La resa algoritmica. Dalla normatività discorsiva alla computazione ambientale

La resa algoritmica. Dalla normatività discorsiva alla computazione ambientale
attribuzione paragrafi: Enrico Maestri (prg. 1, 3, 4, 6), Carlotta Mognato (prg. 2, 5, 7
Abstract
Il saggio propone una riflessione teorico-giuridica sul concetto di resa algoritmica, inteso come fenomeno di progressiva delega alla normatività computazionale nei contesti digitali regolati da agenti intelligenti. Attraverso un’analisi articolata in chiave funzionale, epistemica e ontologica, il contributo indaga le implicazioni della resa sul piano della responsabilità, della decisione e della giustificazione normativa. In conclusione, si valuta la tenuta teorica della digisprudence come possibile via per governare la normatività ambientale generata dal codice.
1. Introduzione
Nel dibattito contemporaneo sulla regolazione digitale, un'espressione si impone con forza crescente: resa algoritmica. Essa non indica, come si potrebbe credere in prima istanza, un cedimento dell’algoritmo, ma una forma di abdicazione del soggetto giuridico – individuale o istituzionale – di fronte all’efficacia, all’opacità e alla pervasività delle architetture computazionali autonome. Si tratta di una resa silenziosa ma strutturale, non episodica ma sistemica, che investe le fondamenta stesse del diritto moderno: il giudizio umano, la responsabilità soggettiva, la normatività discorsiva.
Con l’avvento di sistemi di Agentic Process Automation (APA) – in cui agenti digitali dotati di memoria, capacità inferenziale e autonomia operativa pianificano, decidono e agiscono in ambienti reali – non si assiste solo a un'evoluzione dell'automazione, ma a un dislocamento della sovranità regolativa. I sistemi algoritmici non sono più meri strumenti di supporto alle decisioni, ma nuovi attanti normativi, capaci di strutturare ambienti, generare effetti giuridici e sostituire il diritto scritto con forme di computazione ambientale.
In questa prospettiva, la resa algoritmica è il nome della transizione epocale da un diritto costruito nel linguaggio umano a una normatività emergente nei linguaggi della macchina. Essa esprime la delega irreversibile di funzioni cognitive e decisionali a entità opache, il cui funzionamento si sottrae tanto alla comprensione quanto al controllo ex ante ed ex post. È, in altri termini, la forma contemporanea dell'abbandono del giudizio in favore di procedure inferenziali che non chiedono di essere capite, ma solo di essere eseguite.
Questo paper propone una ricostruzione teorica del concetto di resa algoritmica come categoria critica per leggere la trasformazione del diritto nell’era dell’autonomia computazionale. L’obiettivo non è solo descrivere le tecnologie, ma interrogare le conseguenze ontologiche e normative dell’adozione di agenti algoritmici nei processi decisionali: cosa accade quando il diritto smette di essere un sistema interpretativo e diventa un comportamento emergente da ambienti digitali?
Dopo aver ricostruito la crisi della normatività discorsiva (§2) e l’emergere del governo computazionale (§3), verrà introdotta una definizione articolata di resa algoritmica (§4), per poi discutere le sue implicazioni giuridiche in termini di responsabilità, accountability e imputabilità (§5). Il paper si chiude con un confronto tra le due strategie regolative emergenti: da un lato, il tentativo restaurativo del diritto classico; dall’altro, l’ipotesi di una nuova digisprudenza, fondata sulla regolazione ambientale dei sistemi (§6), per infine suggerire una riflessione sulla forma di giuridicità che resta possibile nella computazione distribuita (§7).
2. La normatività discorsiva in crisi
Il diritto moderno ha costruito la propria legittimità sulla discorsività della norma e della decisione. La giuridicità si è costituita storicamente come procedura argomentativa, fondata sulla razionalità comunicativa, la motivazione del giudizio, la possibilità di contraddittorio e la public reason. In questo modello, la decisione è tale solo se è motivata, e la motivazione è vincolata a una forma logico-discorsiva suscettibile di verifica intersoggettiva (Alexy, 1989; Habermas, 1996). Il diritto, in tal senso, è l’opposto della forza cieca: è parola che vincola e che, nel vincolare, si espone alla contestazione.
Questa forma di normatività si fonda su una duplice assunzione: da un lato, che il soggetto umano sia il centro della decisione e della responsabilità; dall’altro, che il linguaggio naturale sia il medium attraverso cui il vincolo giuridico si articola. La norma è interpretabile, il caso è discutibile, il giudizio è criticabile. Il diritto si legittima nella lentezza del dialogo, non nella rapidità dell’esecuzione.
