualsiasi altro artista del tempo, ma una scena per nulla retorica o altisonante: egli dipinge la cruda sepoltura, col cadavere deposto a terra, dando il primo piano a due bruti e giganteschi fossori, mentre tutto intorno, personaggi compresi, racconta di un’atmosfera cupa e desolata, come molto probabilmente era lo stato d’animo del pittore medesimo.

Rinviandosi alla critica e alla storia dell’arte tutte le altre informazioni più dettagliate sul dipinto, qui va detto che la tela rimase per quattro secoli nella Basilica del Sepolcro, andando incontro, nei secoli, a restauri che oggi non sarebbero mai eseguiti.

Nel 1866, con le leggi eversive dell’asse ecclesiastico, la Basilica e il suo contenuto (come in molte centinaia di altri casi in tutta Italia) venne espropriata alla Chiesa e statalizzata, confluendo nel Fondo per il culto, come più diffusamente si illustrerà infra. Nella seconda metà del secolo scorso il dipinto ha potuto ricevere finalmente un restauro adeguato, nel 1950, ad opera del grande Cesare Brandi e un altro intervento fu eseguito nel 1972 a cura dell’Istituto Centrale del Restauro, interventi coi quali si riuscì a recuperare la pellicola pittorica originale, rimuovendo le pesanti sovrapposizioni dei restauri ottocenteschi e del primo Novecento. 

Il dipinto, sia a causa dei restauri condotti a Roma, sia a causa del disinvolto sfruttamento per mostre, ha viaggiato molto e molto è stato esposto a stress, tanto che Caterina Bon Valsassina, che fu Direttrice dell’ICR, in tale qualità, nel 2005 si oppose al prestito del Seppellimento, per la mostra “Caravaggio e l’Europa” presso il Palazzo Reale di Milano.

Quel vertice dell’ICR, professionista nel suo settore, di valore internazionale, commentando a posteriori quel suo diniego, così disse: Avevo espresso la mia perplessità alla richiesta di prestito ... Ancora una volta però ha vinto la cosiddetta “valorizzazione” su tutela, conservazione e restauro. È infatti proprio in nome di questo nuovo valore dei tempi attuali che si è preferito spedire a Milano, per la terza volta in un anno, un dipinto di grande formato (cm 400x308) come la tela siracusana, che è in viaggio dall’ottobre 2004 (mostra «L’ultimo Caravaggio», Napoli; mostra «Il Male», Torino). Pazienza. Aspetteremo tempi migliori. Aspetteremo che finisca la “mostromania”, malattia di cui la “caravaggiomania”, che impone ormai la presenza di dipinti di questo straordinario artista per sancire il successo di qualsiasi mostra, è una forma psico-patologica derivata particolarmente virulenta e per la quale non si è ancora trovato un farmaco efficace.”

Dal 2011 la tela è stata spostata presso la Chiesa di Santa Lucia alla Badia, perché la Basilica del Sepolcro non dava tutte le garanzie di sicurezza climatico-ambientale e necessitava di lavori di adeguamento.

Nei primi giorni dell’anno in corso il MART di Rovereto, sotto l’impulso di Vittorio Sgarbi che ne era diventato il presidente, avanzava al Fondo Edifici per il Culto, formale richiesta di prestito del dipinto. Seguivano mesi di istruttoria orientata favorevolmente, fin quando, in maggio, la notizia si diffuse nella città di Siracusa e a quel punto, numerosi cittadini e associazioni di tutela cominciarono a porre delle domande e obiezioni, formulando richieste di accesso agli atti, ottemperate praticamente nella seconda metà del mese di luglio. 

Quella che segue è l’analisi del procedimento e delle competenze istituzionali in campo.

 

2. Accesso agli atti

Dopo due mesi di richieste, iniziate nel maggio 2020, le sei Associazioni di tutela che si sono intestate le iniziative di contrasto al prestito del “Seppellimento di Santa Lucia” del Caravaggio, sono riuscite a ottenere l’accesso agli atti del singolare procedimento.

L’esame incrociato degli atti ha confermato debolezze e carenze nei sottesi procedimenti di prestito, considerato innanzitutto che l’istituto del prestito d’opere d’arte ex articolo 48 del Codice dei Beni Culturali, per mostre, scambi ed eventi connessi, è una delle tipiche manifestazioni del genus più ampio e complesso della Valorizzazione.

