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La riforma di Cassa Forense e la proposta di MGA

riforma di cassa forense
Ph. Fabio Toto / riforma di cassa forense

La riforma di Cassa Forense e la proposta di MGA

 

Il 19 aprile si terrà a Roma la manifestazione di “proposta” patrocinata da MGA, in concomitanza con i lavori del Comitato dei Delegati di Cassa Forense sulla riforma, della quale non si conoscono né l’articolato né le osservazioni dei Ministeri Vigilanti.

La proposta di MGA parte dal basso e chiede una CTU previdenziale, tramite gli uffici di Cassa Forense, per lo sviluppo dell’algoritmo proposto che preleva risorse non dalle fasce più deboli dell’avvocatura ma da quelle più ricche.

In sostanza le proposte aggiornate al 07.04.2024, integrabili e modificabili fino alla conclusione delle assemblee regionali, sono le seguenti:

  1. conferma della riduzione dei contributi minimi obbligatori soggettivi a € 2.200,00;
  2. eliminazione del contributo integrativo minimo;
  3. aumento dell’integrazione al minimo della pensione a € 15.000 annui, che comporterebbe un corrispondente aumento delle pensioni di invalidità e inabilità;
  4. adozione per tutte e tutti del sistema contributivo dall’entrata in vigore della riforma, esattamente come accaduto con  la riforma delle pensioni Fornero, considerando che non vi sarebbe alcuna lesione dei diritti quesiti, concetto che spesso viene strumentalmente utilizzato dai detrattori di riforme in peius per i più abbienti;
  5. rendere il contributo di maternità proporzionale al reddito prevedendo una aliquota contributiva sul reddito, come nel sistema INPS, ove a tale scopo è stabilito un contributo dello 0,72%. Ciò avrebbe l’effetto di rendere non solo più equo il contributo stesso ma di aumentare le risorse e di permettere di sostenere maggiormente le avvocate.
  6. aumentare dal 3% al 4% il contributo soggettivo di solidarietà per i pensionati che proseguono l’attività e individuare altri scaglioni di reddito, oltre il tetto reddituale da cui estrarre - con aliquote progressive in base all’aumentare del reddito - risorse con cui finanziare l’assistenza, l’integrazione al minimo delle pensioni e gli altri correttivi solidaristici proposti;
  7. conferma della riduzione del contributo minimo obbligatorio nella misura del 50% con riconoscimento dell’intera annualità contributiva;
  8. applicazione, ai pensionati/e di vecchiaia che continuano ad esercitare, lo stesso regime contributivo degli/lle altri/e avvocati/e, ma con riduzione della metà del solo contributo soggettivo minimo, in modo tale da non aggravare la situazione dei/lle pensionati/e attivi/e con redditi che non superano i minimi e che in parte rilevante hanno pensioni contributive.
  9. restituzione dei contributi “silenti”, ovvero dei contributi insufficienti a maturare il diritto a pensione e che non siano stati utilizzati per unirli ai contributi versati in altre gestioni previdenziali.
  10.  prevedere la possibilità di chiedere l’esonero dai contributi minimi finché perdurano le condizioni di cui alle lettera b) e c) dell’art. 21 comma 7 L. 247/2012, cioè l’essere affetti da malattia che riduce grandemente la possibilità di lavoro oppure il dover assistere prossimi congiunti o il coniuge affetti da malattia dalla quale deriva totale mancanza di autosufficienza.

Oltre ad un rivisitazione del regolamento per l’assistenza con la necessità di un sistema universalistico di welfare che comprenda anche il lavoro autonomo.

Ora, secondo la dottrina e giurisprudenza prevalente, i contributi previdenziali non hanno natura tributaria ma si tratta di una prestazione patrimoniale, diretta a contribuire esclusivamente agli oneri finanziari del sistema previdenziale.

Cassa Forense svolge però la funzione di cui all’art. 38 della nostra Carta Costituzionale.

A mio giudizio l’opzione al contributivo, comunque da estendere a tutti gli iscritti con il pro rata temporis, a fronte di un elevatissimo numero di avvocati con redditi modesti, non sarà risolutiva, ai fini della sostenibilità di lungo periodo, ma anzi confinerà ¾ dell’avvocatura italiana ad un futuro pensionistico di povertà.

