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Distinzione di poteri e potestà esecutiva

Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

Indice:

1. Il diritto precodiciale: quadro di insieme

2. Gli sviluppi successivi alla Sapienti consilio ed alla codificazione del 1917

3. Riforme e attese postconciliari

4. Caratteri generali della potestà esecutiva nel nuovo Codice latino

 

Can. 129 - “§1. Sono abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell'ordine sacro, a norma delle disposizioni del diritto.

§2. Nell'esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto.

 

Can. 135 - “§1. La potestà di governo si distingue in legislativa, esecutiva e giudiziale.

§2. La potestà legislativa è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, e quella di cui gode nella Chiesa il legislatore al di sotto dell'autorità suprema, non può essere validamente delegata, se non è disposto esplicitamente altro dal diritto; da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore.

§3. La potestà giudiziale, di cui godono i giudici e i collegi giudiziari, è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, e non può essere delegata, se non per eseguire gli atti preparatori di un qualsiasi decreto o sentenza.

§4. Per ciò che concerne l'esercizio della potestà esecutiva, si osservino le disposizioni dei canoni che seguono.

 

1. Il diritto precodiciale: quadro di insieme

In diritto canonico, “potestà di governo” è tuttora sinonimo di iurisdictio, nell'onnicomprensiva accezione medioevale, tuttavia le riforme seguite al Concilio Vaticano II hanno sdoganato la sua distinzione in tre forme distinte, legislativa, esecutiva e giudiziale. Distinzione nuova, dunque, e per buoni motivi: fin da quando la fine delle persecuzioni le ha permesso un libero sviluppo istituzionale, la Chiesa latina ha modellato il proprio funzionamento – a livello locale oltreché centrale – sulla Cancelleria dell'Impero romano, come dire sull'assolvimento promiscuo di funzioni che, oggi, tenderemmo a distinguere appunto in legislative, amministrative e giudiziarie.

Le caratteristiche strutturali del sistema sono:

  1. un princeps ecclesiastico (Papa o Vescovo) nel quale risiede la pienezza del potere o plenitudo potestatis, da intendersi come capacità di innovare l'ordinamento ponendo regole nuove;

  2. una rete di collaboratori nominati da lui e investiti della sua fiducia, in un rapporto di particolare dipendenza personale che li abilita ad emanare provvedimenti in suo nome;

  3. l'afflusso costante di suppliche, relative alle questioni più disparate, che in genere contengono richieste di intervento su un caso concreto, vuoi in forma di vero e proprio appello giudiziale, vuoi come domanda di grazia, di dispensa, di concessione di privilegi, oppure di ratifica di stati di fatto, decisioni o accordi, ma talvolta anche di provvedimenti generali;

  4. lo strumento più usato per siffatti interventi è il rescriptum, la risposta vergata in calce (re-scripta) a tali suppliche, il cui contenuto può variare dalla pura e semplice applicazione della legge fino alla più radicale innovazione dell'ordinamento esistente.

Questi tratti, ben noti alla realtà istituzionale del Dominato, contraddistinguono anche l'esperienza delle monarchie medioevali e della prima età moderna, ma soprattutto l'ordinamento canonico.

In un simile contesto, a nessuno può venire in mente di teorizzare divisioni interne alla iurisdictio; i grandi problemi sono controllare i rescritti (sia ex ante, sia ex post, sia nei loro effetti), comprendere se un determinato atto, formalmente indirizzato a soggetti particolari, abbia in realtà portata generale, chiarire quando debba intendersi esercitata la plenitudo potestatis.1