Al riguardo gli articoli 111 e 112 del Codice indicano un percorso preferenziale da seguire e cioè quello della preventiva stipula di Accordi o Intese tra gli Enti coinvolti a vario titolo nella vicenda, e tale iter, a maggior ragione, sarebbe stato più corretto nel presente caso, trattandosi peraltro di materia concordataria, come si vedrà.

Solo nell’ipotesi che non sia andato a buon fine l’esperimento consensuale di un Accordo, allora la legge consente all’Ente proprietario del Bene di procedere unilateralmente alla relativa valorizzazione. Sì, ma, in questa fattispecie, chi era/è l’Ente proprietario del Bene in questione? E, a parte la questione della proprietà, sarebbe agibile una conduzione unilaterale del prestito?

 

3. L’apparente parere favorevole e le espropriazioni dell’ottocento

Credo proprio che gli attori di questo tormentato iter del prestito del Caravaggio siracusano, ascrivendo l’opera al dominio del F.E.C. - Fondo Edifici di Culto (Ente-Organo del Ministero dell’Interno) che aveva più o meno pacificamente dato l’assenso, abbiano un po’ troppo affrettatamente valutato l’apparente parere favorevole contenuto nella lettera 6 maggio 2020 n. 159 dell’Arcidiocesi di Siracusa.

Ma chi avesse letto con attenzione quel pronunciamento dell’Autorità ecclesiastica, non avrebbe potuto non rilevare che l’Arcidiocesi di Siracusa fa precedere il proprio “parere” puramente tecnico e condizionato, da una premessa tutt’altro che formale e che si pone come una condizione potestativa di tale rilevanza, da togliere alla lettera arcivescovile la natura di mero parere endoprocedimentale.

Di questa premessa pare allora opportuno riportare il brano più significativo: “… nel ribadire il contenuto della corrispondenza intercorsa con il F.E.C.  … e nel richiamare all’attenzione la Deliberazione del 03 luglio 2017, n. 08/2017/G della Sezione Centrale di controllo … della Corte dei Conti … evidenzia in via preliminare la necessità di coinvolgere, nell’esprimere il suo parere anche l’Ente Parrocchia Santa Lucia al Sepolcro (sede originaria della collocazione del dipinto in oggetto)”.

La citazione, nella lettera diocesana, di quella recente decisione n. 08/2017 della Corte dei Conti, avente ad oggetto il controllo sulla gestione del F.E.C., spalanca una problematica di due secoli, perdurante fino ad oggi, sulla natura e la reale spettanza dei diritti di dominio su circa 750 chiese, conventi, abbazie e relativi beni immobili, mobili, arredi e pertinenze, che, tra il 1866 e il 1873 furono espropriate agli Ordini religiosi e agli enti ecclesiastici, morali e di culto, dallo Stato italiano risorgimentale.

Furono le famose “leggi eversive dell’asse ecclesiastico”, varate

sia per finanziare la (perduta) terza guerra di indipendenza,

sia per chiudere unilateralmente la questione romana col Pontefice,

sia infine perché questa era la connotazione anticlericale, di stampo napoleonico, tradizionalmente caratterizzante lo Stato savoiardo preunitario.

 

4. La questione della proprietà del dipinto

Vennero così istituiti, nello Stato, due organi di gestione, il Fondo per il culto e il Fondo di beneficienza e religione per la città di Roma, disciplinati come proprietari dei beni ex conventuali, comprese le chiese, e incaricati di garantire la prosecuzione della destinazione al culto, nonché di provvedere a tutte le relative spese di mantenimento. 

Con i Patti Lateranensi del 1929, conosciuti anche come il “Concordato”, il Governo italiano pose fine al secolare contenzioso con il Papato, con la creazione dello Stato della Città del Vaticano e la stipulazione di Accordi finanziari, amministrativi e religiosi fra lo Stato Italiano e la Santa Sede.