È questo perché la legge 335/1995, che è legge sovraordinata, esclude, nel sistema di calcolo contributivo, l’integrazione al trattamento minimo della pensione, che sarà comunque possibile sinché non entrerà a regime.

Come dicevo più sopra, il sistema di Cassa Forense è però solidaristico e allora bisogna muoversi in due direzioni:

  • è necessario incentivare il reddito dell’avvocatura italiana, eliminando il GAP tra uomini e donne, tra giovani e vecchi, tra nord e sud.

Su questo versante Cassa Forense non può fare nulla se non insistere presso le rappresentanze istituzionali perché si adoperino per far capire alla politica che Cassa Forense, da sola, con i numeri che si ritrova, non può assicurare previdenza e assistenza a tutti gli iscritti;

  • l’articolo 23 della Carta Costituzionale per il quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, a mio giudizio non è di ostacolo alla proposta di MGA perché l’istituto della riserva di legge ha subito, nel tempo, trasformazioni attraverso il processo di delegificazione e di decentramento tipico della cd. privatizzazione della previdenza dei professionisti che ha spostato la competenza dalla fonte primaria (legge e atti aventi forza di legge) alla fonte secondaria e cioè ai regolamenti delle Casse di previdenza.

Quindi, a mio giudizio, Cassa Forense, in una visione lungimirante, può ridisegnare la contribuzione secondo criteri di progressività, per scaglioni di reddito, al fine di reperire le risorse per finanziare le pensioni di tutti gli iscritti, previo inserimento fra i propri istituti dell’assegno forense, pari al minimo INPS, da garantire comunque a tutti gli iscritti.

A questo punto si tratta di vedere, da un lato, se è possibile avviare, senza indugio, politiche implementatrici e redistributive del reddito e, dall’altro lato se il 7,5% dell’avvocatura in bonis è disposta a questo sforzo solidaristico, magari aumentando un po’ il tetto pensionistico.

Ma riforme strutturali di questo tipo richiedono un dibattito articolato nella categoria e non discussioni tra pochi eletti nel silenzio di un’aula di Comitato e, soprattutto, non tuttologia ma raffinata competenza previdenziale!

Per questo Vi invito a leggere almeno  il paragrafo n. 10 di “I poteri normativi della Cassa forense dopo la privatizzazione, L’inquadramento dogmatico e gli orientamenti della giurisprudenza” di Ilaria Bresciani, Assegnista di ricerca in Diritto del lavoro, Università di Parma, Working Paper n. 5 in ADAPT University Press:

«10. L’autonomia normativa degli enti previdenziali privatizzati, natura degli atti e rapporto con le fonti primarie.

Dopo quasi un trentennio dalla trasformazione degli enti previdenziali in soggetti di di-ritto privato, è possibile dare una risposta positiva al quesito di partenza, relativo al se alla privatizzazione formale sia seguita anche quella sostanziale, con conseguente facoltà dell’ente previdenziale privatizzato di gestire in modo effettivo gli interessi dei propri iscritti.

Si tratta di una vera e propria esigenza, necessitata dalla regola dell’autofinanziamento e dal fatto che la Cassa forense, così come le altre Casse privatizzate, è responsabile della garanzia previdenziale.

Il che non significa che lo Stato non possa intervenire, posto che questo resta titolare, e quindi garante ultimo, della funzione previdenziale; tuttavia, tale intervento dovrebbe limitarsi a quanto necessario perché l’ente possa raggiungere le proprie finalità. Dopo la privatizzazione, la legge ha fatto un passo indietro lasciando uno spazio di manovra alle Casse previdenziali in punto di disciplina del rapporto contributivo e previdenziale, come si evince anche dal fatto che, in concreto, le ultime modifiche normative apportate dal legislatore alla l. n. 576/1980 risalgono ai primi anni novanta, mentre numerosi sono stati i regolamenti e le delibere della Cassa forense volte a regolare la materia, previa approvazione ministeriale.

Tale potestà risulta iscritta nel d.lgs. n. 509/1994. Già in quel primo momento, subito dopo aver riconosciuto l’autonomia delle Casse (art. 2, comma 1), il legislatore aveva attribuito loro il potere di adottare dei «provvedimenti» (senza altra specificazione), pur-ché coerenti con le indicazioni del bilancio, stante la necessità di assicurarne l’equilibrio (art. 2, comma 2).