Tuttavia, tale architettura discorsiva mostra crepe sempre più evidenti nel confronto con le forme contemporanee di computazione normativa. Gli algoritmi non motivano, calcolano. I modelli predittivi non argomentano, correlano. I sistemi di machine learning non comprendono il significato, ma ottimizzano su basi statistiche. Eppure, sempre più frequentemente, le decisioni prodotte da tali sistemi vengono accolte come vincolanti, o addirittura più “oggettive” e “neutrali” di quelle umane. È in questa accettazione acritica che si consuma la crisi della normatività discorsiva: non perché essa venga formalmente negata, ma perché diventa inutile, inefficiente, retorica.
A rendere esplosiva questa transizione è l’emergere di architetture computazionali autonome, in particolare nel contesto dell’Agentic Process Automation (APA). Gli agenti APA non si limitano ad applicare regole: generano decisioni a partire da input ambigui, utilizzano strumenti esterni, memorizzano esperienze e orchestrano sequenze operative complesse. In questi sistemi, la normatività si trasferisce dal piano del discorso a quello dell’ambiente operativo: il comportamento giuridicamente rilevante non è più oggetto di valutazione da parte di un giudice, ma risultato emergente di un ciclo iterativo computazionale.
La crisi della normatività discorsiva non implica necessariamente la fine del diritto, ma impone di ripensarne radicalmente la struttura. Se il giudizio non è più prerogativa esclusiva del soggetto umano, se la decisione si genera fuori dal linguaggio e se la norma si manifesta come output inferenziale, allora il diritto non può più essere solo teoria dell’argomentazione. Deve diventare, anche, teoria della computazione normativa.
3. L’emergere della computazione ambientale
Alla base della resa algoritmica non vi è soltanto un cambio di tecnologie, ma un mutamento di paradigma ontologico e normativo. L’automazione, nella sua forma tradizionale, era strumentale: il codice eseguiva. La computazione ambientale, al contrario, costituisce ambienti normativi autonomi, capaci di definire, guidare e vincolare i comportamenti attraverso inferenze, affordances e vincoli tecnici. In questo nuovo quadro, non si interagisce più con una norma, ma si abita un ambiente computazionale che norma attraverso l’azione stessa.
La nozione di computazione ambientale può essere fatta risalire, nelle sue implicazioni regolative, a una doppia genealogia: da un lato, quella teorica, che include l’ontologia dell’infosfera (Floridi, 2013) e la svolta spaziale dell’intelligenza artificiale distribuita; dall’altro, quella tecnologica, che si esprime nell’emergere dell’Agentic Process Automation (APA) come nuova frontiera dell’automazione intelligente.
3.1 Il paradigma dell’Agentic Process Automation
Nel contesto contemporaneo della governance digitale, il concetto di resa algoritmica assume una dimensione sistemica quando osservato alla luce del paradigma emergente dell’Agentic Process Automation (APA). Non si tratta più di un mero trasferimento funzionale di compiti dall'umano alla macchina, come nell'automazione tradizionale o nella RPA (Robotic Process Automation), bensì della costituzione di soggettività agentive autonome, dotate di memoria, capacità inferenziale e accesso operativo al mondo reale.
L’APA rappresenta il punto d’approdo di una trasformazione qualitativa dell’automazione: gli agenti computazionali non si limitano a eseguire istruzioni codificate, ma costruiscono e interpretano autonomamente i flussi di lavoro, adattandosi a contesti variabili, prendendo decisioni sulla base di input non strutturati e invocando strumenti (API, database, altri agenti) in una logica compositiva. Il quadro epistemico è segnato dal passaggio dall’automazione procedurale alla computabilità agentiva, in cui la capacità di operare è strettamente connessa alla capacità di inferire, adattare, apprendere.
Ciò che avviene, in termini giuridico-filosofici, è una delega strutturale, e non contingente, al codice: una de-soggettivazione del decisore umano che si traduce in resa ontologica a un’intelligenza ambientale incorporata nei processi. La resa non è più soltanto operativa, ma ontotecnica: l’ambiente computazionale non si limita a supportare, ma diviene il luogo in cui si costituisce la decisione.