Ora, il rescritto, per natura sua, viene in qualche modo a dipendere dalla presentazione dei fatti contenuta nella supplica; verifiche e controlli previ alla decisione sono possibili in astratto, ma non ritenuti praticabili in via sistematica. Il problema dell'istruttoria viene quindi risolto mediante due alternative: il rescritto in forma commissoria, che in sostanza delega un'autorità inferiore, in genere territorialmente più vicina al potenziale beneficiario, a verificare che sussistano i presupposti necessari – e distintamente specificati – per concedere quanto richiesto;2 oppure il controllo giudiziario ex post, reso possibile dalla regola generale secondo cui, se i fatti esposti e determinanti sono falsi (obreptio) o se ne sono stati omessi altri che, laddove conosciuti, avrebbero comportato una diversa valutazione (subreptio), il rescritto stesso è nullo ipso iure. Ciò vale in particolar modo per quelli che vadano a ledere diritti di terzi non menzionati nella supplica, cosicché – in un mondo gelosissimo delle attribuzioni onorifiche, oltreché delle patrimoniali – l'ordinamento affida alla minaccia di una reazione giudiziale dei soggetti lesi la tutela dell'interesse generale alla verità delle suppliche o alla giustizia dei rescritti.

Inoltre, i canonisti, proprio perché acutamente consapevoli dei pericoli insiti in tale istituto, tendono a limitarne il più possibile gli effetti sul piano interpretativo. In particolare, si afferma il principio per cui la iurisdictio è, di regola, applicazione del diritto già in essere, mentre la sua innovazione mediante la plenitudo potestatis ha carattere eccezionale, non si presume mai e non va estesa oltre i casi o i soggetti espressamente considerati. Quindi, da un lato troviamo un corpus di provvedimenti identici tra loro o quasi, che proprio per tale stabilità assumono valore di interpretazione autorevole del diritto vigente, dando vita allo stylus Curiae, e sono sempre rappresentativi di una regola più generale; dall'altro, vi sono singoli atti – presto identificabili mediante apposite clausole – che vanno soggetti ad interpretazione stretta e non si estendono in similibus, ma il cui contenuto, pur ristretto entro tali limiti, può contenere ogni sorta di innovazione o deroga al diritto vigente.

Si potrebbe essere tentati di ravvisare nella prima categoria di atti gli antesignani dei provvedimenti amministrativi; l'accostamento, però, oscurerebbe una differenza essenziale, la mancanza del concetto di discrezionalità come scelta tra più alternative legittime, orientata dall'esigenza di perseguire un pubblico interesse. Semmai, ancora prima che dispensatio divenisse un termine tecnico, l'accento è sempre caduto sulle peculiarità di ogni singola anima, l'esigenza di adattare il contenuto concreto dell'azione disciplinare – e non solo – nel senso di una maggior probabilità di salvezza per il fedele interessato, in un delicatissimo equilibrio tra giustizia e misericordia.3 Ma la dispensa in senso tecnico, come pure il privilegio, sono stati considerati atti del potere legislativo, poiché creavano deroghe al diritto generale;4 a ciò si è aggiunta anche una tesi che attribuiva ai rescritti natura lato sensu contrattuale, cosicché il provvedimento verrebbe perfezionato solo con l'accettazione da parte del destinatario.

Infine, ma non da ultimo, va osservato che l'individuazione di un ambito propriamente amministrativo all'interno della iurisdictio era impossibile, fintantoché la generalità degli atti lesivi incontrava un rimedio concettualmente unitario, la appellatio, e la sola differenza correva tra veri e propri appelli avverso sentenze, che davano luogo a una decisione di seconda istanza, e la appellatio extraiudicialis, contro qualunque atto dato extra iudicium, che si concludeva con una decisione in prima istanza, ulteriormente appellabile. Non esisteva, in altre parole, l'idea di un “merito amministrativo” insindacabile in sede giudiziaria.