Tuttavia, le ulteriori disposizioni dello stesso testo normativo, in maniera contraddittoria, avevano reso quel potere di intervento non esercitabile sul piano concreto.

Così che, in un primo momento, gli effetti della privatizzazione erano stati molto attenuati, potendosi percepire una innovazione di carattere essenzialmente organizzativo (ovvero formale): il soggetto esistente aveva mutato la propria veste giuridica continuando a esistere e a operare senza soluzione di continuità, svolgendo tutte le attività dell’ente pubblico; il legislatore aveva confermato lo svolgimento delle attività previdenziali e assistenziali in atto riconosciute a favore degli iscritti, l’applicazione della disciplina della contribuzione previdenziale vigente e la facoltà di deliberare in materia di contributi e prestazioni solo ove tale prerogativa fosse già riconosciuta dai singoli ordinamenti.

Come si è già avuto modo di sottolineare, al riconoscimento di un potere normativo era seguita la privazione degli strumenti in cui poterlo esercitare.

Tuttavia, una maggiore autonomia in punto di poteri normativi era necessaria (se non necessitata) dalla previsione della regola dell’autofinanziamento. Questi due principi sono intrinsecamente e inscindibilmente collegati fra loro, così che sarebbe paradossale imporre a un soggetto di svolgere un’attività di interesse pubblico, senza alcun finanzia-mento da parte dello Stato, ma alle condizioni dettate da quest’ultimo e senza spazi di manovra.

Con tutta probabilità, le stesse Casse non avrebbero avuto alcun interesse alla privatizza-zione senza che questa comportasse anche il trasferimento di un’effettiva gestione della materia previdenziale, difficile da immaginare in assenza di un potere di intervento di natura normativa.

Solo l’anno successivo, in accoglimento delle critiche di chi aveva evidenziato che affermare un’autonomia senza indicare gli strumenti con cui farne uso era come svuotare di significato quello stesso principio, il legislatore è intervenuto a definire i poteri normativi delle Casse privatizzate.

Nella sua versione originaria, l’art. 3, comma 12, l. n. 335/1995, stabiliva quali erano i tipi di provvedimenti che le Casse potevano adottare proprio «in attuazione di quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del predetto decreto», elencando gli aspetti del rapporto contributivo e previdenziale su cui le Casse potevano intervenire, seppure, nel rispetto di due condizioni: che l’intervento fosse motivato dallo scopo di assicurare l’equilibrio finanziario di lungo periodo e che fosse rispettato il criterio del pro-rata.

In buona sostanza, le potestà attribuite dalla legge del 1952 alla Cassa e poi attribuite dalla legge del 1980 al ministero, sono tornate a essere prerogative dell’ente previdenziale.

Quella norma, che ha subito un’ulteriore modifica ad opera dell’art. 1, comma 763, l. n. 296/2006, prevede oggi un vero e proprio dovere per le Casse di intervenire con tutti i provvedimenti necessari affinché sia salvaguardato l’equilibrio finanziario di lungo pe-riodo, ma tenendo sempre presente i criteri del pro-rata, di gradualità e di equità fra le generazioni (175), come confermato, da ultimo, dall’art. 1, comma 488, l. n. 147/2013, il quale, nel fornire l’interpretazione della c.d. clausola di salvezza introdotta dall’art. 1, comma 763, l. n. 296/2006, ha stabilito che i provvedimenti normativi adottati dalle Casse (prima dell’entrata in vigore della norma) «si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l’equilibrio finanziario di lungo termine» (176).

Nell’attuale contesto normativo non si può più dubitare più della sussistenza di un potere normativo in capo alle Casse privatizzate con riguardo sia alla disciplina del rapporto contributivo sia a quella del rapporto previdenziale, come dimostrerebbe il fatto che nella pratica gli interventi del legislatore sulla disciplina della previdenza forense si sono arre-stati a prima della privatizzazione e che i regolamenti deliberati dalla Cassa hanno ottenuto l’approvazione ministeriale anche qualora abbiano previsto disposizioni difformi dalla l. n. 576/1980 (177).