L'agente APA, modellato sulla logica ReAct (Reasoning + Acting), esercita una forma di agency situata, fondata su cicli iterativi Pensiero → Azione → Osservazione. In tale modello, l’output non è l’esecuzione di una regola, ma il frutto di una catena inferenziale aperta, potenzialmente non deterministica, che incorpora feedback, memoria e connessioni operative. L’inferenza computazionale sostituisce l’interpretazione umana, ponendo interrogativi radicali sulla trasparenza, sull’imputabilità e sulla normatività delle decisioni automatizzate.
All’interno di questo orizzonte, la resa algoritmica si configura come accettazione di una normatività esecutiva non emendabile, che si sottrae all’argomentabilità e alla contestazione nel senso giuridico tradizionale. Se la decisione dell’agente è fondata su una serie di interazioni cognitive tra LLM, strumenti e memorie, essa resta opaca tanto quanto il sistema che la genera: ciò che si osserva non è la ratio decidendi, ma solo il comportamento emergente.
In termini luhmanniani, la resa algoritmica all’APA può essere letta come una funzionalizzazione dell’ambiente decisionale: il sistema delega all’agente non solo l’azione, ma la costruzione del senso operativo. In tal senso, la resa non è una sconfitta, ma una riconfigurazione dell’agire regolativo, dove il codice computazionale diventa normativamente capace in virtù della sua efficienza inferenziale.
Le implicazioni giuridiche sono profonde: responsabilità, accountability, diritto all’opposizione, giustificazione della decisione e controllo ex post devono essere ripensati alla luce della soggettività computazionale. Non è più possibile distinguere tra “automazione dell’esecuzione” e “giudizio umano sul caso”: l’agente APA è il luogo dove il caso viene costruito, elaborato e risolto. E la resa algoritmica, in questo contesto, è già avvenuta nel momento in cui si accetta l’autonomia computazionale come architettura del reale.
3.2 Il codice come ambiente: architetture regolative
Con APA si realizza in pieno quanto già delineato da Lawrence Lessig (2006) e successivamente sviluppato da Diver (2022) e Hildebrandt (2020): il codice è legge, non perché contiene una regola, ma perché definisce l’ambiente entro cui l’azione è possibile o impossibile. È in questo passaggio che il diritto perde la sua trascendenza argomentativa e diventa immanente alla tecnica. La computazione ambientale non enuncia, ma dispone; non argomenta, ma struttura.
L’ambiente digitale computazionale incorpora regole non esplicitate, ma effettive. Le affordances tecniche, le soglie decisionali apprese da modelli LLM, gli automatismi costruiti con reti neurali agiscono come norme operative che non vengono discusse, ma eseguite. La computazione diventa normatività ambientale.
3.3 L’emergere di una soggettività computazionale
In ambienti regolati da APA, anche la soggettività umana viene ridefinita. Non è più un soggetto di diritto che agisce secondo volontà e giudizio, ma un nodo funzionale (Luhmann, 1990) che interagisce con agenti computazionali i quali interpretano, anticipano e talvolta sostituiscono le sue scelte. La persona, in questo contesto, è co-costituita dalla logica ambientale del codice: essa non solo si adatta all’ambiente, ma viene configurata da esso.
La computazione ambientale segna così il passaggio dalla logica della norma a quella dell’infrastruttura: non siamo più nel dominio della regola esplicita, ma in quello della configurazione implicita. Ed è proprio in questo scenario che si consuma la resa algoritmica, non come atto volontario, ma come effetto sistemico della trasformazione architettonica del potere computazionale.
4. Cos’è la resa algoritmica
La resa algoritmica non è un evento, ma una condizione sistemica in cui il diritto e la soggettività umana rinunciano alla centralità del giudizio in favore di forme computazionali autonome, in grado di decidere, agire e vincolare senza mediazione discorsiva. Si tratta di una resa che ha il carattere di una delega irreversibile: non perché sia giuridicamente irrevocabile, ma perché è strutturalmente incorporata nell’ambiente computazionale in cui oggi si produce normatività.
Nel senso più preciso, resa algoritmica designa il momento in cui il sistema giuridico – nella sua struttura e nei suoi attori – accetta l’autonomia computazionale come forma regolativa legittima, abdicando a tre livelli: funzionale, epistemico e ontologico.
4.1 La resa funzionale: efficienza contro argomentazione
A livello funzionale, la resa avviene quando si preferisce l’algoritmo al giudizio umano in nome della rapidità, dell’economicità o dell’affidabilità. È il caso della selezione automatica nei concorsi pubblici, della moderazione di contenuti nei social network, del pre-screening nel reclutamento HR, o ancora della giustizia predittiva (es. sistemi COMPAS). In tutti questi ambiti, l’essere umano viene sollevato dal compito di decidere, non perché incapace, ma perché superato in termini di prestazione.