All’interno di tali Accordi venne prevista la parziale retrocessione del patrimonio ecclesiastico espropriato nel secolo precedente, con il conferimento della personalità giuridica a tutte le chiese aperte al culto, incluse quelle ex conventuali, già attribuite alla proprietà dei due Fondi prima citati, così che la legge di attuazione concordataria 27 maggio 1929 n. 848, all’articolo 6 dispose che le predette chiese, una volta acquisito lo status di persona giuridica, dovessero essere consegnate all’autorità ecclesiastica.

Già nel dopoguerra venne a formarsi una giurisprudenza al massimo livello (Consiglio di Stato e Corte di Cassazione) la quale esplicitamente convenne sul principio che bastasse il riconoscimento della personalità giuridica alla singola chiesa, per farle acquistare ipso facto la proprietà del relativo edificio di culto e delle sue pertinenze, mobili e arredi.

Tali indirizzi non mutarono neppure con la revisione concordataria siglata con l’Accordo tra Stato Italiano e Santa Sede del 18 febbraio 1984, costituente il presupposto della Legge n. 222/1985 istitutiva dell’attuale F.E.C. (Fondo Edifici di Culto), erede e successore dei due ormai disciolti Fondi ottocenteschi.

In particolare l’articolo 73 della L. n. 222/1985 ha lasciato in vigore gli articoli 6 e 7 della Legge n. 848/1929, finalizzati alla riconsegna delle chiese all’Autorità ecclesiastica, tanto che il Ministero dell’interno ha richiesto in varie occasioni il parere del Consiglio di Stato (tra i più importanti cfr. Cons. Stato, sez. I, 18 ottobre 1989, n. 1263), che però è costantemente risultato il medesimo e cioè la doverosa retrocessione di quegli edifici, da sempre destinati ad attività di culto, all’ente ecclesiastico, purché munito di personalità giuridica, estendendone gli effetti anche nel caso in cui fosse istituita una parrocchia.

Il processo ministeriale di riconsegna delle chiese dal F.E.C. agli Enti ecclesiastici, pur avviato e condotto fino a fasi inoltrate, negli anni 90 del secolo scorso, fu tuttavia interrotto da opposizioni politiche, mediatiche e dottrinarie, nell’assunto che lo Stato non potesse privarsi di un patrimonio storico-artistico così imponente, a favore della Chiesa.

A tal fine venne sollecitato al Consiglio di Stato il riesame della sua costante giurisprudenza in materia, con una decisione dell’Adunanza Generale, ma quando quest’ultima avviò l’istruttoria, nessuna delle parti in causa (Ministero dell’interno, Presidenza del Consiglio, Commissione governativa per l’attuazione delle disposizioni concordatarie) fece pervenire propri pronunciamenti ufficiali, ragione per cui il Consiglio di Stato, nel 1995, chiuse il procedimento istruttorio, senza necessità di dover rivedere la propria giurisprudenza.

Infine, da ultimo, la Sezione II della Suprema Corte di Cassazione, chiudendo uno dei rarissimi contenziosi sul punto, tra Chiesa e Stato (Ministero dell’Interno e Ministero dei Beni Culturali), con la sentenza del 21 maggio 2015 n. 10481, ha definitivamente statuito il principio di diritto secondo il quale “per il ritorno alle chiese contemplate nell’articolo 29 del Concordato dei rispettivi edifizi sacri, è richiesto soltanto il riconoscimento della chiesa come ente morale … stante, quindi, la ritenuta automaticità … non necessitava nemmeno l’effettiva consegna con atto successivo e distinto all’ente riconosciuto dell’edificio stesso. In conclusione il trasferimento della proprietà dell’unitario complesso immobiliare … conseguiva automaticamente al riconoscimento della personalità dell’ente ecclesiastico, senza necessità … di ulteriori atti formali o verifica di particolari condizioni …”.

In pratica la Corte di Cassazione, con la riportata sentenza, peraltro recente, ha smentito la necessità di ulteriori adempimenti, siano politico-istituzionali, siano concordatari o solo amministrativi, per concretizzare le restituzioni degli edifici e relativi arredi mobili alle chiese in possesso dei requisiti (personalità giuridica e continuità del culto). Detto altrimenti, la proprietà di tali edifici e relative pertinenze è già transitata ope legis e non occorre la consegna formale (in realtà mero adempimento materiale) per legittimare l’Ente ecclesiastico come nuovo proprietario.