La problematica che persiste attiene semmai alla natura degli atti provvedimentali di questi enti e al loro rapporto con la fonte primaria, nel caso specifico rispetto alla l. n. 576/1980 che contiene la disciplina legale della previdenza forense.

Pertanto, occorre domandarsi se la potestà regolamentare che il legislatore ha attribuito agli enti si esprima attraverso atti di natura giuridica privata (essendo posti in essere da soggetti che appunto hanno natura giuridica privata) oppure attraverso atti di natura pubblicistico-amministrativa (essendo gli strumenti attraverso cui si compie l’attività di natura pubblica affidata a tali enti).

Da qui deriva un altro interrogativo che riguarda il rapporto che intercorre tra il potere normativo delle Casse e la fonte legislativa; peraltro, con riguardo a questo secondo problema, sembra doversi distinguere a seconda che la fonte normativa di rango primario sia entrata in vigore prima o dopo la stesa privatizzazione.

Secondo una prima impostazione, che è stata espressa dalla giurisprudenza che ha elaborato la teoria della “sostanziale delegificazione”, i provvedimenti delle Casse vanno in-quadrati tra le fonti del diritto e hanno la facoltà di abrogare le disposizioni di legge previgenti (rispetto alla privatizzazione) (178).

Questa impostazione porta a dover isolare le attività organizzative e non istituzionali (come, per esempio, i provvedimenti di natura assistenziale), attività alle quali è riconosciuta un’autonomia derivante dalla struttura privatistica dei soggetti previdenziali che si esprime con atti di valore negoziale, seppure entro i limiti e i controlli previsti dalla legge, dalle altre attività istituzionali che, invece, hanno carattere pubblicistico, in quanto volte a realizzare l’interesse pubblico.

Una siffatta impostazione, ha il merito di valorizzare entrambe le anime della Cassa; a seconda della materia su cui la Cassa interviene utilizzerà lo strumento più appropriato: di natura regolamentare se volto a realizzare un interesse pubblico e di natura negoziale se volto a realizzare un interesse collettivo privato.

Tuttavia, da una parte si potrebbe obiettare che tale distinzione non tiene conto del fatto che esiste un collegamento naturale tra la natura giuridica dei soggetti e gli strumenti di cui essi godono per lo svolgimento delle proprie attività.

Anche l’ammissione di un potere di abrogazione della disciplina legale della previdenza forense previgente rispetto alla privatizzazione si presta a dei rilievi critici. In particolare, si può obiettare che la funzione previdenziale appartiene alla Stato (art. 38, commi 2 e 4 Cost.), e che le modifiche apportate dalla l. cost. n. 3/2001 al Titolo V della Costituzione hanno attribuito la materia della previdenza sociale alla competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. o), così come la fissazione dei livelli essenziali in materia di diritti sociali (art. 117, comma 2, lett. m) (179).

E, oltre a un problema di coordinamento con i principi costituzionali, ci si troverebbe di fronte al paradosso per cui atti normativi con forza di legge debbano ottenere un’approvazione ministeriale per poter spiegare i propri effetti.

Per queste obiezioni, appare più coerente una soluzione unitaria del problema, che valorizzi il tratto privatistico di tali enti.

Il presupposto è che se un soggetto ha natura giuridica privata, come una fondazione, non può che agire con atti della medesima natura, anche quando, svolgendo un’attività di interesse pubblico, pone regole che debbono trovare applicazione nei confronti dei propri iscritti in luogo, in sostituzione o ad integrazione della legge (180).

Di fatti, il carattere pubblicistico dell’attività previdenziale deriva dalla natura pubblica dell’interesse che deve essere perseguito. Ma questo, garantito dallo Stato per mezzo di appositi enti privati, è realizzato con gli strumenti propri dell’associazione o della fonda-zione.

Per questa via, ciò che il legislatore ha devoluto alle Casse è il potere di modellare la materia previdenziale, ove necessario, anche discostandosi dalla disciplina legale previgente.

I regolamenti e le delibere delle Casse possono derogare le leggi previgenti, proprio per-ché devono adottare tutti i provvedimenti necessari a garantire la propria sostenibilità economico-finanziaria nel lungo periodo, ovvero la responsabilità previdenziale, seppure avendo riguardo di contemperare gli interessi degli appartenenti alla categoria di riferimento attraverso valutazioni che tengano conto dei criteri del pro-rata, di gradualità e di solidarietà tra le generazioni.