Questa resa è spesso giustificata da un argomento utilitarista: l’algoritmo non è perfetto, ma meglio dell’umano. Tuttavia, ciò che viene silenziosamente espulso è il principio stesso della responsabilità deliberativa.
4.2 La resa epistemica: opacità come destino
La seconda forma di resa è epistemica. Accade quando si accetta di non comprendere più i processi decisionali, affidandosi a sistemi opachi (black box) che agiscono in virtù di logiche interne non intelligibili. La conoscenza della norma lascia il posto all’accettazione del risultato. Come sottolinea Hildebrandt (2018), la legge computazionale non è scritta ma eseguita: la norma non è nota, ma si manifesta ex post nel comportamento del sistema.
La resa epistemica è particolarmente grave perché disattiva le forme tradizionali di contestazione: non si può impugnare ciò che non si può comprendere. E se la comprensione non è più possibile nemmeno in linea di principio – perché il modello è non interpretabile –, la sindacabilità giuridica perde la propria ragion d’essere.
4.3 La resa ontologica: il codice come norma primaria
La forma più profonda di resa è ontologica: avviene quando si riconosce che la norma non precede più l’azione, ma è generata dal codice in tempo reale, in modo adattivo, iterativo, contestuale. Il diritto, in questa prospettiva, non è più un sistema di regole che vincola l’agente, ma l’ambiente stesso in cui l’agente (computazionale o umano) è immerso.
È qui che la computazione ambientale si rivela come nuovo paradigma normativo: non c’è più una legge da applicare, ma un comportamento da seguire perché prodotto, sollecitato, o limitato da un’infrastruttura algoritmica. La normatività non è più iscritta nel testo, ma incorporata nella tecnica.
In questa prospettiva, la resa algoritmica è la fine della norma come oggetto, e l’inizio della norma come condizione. È ciò che accade quando si accetta che il potere di decidere come agire sia distribuito nell’ambiente computazionale, e non più concentrato nel soggetto o nella norma scritta.
Questa triplice resa – funzionale, epistemica, ontologica – non è sempre visibile, ma si consuma quotidianamente nei dispositivi, nei processi e nelle interfacce che regolano le nostre vite. Il diritto, per continuare a esistere in senso forte, deve prendere atto di questa transizione. E decidere se subire la resa o rifondare sé stesso in forma computazionale.
Dal diritto discorsivo alla computazione ambientale
Asse concettuale |
Diritto discorsivo |
Computazione ambientale (APA) |
Fondamento della decisione |
Giudizio umano, motivazione, interpretazione |
Inferenza algoritmica, ottimizzazione, esecuzione autonoma |
Forma della normatività |
Testuale, argomentativa, giustificabile |
Architetturale, operativa, performativa |
Soggetto agente |
Persona giuridica dotata di volontà e responsabilità |
Agente computazionale dotato di ragionamento situato |
Medium normativo |
Linguaggio naturale |
Linguaggio computazionale (codice, API, modelli) |
Contesto d’azione |
Arena procedurale |
Ambiente operativo digitale |
Modalità della regolazione |
Norme esplicite, norme scritte |
Regole incorporate, affordances, vincoli tecnici |
Criterio di legittimità |
Discorsività, consenso, sindacabilità |
Efficienza, adattabilità, output affidabile |
Responsabilità |
Attribuibile, imputabile, sindacabile |
Dispersa, diffusa, opaca (accountability ambientale) |
Effetto sistemico |
Controllo attraverso il diritto |
Resa attraverso il codice |
5. Dalla decisione al comportamento: implicazioni giuridiche della resa algoritmica
La resa algoritmica, nelle sue tre forme – funzionale, epistemica, ontologica – produce una discontinuità profonda nelle categorie giuridiche classiche, in particolare per quanto riguarda la responsabilità, la sindacabilità e la legittimità della decisione. Se il diritto si è costituito storicamente come disciplina della decisione umana, fondando sulla figura del soggetto responsabile l’intero edificio della normatività e della giustizia, l’autonomia computazionale dei sistemi agentivi impone una ridefinizione radicale del rapporto tra azione, autore e imputabilità.