Non a caso l’Arcidiocesi di Palermo, con propria lettera del 31 luglio 2015 alle parrocchie con sede in chiese ex conventuali della giurisdizione, le invitava a non inoltrare più alla Prefettura-Ufficio F.E.C. la richiesta di ricevere la consegna dell’edificio, né di averne la concessione in uso gratuito, istituto che era stato escogitato dal Ministero dell’Interno per consentire alle parrocchie l’utilizzazione delle chiese, ma senza cederne la proprietà, strumento evidentemente superato, inaccettabile dalla controparte ecclesiastica e comunque sconfessato dalla netta e costante giurisprudenza di Consiglio di Stato e Corte di Cassazione.

Vi è di più.

Il Ministero dell’Interno, Direzione Generale dei Culti, con la Circolare 16 febbraio 1993 n. 77 indirizzata alle Prefetture, persino avvalendosi pedissequamente del parere (l’ennesimo) 6 maggio 1992 n. 929 del Consiglio di Stato, aveva espressamente riconosciuto la perdita della proprietà statale degli edifici sacri, inclusi pertinenze, beni mobili e beni storico-artistici, in favore degli Enti ecclesiastici con personalità giuridica, impartendo ai Prefetti la relativa consegna, mentre, solo per gli altri beni rimasti nella proprietà del F.E.C. veniva stabilita la modalità della concessione gratuita in uso.

Agli atti, e nello specifico che ci interessa, risultano anche le conseguenti attività formali della Prefettura di Siracusa, per attuare la “consegna in proprietà” della Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro all’Arcidiocesi e alla relativa parrocchia. Sempre agli atti risulta ovviamente anche il riconoscimento della personalità giuridica della Parrocchia medesima (Decreto dell’Arcivescovo di Siracusa 20 settembre 1986 e Decreto del Ministro dell’Interno 6 dicembre 1986, in G.U. 27/01/1987 n. 21).

Tali procedure di consegna, come detto, venivano tuttavia sospese, come nel resto del Paese, forse anche sulla scorta di una strumentale interpretazione della citata sentenza del 2015 della Corte di Cassazione che aveva dichiarato non necessaria la consegna materiale per il passaggio di proprietà.

Sotto il profilo strettamente tecnico giuridico, quindi, lo scenario è che l’unico proprietario dell’edificio chiesastico e ciò che in esso è contenuto, è la Parrocchia di Santa Lucia al Sepolcro e quindi l’Arcidiocesi di Siracusa, mentre il Ministero dell’Interno e, per esso, il F.E.C. è oggi il gestore del Bene, cioè, agli effetti civilistico-amministrativi, è il detentore, non più il possessore.

Infatti, per effetto di legge concordataria e per effetto persino dei fatti concludenti, compiuti dallo stesso Ministero, che sopra abbiamo indicato, la relazione tra Ministero dell’Interno-F.E.C. e la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro non può essere più una relazione di possesso proprietario, difettando, per radicare il possesso, sia il requisito soggettivo (animus possidendi) ai sensi dell’articolo 1140 del codice civile, atteso che, come riportato prima, il Ministero dell’Interno aveva già riconosciuto la perdita della proprietà; sia il requisito oggettivo, stante che l’articolo 1145 del codice civile, a definitiva chiusura del sistema, stabilisce che “il possesso di cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto”.

Deve aggiungersi che neppure la tolleranza dell’Arcidiocesi agli atti e condotte uti dominus finoggi palesati dal F.E.C., potrà mai fondare il riacquisto del possesso medesimo in capo al F.E.C., vista la netta previsione contraria dell’articolo 1144 del codice civile.

Considerato quanto sopra, venendo adesso al tempo attuale, non si ravvisa quindi alcuna congruità nell’atto del Ministero dell’Interno-F.E.C. del 27 gennaio 2020 n. 3A6/26684, il quale, riscontrando la richiesta di prestito del Museo trentino MART, avente ad oggetto il “Seppellimento di Santa Lucia” del Caravaggio,  dichiara l’opera, in più passaggi del testo, “di proprietà del F.E.C.”, così disattendendo circa un settantennio di concordi pronunciamenti contrari, non solo legislativi, ma anche delle massime magistrature nazionali e persino dello stesso Ministero.