In effetti, le sentenze più recenti sembrano muoversi su questo piano.

La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli artt. 10 e 22, l. n. 576/1980 relativi alla disciplina del sistema della previdenza forense, ha affermato che quest’ultimo è ispirato ad un criterio solidaristico, in quanto l’attività libero-professionale degli avvocati rientra nell’area della tutela previdenziale del lavoro garantita dall’art. 38, comma 2, Cost. Le prestazioni previdenziali previste dalla l. n. 576/1980 rappresentano le modalità di attuazione della «solidarietà mutualistica categoriale» prescritta dal legislatore con carattere di obbligatorietà in attuazione della norma costituzionale. Da queste premesse, la sentenza prosegue affermando che la privatizzazione ha comportato «l’abbandono di un sistema interamente disciplinato dalla legge […] e l’apertura all’autonomia regolamentare del nuovo ente», senza che ciò possa aver indebolito il criterio solidaristico di base, il quale rimane il fondamento essenziale di «questo sistema integrato, di fonte ad un tempo legale (quella della normativa primaria di categoria) e regolamentare (quella della Cassa, di natura privatistica). Con il citato d.lgs. n. 509 del 1994, il legislatore delegato, […], ha arretrato la linea di intervento della legge (si è parlato in proposito di delegificazione della disciplina: da ultimo, Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13 febbraio 2018, n. 3461), lasciando spazio alla regolamentazione privata delle fondazioni categoriali, alle quali è assegnata la missione di modellare tale forma di previdenza secondo il criterio solidaristico. Rientra ora nell’autonomia regolamentare della Cassa dimensionare la contribuzione degli assicurati nel modo più adeguato per raggiungere la finalità di solidarietà mutualistica che la legge le assegna, assicurando comunque l’equilibrio di bi-lancio e senza necessità di finanziamenti pubblici diretti o indiretti, che sono anzi esclusi» (181).

Anche le pronunce più recenti della Corte di Cassazione condividono i suddetti assunti.

Con la sentenza n. 17702/2020, anche se relativa alla illegittimità di una sanzione amministrativa irrogata dalla Cassa forense secondo il procedimento sanzionatorio previsto da un proprio regolamento in maniera difforme rispetto alla disciplina legale di cui alla l. n. 689/1981, la Corte ha ribadito che il d.lgs. n. 509/1994 ha affidato la determinazione della disciplina del rapporto contributivo e previdenziale all’autonomia regolamentare degli enti, i quali «possono dettare disposizioni anche in deroga a disposizioni di legge prece-denti», ma solo purché tali provvedimenti siano necessari a garantire l’equilibrio di bi-lancio nel lungo periodo. Così che, nel caso di specie, si potrebbe ritenere legittimo un provvedimento volto a commisurare le sanzioni irrogabili in relazione alle varie tipologie di illecito, ma non anche uno che comporti una deroga a disposizioni di legge che disciplinano il procedimento di irrogazione delle sanzioni (182).

Ancora, con la sentenza n. 24141/2020, la Corte di Cassazione ha accolto le ragioni della Cassa forense in punto di rispetto di quanto previsto dagli artt. 11 e 22 della l. n. 576/1980, stabilendo che nel caso di una situazione di incompatibilità con l’esercizio della professione e conseguente inesistenza del rapporto previdenziale l’ente debba restituire solo i contributi soggettivi versati dall’iscritto e non anche quelli integrativi che la legge ricollega allo svolgimento dell’attività professionale resa in virtù dell’iscrizione all’Albo (183). Pertanto, con riguardo a quegli istituti su cui la Cassa forense non è intervenuta in senso difforme rispetto alla legge, quest’ultima trova applicazione nei con-fronti dei professionisti.