Tuttavia – questa sembra l'unica innovazione degna di rilievo nella pur lunghissima storia che precede il Codice del 1917 – a partire dal XVI secolo, con lo sviluppo delle Congregazioni della Curia Romana, l'istituto della appellatio extraiudicialis inizia un lungo declino, giacché i nuovi organismi operano con potestà vicaria del Papa e, in quanto tali, non sottostanno a tale rimedio, mentre l'ampiezza dei loro poteri e l'economicità della procedura li rendono validi concorrenti dei Tribunali apostolici: i prodromi per l'individuazione di un diritto amministrativo canonico vanno ravvisati proprio nella crescita graduale del ricorso gerarchico, indirizzato alle Congregazioni, come rimedio distinto e privilegiato rispetto alla appellatio, nonché nel declino dei Tribunali Apostolici, divenuto paralisi assoluta dopo la breccia di Porta Pia.

 

2. Gli sviluppi successivi alla Sapienti consilio ed alla codificazione del 1917

Tra il 1908 e il 1917, la riforma della Curia promulgata da S. Pio X (Cost. Ap. Sapienti consilio) e la successiva codificazione del diritto latino hanno comportato, anzitutto, un complessivo riassetto degli uffici centrali con eliminazione almeno tendenziale delle sovrapposizioni di competenza; tuttavia, malgrado il ripristino della Rota e della Segnatura, il criterio di riparto degli affari tra Tribunali e Congregazioni era rimesso, in sostanza, all'apprezzamento discrezionale di queste ultime, tenute a rimettere alla Rota le cause contenziose che – a loro avviso – richiedessero l'assunzione di testi, o la trattazione in forma giudiziaria, mentre potevano decidere quelle documentali e audire le parti, “senza scritture di avvocati”.5 Era sempre possibile il passaggio dalla via giudiziaria all'esame in Congregazione, non però viceversa, salvo il caso di speciale commissione pontificia; sia per questo sia perché, in ambito locale, quasi su ogni questione i Vescovi potevano provvedere mediante decreti extra iudicium o previo processo, non potevano svilupparsi ambiti di competenza distinti in modo netto. Tuttavia, il can. 1601 del CIC 1917 soppresse la appellatio extraiudicialis, stabilendo che da quel momento in poi il solo rimedio contro i decreti extra iudicium degli Ordinari sarebbe stato il recursus alle Congregazioni (nome attribuitogli proprio in quel momento, per chiara analogia con i sistemi di giustizia amministrativa italiano e francese): incertezze sull'ambito di applicazione non mancarono, soprattutto perché il can. 1667 riconosceva diritto di azione a difesa di ogni ius, cosicché parte delle dottrina propose di recepire la distinzione italiana tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. Le relative dispute hanno segnato l'inizio dell'elaborazione del diritto amministrativo canonico come branca disciplinare a sé stante, anche se non hanno conosciuto particolari ricadute pratiche fino agli anni Sessanta, perché di fatto la generalità delle questioni era deferita alle SS. Congregazioni competenti e la Rota, nei rari casi in cui si trovò investita di cause che potevano concerne decreti degli Ordinari, quasi sempre dichiarò la propria incompetenza.

La situazione era, quindi, nettamente mutata rispetto al diritto precodiciale, poiché adesso esisteva sicuramente un ambito in cui i Tribunali ecclesiastici non potevano pronunziarsi; il criterio meramente formale del can. 1601 escludeva, però, che si trattasse di una vera e propria sfera di attribuzioni separata, eccezion fatta al più per atti come le nomine, che non vi sarebbe mai stata ragione di emanare all'esito di un processo. La dottrina si sentiva chiamata a trovare una ratio, ma non poteva che rifarsi o alla differenza tra giudizio vincolato dei Tribunali e poteri discrezionali delle Congregazioni, o alle prescrizioni di S. Pio X sui criteri di riparto tra i due: questi ultimi, già si è detto, non potevano individuare materie ben distinte, mentre il riconoscimento di quella che – a questo punto – possiamo chiamare “discrezionalità amministrativa” in senso stretto costituiva un fattore importante, ma esigeva altresì uno sforzo dottrinale volto almeno a precisarne i modi di esercizio, data l'assenza di una disciplina generale sul procedimento o sugli stessi poteri.