Vero è che tale atto del F.E.C. contempla anche l’adempimento di “acquisire il parere del responsabile della Chiesa di Santa Lucia alla Badia”, ma direi che, qui, il F.E.C., non il parere della Chiesa alla Badia avrebbe dovuto chiedere, quanto piuttosto il permesso del vero proprietario, cioè la Parrocchia di Santa Lucia al Sepolcro e quindi si può finalmente comprendere la sibillina e forse irritata risposta dell’Arcidiocesi di Siracusa, con la quale abbiamo aperto questo scritto.

Ravvisabile, pertanto, il sospetto vizio di nullità, ai sensi dell’articolo 21 septies della L. 241/1990, del predetto atto ministeriale, per impossibilità, sia del soggetto procedente (il Ministero-F.E.C. non è il proprietario), sia dell’oggetto (il dipinto non è posseduto come proprietario, ma solo detenuto come gestore), sembra conseguentemente che tale procedimento di prestito, se non affetto dalla più grave nullità, comunque soffra un vizio grave, di carenza, sviamento di potere e travisamento, già all’origine, quello della corretta configurazione dei soggetti istituzionali competenti a decidere e dei rispettivi poteri.

 

5. Le modalità del prestito

La relazione giuridica tra il dipinto caravaggesco e la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro è quella della pertinenza (cosa destinata in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa), la quale, per effetto degli articoli 817 e 818 del codice civile, riceve lo stesso regime giuridico del Bene principale.

Dunque, se la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro è, ope legis, di proprietà della relativa Parrocchia e dell’Arcidiocesi di Siracusa, anche tutte le sue pertinenze (immobili, mobili e arredi sacri, dipinti, statue) si ascrivono alla medesima proprietà. Ebbene, il dipinto, da sempre parte integrante della Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro, per motivi di salvaguardia tecnica, è stato provvisoriamente allocato nella Chiesa di Santa Lucia alla Badia (con le stesse problematiche sulla proprietà), quindi la scissione del Seppellimento dalla Chiesa del Sepolcro non è evidentemente giuridica, spettando per legge solo al proprietario il potere di separare il regime legale della pertinenza, dal regime della cosa principale.

Già solo per quanto detto, desta perplessità, quindi, la formulazione dell’iter di prestito, nella lettera del 27 gennaio 2020 del F.E.C. all’Arcidiocesi (sollecitata con due successive note del tre marzo e dell’otto maggio), tuttavia la fallanza procedimentale è ancor più marcata, per quanto si dirà appresso.

L’equivoco, si fa per dire, in materia, spesso nasce dal considerare i beni immobili storici religiosi - nel nostro caso la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro e ciò che in essa è contenuto - come beni culturali dello Stato, travisando la definizione dell’articolo 10 commi 1 e 3 del D.Lgs. n. 42/2004 “Codice dei Beni Culturali” (dove si fa riferimento ai beni degli enti ecclesiastici e/o alle “cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni o religiose”) in combinato con l’articolo 54 dello stesso Codice che ne sancisce l’inalienabilità.

Tuttavia, sulla nozione di “inalienabilità”, si è fatta un po’ strumentalmente, alquanta confusione, atteso che, con tale definizione si intende la condizione di “res extra commercium” tipica dei beni demaniali, ma non certo l’impossibilità che la titolarità del Bene possa cambiare, per impero della legge (è il nostro caso), come chiaramente il Consiglio di Stato ebbe a spiegare al Governo italiano, nel parere 6 maggio 1992, n. 929 della Prima Sezione.

La materia, invece, va ricostruita assai diversamente, nel senso che i Beni culturali di identità religiosa, oltre alle connotazioni comuni a tutti gli altri Beni culturali ex articolo 10 del Codice BB.CC., possiedono una caratteristica peculiare, cioè il vincolo di destinazione al culto.

Il vincolo di destinazione al culto è espressamente riconosciuto già nell’articolo 831 del codice civile e ribadito dagli articoli 5 e 12 della Legge 25 marzo 1985 n. 121 che ratificò nell’ordinamento dello Stato italiano l’Accordo 18 febbraio 1984, di modifica del Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929.