5.1 La decisione senza giudice
Nel paradigma algoritmico, la decisione non è più atto deliberativo di un soggetto, ma output generato da un processo inferenziale. L’agente APA, come descritto nei modelli ReAct, non esegue semplicemente regole, ma costruisce una sequenza di azioni adattive sulla base di input ambientali e conoscenze distribuite. La decisione è così sottratta alla figura del giudice e trasferita a un processo tecnico che non ha centro: non c’è più un autore unico, ma una molteplicità di contributori invisibili, tra codice, dati, modelli e feedback ambientali.
La conseguenza giuridica è la crisi del concetto stesso di responsabilità individuale. Chi ha deciso? Chi può spiegare il perché? A chi si può imputare l’esito? In assenza di queste risposte, la responsabilità viene dissolta o redistribuita su piani opachi e reticolari, rendendo inoperanti gli strumenti tradizionali di controllo.
5.2 Modelli emergenti di responsabilità distribuita
Di fronte a questa crisi, si stanno affermando nuovi modelli di responsabilità “ambientale” o “distribuita”, nei quali il soggetto non è più l’unico centro dell’azione, ma un punto all’interno di una rete decisionale distribuita. Questi modelli, già visibili nella discussione sulla responsabilità dell’IA (Bertolini, 2025), si articolano in almeno tre forme:
- Responsabilità progettuale: attribuita ai produttori e sviluppatori dei sistemi (designers, provider, costruttori di LLM), in base alle scelte tecniche incorporate ex ante. È il paradigma del by design (Floridi,2022; Hildebrandt, 2020).
- Responsabilità gestionale: assegnata a chi utilizza e integra il sistema in un processo decisionale reale (operatori, data manager, aziende), anche in assenza di piena comprensione del funzionamento del sistema.
- Responsabilità sistemica: distribuita su enti istituzionali, economici o assicurativi che assorbono l’imputazione strutturale del danno, indipendentemente da colpa o dolo. È il modello giapponese della responsabilità per allocazione ex ante del rischio.
Questi regimi ibridi indicano una transizione dalla responsabilità come imputazione soggettiva alla responsabilità come gestione collettiva della complessità. La resa algoritmica, in questo senso, non elimina il problema della responsabilità, ma lo trasforma in questione di governance.
5.3 Controllo giuridico e accountability computazionale
Il diritto, nella sua forma classica, esercita il controllo ex post attraverso la possibilità di impugnazione, revisione, contraddittorio. Ma nel caso dei sistemi agentivi, l’output può non essere motivato, e anzi può essere non ricostruibile nemmeno a posteriori. La computazione ambientale non lascia tracce discorsive, ma solo comportamenti. Questo determina una crisi dell’accountability procedurale e impone lo sviluppo di nuove forme di accountability computazionale, basate su:
- Logging automatico delle decisioni e dei percorsi inferenziali;
- Auditabilità dei modelli e delle pipeline di dati;
- Tracciabilità delle memorie agentive e dei prompt;
- Strumenti di contestazione tecnicamente integrati (contestability by design).
Queste strategie – già esplorate in parte nel contesto dell’AI Act e della governance della black box – non eliminano la resa, ma cercano di disciplinarne gli effetti sistemici. Si tratta, in altri termini, di accettare la computazione come nuovo orizzonte normativo, ma senza rinunciare alla garanzia della sindacabilità.
La resa algoritmica produce dunque una frattura nella grammatica giuridica della responsabilità, ma al tempo stesso spinge il diritto a reinventare sé stesso per continuare a garantire ciò che da sempre costituisce il suo nucleo: la possibilità di rispondere, di rispondere a qualcuno, e di rispondere di qualcosa.
6. Vie di fuga: restaurazione o digisprudence?
Di fronte alla resa algoritmica, il diritto può reagire in due modi. Il primo è un tentativo di restaurazione, volto a riaffermare la centralità delle categorie classiche (volontà, imputabilità, controllo, motivazione) nei confronti delle tecnologie agentive. Il secondo è una trasformazione interna, una rifondazione del giuridico che accetti la computazione non come minaccia, ma come ambiente normativo primario. Questo secondo percorso è quello tracciato dalla teoria della digisprudence.
6.1 Restaurazione: il legalismo come difesa simbolica
La via restaurativa si manifesta oggi in molte delle reazioni regolative europee: il tentativo di costruire una “compliance by law” in opposizione alla “compliance by design”, la riaffermazione della dignità della motivazione giuridica, il richiamo al controllo umano significativo (meaningful human control). Si tratta di strategie che mirano a ricondurre l’azione algoritmica entro schemi giuridici tradizionali, considerati ancora validi e necessari.