Tuttavia, da questo punto di vista il Codice segnò un'altra novità importante: posti dinanzi ad una normativa generale su dispense e rescritti (cann. 36-62, 80-6), gli interpreti abbandonarono rapidamente – sebbene non senza contrasti - le vecchie teorie circa il loro carattere legislativo o contrattuale,6 per farne appunto atti amministrativi.7 Ciò, a sua volta, apriva le porte alla possibilità di concepire la potestà esecutiva come contraddistinta da discrezionalità, perché i rescritti, almeno nella maggior parte dei casi, contengono grazie,8 che per definizione non sono atti legalmente dovuti.9 Persisteva, però, un ostacolo considerevole: che il Vescovo in sede locale e il Papa a livello universale fossero detentori di una iurisdictio piena era un dato de Fide e impediva di applicare lo schema della tripartizione dei poteri, se non come descrittivo di una diversità di funzioni.10 Diversità che, tuttavia, non poteva tradursi in apparati del tutto indipendenti, perché le Congregazioni e, in ambito diocesano, il Vicario generale o quello giudiziale restavano uffici dipendenti dal Papa o dal Vescovo, che dovevano conservare la piena libertà, iure divino, di esercitar tutte le funzioni in prima persona se così avessero ritenuto. Insomma, per gli atti del Papa o dei Vescovi occorreva teorizzare una restrizione o determinazione volontaria degli effetti, mentre per quelli dei loro vicari la legge aiutava, almeno in parte, a precisare l'oggetto delle rispettive funzioni e i rimedi esperibili; tutto questo, però, non faceva che lasciare aperto l'ultimo dei grandi problemi, le forme di tutela, o meglio la loro conclamata insufficienza. In altre parole: la visione ottocentesca dell'amministrazione come attività unilaterale di imperio, volta a perseguire concretamente l'interesse pubblico nei singoli casi, si sposava molto bene con la concezione allora imperante dei doveri dell'autorità ecclesiastica, ma per sua natura – anche ad onta delle intenzioni dei diversi autori - non tendeva certo ad ampliare i margini di reazione disponibili per i sudditi.

Dinanzi ad un sistema di “amministrazione-giudice” in cui, a fronte dell'assenza di termini perentori generali, salva la loro previsione in singoli casi, non si dava neppure un vero e proprio obbligo di intervento da parte del Superiore adito, né il corrente aveva diritto a valersi di un avvocato, ad esaminare gli atti o a controbattere, anzi lo stesso provvedimento finale non recava la motivazione, ma solo un dispositivo espresso nelle formule tradizionali della Curia Romana,11 la percezione di invalidità assiologica era pressoché inevitabile, nonché perfettamente giustificata. Non vi era, però, accordo sulle possibili riforme, anche perché i canonisti, invece di rimeditare la tradizione loro propria, si concentravano su eventuali recezioni di apporti della scienza giuridica secolare, che non potevano mancar di alimentare controversie.

 

3. Riforme e attese postconciliari

Il 25 gennaio 1959, Giovanni XXIII annunciò contemporaneamente l'avvio di un'opera di revisione del Codice e la convocazione di un nuovo Concilio Ecumenico, che prese il nome di Vaticano II: sebbene i lavori conciliari non toccassero direttamente il tema in esame, le considerazioni svolte sulla potestà di governo come servizio (ministerium), sulla valorizzazione del laicato o sul bisogno di purificazione insito nella Chiesa stessa rendevano matura una svolta.