Praticamente, con la “deputatio ad cultum”, apponibile al Bene solo dall’Autorità Ecclesiastica, si è configurato un classico caso di vincolo speciale reale, inserito nell’ordinamento italiano, ma creato da un ordinamento estraneo, cioè l’ordinamento canonico. In particolare l’articolo 12 della Legge n. 121/1985 dispone che, al fine di “armonizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso, gli organi competenti delle due Parti concorderanno opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali d’interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche”.

Detto altrimenti, la materia della tutela e della valorizzazione (quindi anche dei prestiti) dei beni culturali d’interesse religioso appartenenti agli enti ecclesiastici è di natura pattizio-concordataria, quindi di rilevanza costituzionale, talchè la Legge n. 121/1985 è una tipica “legge rinforzata” e la medesima natura possiedono i procedimenti che da essa scaturiscono.

A conferma di quanto qui sostenuto, il Codice dei Beni Culturali, all’articolo 9, ha definitivamente codificato il principio della previa Intesa paritaria tra Stato e Chiesa, al fine di disciplinare l’uso dei Beni culturali religiosi nel rispetto della salvaguardia delle “esigenze di culto”.

In conseguenza di quella legge concordataria e dell’articolo 9 del Codice, è stata infatti stipulata, il 26 gennaio 2005, l’Intesa tra il Ministro dei Beni Culturali e il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.), resa esecutiva con D.P.R. 4 febbraio 2005, n. 78. L’Intesa ha ad oggetto l’assunzione armonizzata e condivisa tra Stato e Chiesa, delle iniziative di tutela, conservazione, fruizione e valorizzazione dei beni culturali mobili e immobili di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche.

In particolare, sui prestiti, nell’Intesa (articolo 2 comma 8) è stabilito che la relativa “richiesta sia formulata in conformità alle disposizioni procedurali fissate dalla normativa canonica”, mentre l’autorizzazione viene procedimentalizzata “nel rispetto della normativa statale vigente in materia” (cioè l’articolo 48 del Codice e relative norme secondarie).

Sostanzialmente, con l’introduzione del criterio della prevenzione del culto, nelle procedure di prestito, è stato versato nell’Intesa il punto n. 38 del decreto 9 dicembre 1992 della C.E.I. a tenore del quale “gli enti ecclesiastici possono collaborare anche alla realizzazione di mostre organizzate da enti pubblici e da privati con il prestito di opere di loro proprietà, a condizione che le esigenze pastorali non ne risultino compromesse, che si tratti di manifestazioni veramente significative e programmate nel pieno rispetto della normativa canonica e civile…”. Interessante è, altresì, il costante riferimento ai due attori che in sede locale sono chiamati ad attuare l’Intesa e cioè il Soprintendente e il Vescovo diocesano. Non servono commenti.

Va infine dato conto che, in conseguenza dell’Intesa nazionale del 2005, anche la Regione siciliana, con Intesa del 6 agosto 2010, sottoscritta tra il Presidente della Regione e il Presidente della Regione Ecclesiastica Sicilia, ha esaustivamente e pattiziamente disciplinato la materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici situati in Sicilia. Anzi, per tale via, la Regione possiede già gli strumenti istituzionali per intervenire, con le competenze della propria potestà esclusiva in materia di Beni Culturali, anche nei procedimenti di prestito, senza bisogno che alcuno, dall’esterno, di tale prerogativa gliene faccia enfatica quanto effimera concessione.

 

6. Annotazioni sul procedimento

Il procedimento di prestito della tela del Caravaggio “Il seppellimento di Santa Lucia” prende l’avvio, almeno ufficialmente, da una lettera del 21 gennaio 2020 del Museo MART di Rovereto, indirizzata al Direttore del F.E.C., nella quale, oltre alle naturali e legittime argomentazioni a sostegno del chiesto prestito, verso un possibile “loan fee” di 100.000 euro per le spese, vien fatto esplicito riferimento alla necessità che l’opera venga sottoposta a un intervento conservativo, rappresentandosi che, ai sensi delle “direttive ministeriali – nello specifico la circolare n. 29 in relazione all’art. 48 del Decreto Legislativo 42/2004 – … l’occasione per restaurarla [è] una delle motivazioni rilevanti per concedere in prestito un’opera”.