Infine, con la sentenza n. 27541/2020, la Corte si è pronunciata su una questione relativa al (mancato) diritto di un iscritto di percepire una prestazione assistenziale prevista dal regolamento Cassa forense per far fronte allo stato di bisogno al ricorrere di determinati requisiti reddituali stabiliti dallo stesso regolamento. La sentenza, dopo aver ribadito che la Cassa può nell’ambito della propria autonomia regolamentare dettare disposizioni an-che in deroga a previsioni di legge precedenti la privatizzazione (nello specifico, la legge11 febbraio 1992, n. 141 recante Modifiche ed integrazioni alla legge 20 settembre 1980, n. 576, che ha ricompreso tra le attività istituzionali della Cassa forense anche l’assistenza a chi versa in stato di bisogno e la previdenza integrativa, attribuendo ampi poteri regolamentari per la disciplina dei predetti istituti) afferma che gli atti regolamentari hanno «natura squisitamente negoziale, indipendentemente dalla successiva approva-zione con decreto ministeriale» (184).

Se il fatto che la Cassa svolga un’attività di natura pubblicistica non incide sulla natura dei suoi atti, anche perché diversamente si rischierebbe di snaturare la stessa forma giuridica prescelta, resta invece il fatto che permane in capo allo Stato un ruolo ineliminabile di soggetto regolatore e controllante.

Nonostante gli spazi di manovra delle Casse, così come sopra ricostruiti, siano (e debbono essere) tali da consentire all’ente di poter gestire con una certa autonomia gli interessi dei propri iscritti, la finalità istituzionale che l’ente deve garantire non può far venire meno la necessità di regole ad hoc in relazione alla particolarità e all’importanza dell’attività svolta, e soprattutto in relazione all’interesse perseguito.

Ma la delega normativa e la regola dell’autofinanziamento fanno sì che l’intervento dello Stato debba essere contenuto.

Il riferimento è agli interventi normativi del periodo 2011-2014, adottati in piena crisi economica, che sembrano avere voluto sottrarre agli enti previdenziali quel ruolo di più ampio respiro nella gestione della previdenza di categoria che avevano ottenuto soprattutto con la riforma del 2006 (185).

Essi si sono posti in un’inversione di tendenza, che non fa intravedere in quelle scelte legislative la reale volontà di rescindere quel legame tra lo Stato e le Casse privatizzate che, al contrario, è stato reso più stringente, a voler confermare l’egemonia del primo sulle attività delle seconde, senza confidare eccessivamente nella capacità di un sistema (davvero) privato di continuare a garantire la funzione istitutiva.

Di fatti, a partire dal 2011, l’atteggiamento del legislatore è stato quello di intervenire sempre più con provvedimenti volti a salvaguardare l’equilibrio di bilancio e la stabilità finanziaria delle Casse nel lungo periodo, e, in qualche modo, seppure indirettamente, limitando proprio i poteri normativi posto che allo stato risultano esercitabili solo ove necessari a preservare quell’equilibrio economico-finanziario, il quale, se rapportato a un periodo di tempo troppo lungo (cinquanta anni) fa sì che la difficoltà di effettuare previsioni per un tale arco temporale, di fatto, determini la paralisi proprio dell’esercizio delle prerogative normative.

La finalità di interesse pubblico giustifica alcuni dei limiti alla loro autonomia, ma solo nella misura in cui sono necessari a garantirne la sopravvivenza e la tutela degli iscritti, e dunque la realizzazione della funzione previdenziale di cui lo Stato è responsabile ultimo.

Se il legame con la sfera pubblica, anche con riguardo ai controlli e alle norme impositive sulla gestione economico-finanziaria sono, in una certa misura, ineliminabili per la preservazione de sistema, occorre tuttavia che sia trovato un giusto equilibrio, senza sminuire la sfera di autonomia oltre quanto sia strettamente necessario alla garanzia della finalità pubblica.

In altre parole, l’imposizione di vincoli finanziari (così come di eccessivi controlli) frustra la stessa autosufficienza delle Casse e il principio di autofinanziamento. Se il sistema deve tendere a realizzare la garanzia di cui all’art. 38 Cost., l’imposizione di vincoli legali “poco ragionevoli” (anche, se non soprattutto, con riguardo all’obbligo di garantire l’equilibrio di bilancio per un arco di tempo lungo almeno fino a cinquanta anni; ma lo stesso potrebbe dirsi con riguardo al regime sui risparmi di spesa introdotto dalla c.d. spending review), può determinare, di fatto, una “paralizzazione” degli spazi di autonomia e di manovra delle Casse, posto che la porzione di potestà normativa loro affidata è legata proprio alla necessità di garantire la stabilità delle rispettive gestioni nel lungo periodo».

Trento, lì 9 aprile 2024