Ma questa restaurazione rischia di essere una difesa simbolica, destinata a collassare per eccesso di astrazione. Come mostra Laurence Diver nella sua Digisprudence (2022), il diritto che pretende di regolamentare la computazione senza comprenderne la logica interna finisce per restare esterno al processo normativo reale. La legge parla, ma nessuno la esegue. La norma è scritta, ma la decisione è presa altrove. Il risultato è una dissonanza normativa crescente tra la semantica giuridica e l’infrastruttura computazionale che struttura i comportamenti.
6.2 Digisprudence: una terza via computazionale
La digisprudence nasce proprio da questa impasse. Essa propone di ripensare il diritto non come sistema normativo separato dal codice, ma come insieme di processi computazionali orientati normativamente. In questa prospettiva, il diritto può essere incorporato negli ambienti computazionali, ma a condizione che ciò avvenga in modo riflessivo, trasparente, e strutturalmente contestabile.
La digisprudence si distingue sia dal tecnodeterminismo di Lessig (in cui code is law è constatazione di fatto), sia dal legalismo antiformalista (che respinge il codice come non-giuridico), proponendo un paradigma computazionale del diritto, disegnato per garantire accountability, giustificazione e giustizia. Non si tratta dunque di difendere il diritto contro l’algoritmo, ma di produrre diritto con l’algoritmo.
Le condizioni minime di una digisprudenza autentica includono:
- Normatività eseguibile, ma giustificata: il codice può normare, ma deve essere sindacabile.
- Architetture responsabili: ogni agente computazionale deve incorporare affordances di contestazione (explainability, traceability, contestability).
- Governance integrata: la legittimità non deriva dalla legge o dal codice isolatamente, ma dalla composizione pluralistica degli standard, dei diritti e delle architetture.
In questo senso, la digisprudence non è un ritorno alla legge, né una fuga nel codice, ma una nuova grammatica normativa per ambienti digitali.
6.3 Tenuta o collasso?
La questione resta aperta. La digisprudence è ancora una teoria emergente, i cui principi non hanno ancora trovato piena attuazione nei dispositivi tecnici reali. Gli ambienti governati da agenti APA sono spesso opachi, privi di accountability interna, disegnati in base a logiche proprietarie e predittive. In tali contesti, la resa algoritmica è più reale della digisprudenza.
E tuttavia, proprio in quanto reazione teorica alla resa, la digisprudence può diventare criterio critico. Non tanto come descrizione dell’esistente, ma come istanza normativa per orientare la progettazione futura. In questo senso, la digisprudence tiene non perché sia già realizzata, ma perché costituisce la sola alternativa razionale alla resa definitiva del diritto.
7. Conclusione. Governare la resa
La resa algoritmica segna una svolta epistemica e ontologica nella traiettoria del diritto: non è semplicemente una perdita di potere, ma una trasformazione del luogo in cui si produce la normatività. Da struttura discorsiva centrata sul soggetto, il diritto si trova oggi a confrontarsi con ambienti normativi computazionali, nei quali la regola non è più (solo) scritta, ma incorporata, adattiva, situata.
L’autonomia degli agenti APA, la potenza operativa delle architetture digitali, l’opacità dei modelli inferenziali mettono in crisi i dispositivi classici di responsabilità, imputazione, controllo e contestazione. Ma questa crisi non implica necessariamente una dissoluzione della normatività: può diventare, al contrario, un’occasione di rifondazione.
Governare la resa non significa restaurare il passato, né accettare l’automazione cieca. Significa riprogettare il diritto in modo computazionale, preservandone i principi fondamentali – responsabilità, contestabilità, giustificazione – attraverso nuove forme, nuove metriche, e nuove architetture.
È qui che la digisprudence, nella sua forma più esigente, si presenta come via teorica e pratica per una normatività algoritmica giusta. Essa non nega la resa: la prende sul serio. Ma trasforma la resa in governo, l’automazione in progettazione normativa, il codice in diritto eseguibile ma sindacabile.
La sfida è dunque duplice: non subire la computazione, ma nemmeno illudersi di dominarla con categorie superate. Occorre un diritto che sia dentro gli ambienti computazionali, non fuori; che non tema la formalizzazione, ma la orienti; che non abdichi all’inferenza, ma la disciplini.
Solo così potremo non solo descrivere, ma anche normare la nuova condizione giuridica dell’azione nell’infosfera.