Il riferimento normativo del MART è alla Circolare del Ministero dei Beni Culturali 26 novembre 2019 n. 29, attuativa dell’articolo 48 comma 3 del Codice dei Beni Culturali e del Decreto del Ministro dei Beni Culturali 29 gennaio 2008, recante le “Linee guida per il rilascio delle autorizzazioni al prestito delle opere d’arte”, le quali espressamente enunciano le “ragioni per prestare” e quelle “per non prestare”, tra le prime essendo contemplata proprio quella avanzata (l’occasione per restaurare l’opera) dall’Ente museale trentino.

Tra “le ragioni per non prestare” la Circolare statale n. 29 enuncia

quelle connesse ai rischi della sicurezza e conservazione fisica del bene;

quelle legate alla circostanza che l’argomento della mostra sia troppo limitato o commerciale per giustificare la movimentazione del bene richiesto;

che il progetto scientifico sia confuso o non in grado di dimostrare chiaramente la necessità di includere un determinato bene nella mostra;

che il valore aggiunto nel prestare l’oggetto non sia rilevante.

La Circolare conclude insomma che “gli elementi in base ai quali valutare se autorizzare o meno un prestito per mostre sono sostanzialmente due: le condizioni conservative dell’opera e l’opportunità dell’allontanamento dall’ubicazione abituale”.

Sotto il profilo delle competenze, infine, la stessa Circolare ministeriale n. 29/2019 delega ai Soprintendenti l’autorizzazione al prestito, salvi i casi di opere, inserite in un’apposita tabella, le quali, per fragilità, dimensione, connotazioni identitarie o altre gravi ragioni, non sono prestabili su autorizzazione del Soprintendente, ma della superiore Direzione Generale.

Trattandosi di un’opera, il Seppellimento di Santa Lucia, asseritamente di proprietà statale, ancorché custodita nella Regione siciliana, sembrava corretta l’applicazione della normativa statale fin qui illustrata. Orbene, se è vero che la Soprintendenza di Siracusa è l’organo del quale lo Stato si avvale per l’esercizio della tutela sul dipinto in questione, va incidentalmente precisato che l’istituto dell’avvalimento non implica mai fusione tra l’Organo avvalente (Ministero) e l’Organo avvalso (Soprintendenza), semmai di indipendenza – se non di primazia – del primo rispetto al secondo.

Insomma, la Soprintendenza agisce eccezionalmente quale organo del Ministero. In merito così ha chiaramente spiegato la massima giurisprudenza: “l’attività amministrativa … non può che essere imputata alla struttura stessa quale effettiva titolare della funzione amministrativa esercitata mediante "avvalimento" dell’ente … avvalso…” (Consiglio di Stato, sez. IV, 11 aprile 2007 n. 1617).

In pratica, spettando alla Soprintendenza tutte (e solo) le attività funzionali a garantire la conservazione del dipinto e l’accertamento della sua idoneità all’eventuale prestito, quell’Ufficio poneva in essere gli adempimenti di propria competenza, tra cui però si segnala la nota 11 maggio 2020 n. 4299, con la quale, la Soprintendenza siracusana, ritenendo (a torto) di avere acquisito i “pareri endoprocedimentali” favorevoli dell’Autorità Ecclesiastica, procedeva a richiedere al suo Dirigente Generale l’autorizzazione al prestito, ai sensi del Decreto Assessoriale 29 gennaio 2019 n. 06/Gab., cioè la normativa regionale sui prestiti, nella quale è anche codificato il “previo apprezzamento dell’Assessore”, istituto non contemplato nella normativa statale.

In pratica, per “attrazione burocratica” dal funzionario inferiore (il Soprintendente) a quello gerarchicamente superiore (il Dirigente Generale), la materia del prestito de quo e il relativo procedimento sono transitati dalla disciplina statale, a quella regionale siciliana.

Ma è congruo siffatto procedimento?

Se il Bene oggetto del prestito è asseritamente di proprietà statale e soggetto alla relativa disciplina di prestito e la Soprintendenza siciliana agisce come organo di avvalimento nell’interesse dello Stato, come potrebbe attrarre nel procedimento le diverse normative regionali sul prestito medesimo e attribuire l’ultima parola sull’autorizzazione al Dirigente Generale regionale, anziché alla Direzione del F.E.C.? 

L’interrogativo non è meramente speculativo, ove si pensi che, per molto meno e cioè nel corso di un collaterale e contestuale procedimento, avente ad oggetto la stessa opera e relativa alla sua possibile esposizione al pubblico, per il mese di luglio, nell’assetto distaccato dall’altare della Badia, la Soprintendenza di Siracusa, con nota 24 giugno 2020 n. 6050, ne aveva richiesto la relativa autorizzazione alla sola Arcidiocesi e al Rettore della Chiesa di Santa Lucia alla Badia, ma non alla Direzione del F.E.C., ottenendone la ferma ed irritata reazione, nella nota prefettizia 24 giugno 2020 n. 5487 (“…avendo escluso del tutto l’Ente proprietario che si ricorda essere il Fondo Edifici di Culto. Si chiede pertanto di fornire al riguardo immediati chiarimenti …”).

Diversa sarebbe stata, invece, la coerenza e rispondenza delle procedure adottate dalla Soprintendenza, ove, in materia, fosse stata affermata la previgenza della suindicata Intesa del 6 agosto 2010, sottoscritta tra il Presidente della Regione e il Presidente della Regione Ecclesiastica Sicilia, che pattiziamente ha disciplinato la materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici siti e custoditi in Sicilia.

Non a caso, non può non essere citata la successiva presa di posizione dell’Arcidiocesi di Siracusa, espressa nella nota 26 giugno 2020 n. 269. È proprio in tale lettera che l’Autorità Ecclesiastica rivendica l’ultima parola sul procedimento, innanzitutto chiarendo la reale natura del suo presunto “parere favorevole” di cui alla lettera 6 maggio 2020 n. 159 illustrata in esordio. Nella nuova nota, l’Arcidiocesi spiega che il suo fu un parere favorevole condizionato, ma che le condizioni ivi apposte non sono state né riscontrate, né soddisfatte da chi di competenza e che l’assenso venne dato anche sul presupposto – poi verificatosi inesistente – della agitata necessità e urgenza di un restauro, motivo per cui viene anche a mancare il presupposto per privare del sacro dipinto la communitas fidelium, con ciò affermandosi anche la prevalenza del vincolo di destinazione al culto, tutto peraltro coerentemente motivato in conformità alle qui illustrate prerogative concordatarie e pattizie tra Stato e Chiesa.

A tale presa di posizione dell’Autorità Ecclesiastica persino il F.E.C. sembra adeguarsi nella propria nota 1 luglio 2020 n. 5698 (“il parere negativo di codesta Arcidiocesi al prestito verrà tenuto in debito conto nella procedura precedentemente descritta … subordinatamente solo al comune e condiviso, primario interesse alla tutela dell’integrità dell’opera…”).

 

7. Conclusioni

La conclusione da trarsi dal complesso procedimento è la seguente.

Pare incontestabile che la proprietà dei Beni culturali religiosi costituiti dalle Chiese ex conventuali iscritte nel F.E.C. sia transitata alle relative Parrocchie, in presenza di riconoscimento della relativa personalità giuridica. Tali Beni culturali, se adibiti al culto, seguono la disciplina del rispetto del vincolo di destinazione del culto, prioritariamente sugli altri usi, come da Intese concordatarie illustrate.

Non cambia il risultato neppure ove il F.E.C. intendesse insistere nella tesi della sopravvivenza del proprio dominio su tali Beni, atteso che, trattandosi di area pattizio-concordataria, il F.E.C. non ha la disponibilità unilaterale della materia e conseguentemente non può amministrarla con propri atti unilaterali, i quali sarebbero nulli per contrarietà dell’oggetto e della causa alle spiegate norme imperative di rango costituzionale, peraltro perfino richiamate dall’articolo 73 della stessa Legge n. 222/1985 istitutiva del F.E.C.

In buona sostanza la richiesta di prestito andrebbe indirizzata e co-istruita innanzi all’Ente Parrocchia di Santa Lucia al Sepolcro e all’Arcivescovo di Siracusa, ai quali, ad essere precisi, occorre chiedere non un “parere endoprocedimentale”, ma il permesso.