Nel 1967, il primo Sinodo dei Vescovi, approvando i princìpi direttivi per la riforma del Codice,12 optò senza equivoci per il riconoscimento di veri e propri diritti soggettivi nell'ambito della Chiesa13 e per la distinzione di potestà, volta a rendere possibile l'introduzione di migliori forme di giustizia amministrativa, sia con il rafforzamento dei ricorsi gerarchici sia mediante l'istituzione di Tribunali appositi. Quasi in contemporanea, la riforma della Curia promulgata da Paolo VI (Cost. Ap. “Regimini Ecclesiae universae”) anticipò il passo più significativo perché, recependo ma allargando un suggerimento avanzato da Goyeneche una quindicina di anni prima,14 attribuì alla Segnatra Apostolica un inedito controllo giurisdizionale sugli atti delle Congregazioni (“actus potestatis administrativae”, concetto non meglio definito), in caso di violazione di legge (“quoties contendatur actum ipsum legem aliquam violasse”). Si trattava, quindi, di una tutela giurisdizionale in unica istanza,15 possibile soltanto una volta esaurito l'iter del ricorso gerarchico, oppure in caso di intervento diretto del Dicastero su un caso, non però avverso il silenzio; inoltre, un'interpretazione autentica dell'11 gennaio 197116 chiarì che il Supremo Tribunale doveva limitarsi a cassare l'atto illegittimo, senza sindacare il “merito amministrativo”, salvo che vi fosse un'apposita commissione da parte del Romano Pontefice.17

Nonostante questi limiti, l'introduzione del rimedio venne salutata con grande favore e soprattutto il primo decennio di attività della Segnatura in campo contenzioso-amministrativo (corrispondente all'incirca con la Prefettura del Card. Dino Staffa) vide un gran numero di decisioni pubblicate,18 che chiarirono anche svariati dubbi relativi alla speciale disciplina processuale introdotta nel 1968 con apposite Normae ad experimentum servandae, per esempio l'individuazione della parte resistente o di quella legittimata al ricorso: in entrambi i casi, si riconobbe all'autorità ecclesiastica inferiore, il cui provvedimento fosse stato confermato o, viceversa, riformato, il diritto di difenderne o rivendicarne la legittimità in Segnatura, sebbene soprattutto la seconda ipotesi non abbia mancato di suscitare critiche.

Un notevole rafforzamento delle garanzie era atteso dalla riforma del Codice, che, oltre alla formalizzazione di una nutrita serie di diritti dei fedeli, contenuti nel progetto di Lex Ecclesiae fundamentalis (LEF), avrebbe dovuto prevedere un nucleo minimo di norme sul procedimento amministrativo e sui ricorsi gerarchici, nonché l'istituzione dei Tribunali amministrativi locali. Tuttavia, questi ultimi scomparvero all'ultimo minuto dal testo promulgato e, sebbene non sembri esclusa la possibilità di una loro erezione da parte della Segnatura per iniziativa dell'autorità ecclesiastica locale, iniziative in tal senso non risultano, fin qui, mai assunte; il catalogo dei diritti venne inserito nel Codice, data la scelta del Papa di non promulgare la lex, e le già scarne discipline dedicate a procedimento e ricorsi gerarchici vennero ulteriormente sfrondate.

 

4. Caratteri generali della potestà esecutiva nel nuovo Codice latino

Il nuovo Codice, per espressa opzione dei compilatori, diversamente da quello che l'ha preceduto rifugge dalle definizioni, quindi non ha risolto nessuno dei problemi relativi all'individuazione dell'ambito della potestas administrativa o exsecutiva, perlomeno non in modo espresso.

Nondimeno, è senz'altro possibile tentare una descrizione generale di questa potestà e delle caratteristiche che vengono a contraddistinguerla, non fosse che per contrasto con le altre: siccome gli atti giudiziali sono chiaramente identificabili, mentre i Dicasteri della Curia Romana sono stati espressamente esclusi dal novero dei titolari di potestà legislativa, individuare gli atti amministrativi risulta più semplice e l'esistenza di una loro disciplina nell'ambito delle Norme generali agevola le ricostruzioni sistematiche.

  1. Anzitutto, sebbene il munus regendi attribuito ai Pastori comprenda anche attività consultive e perfino la gestione materiale dei beni ecclesiastici, ai cann. 29-35 risulta sottesa una chiara nozione di “atto amministrativo”, generale o singolare, come manifestazione di volontà diretta a produrre, in via unilaterale, effetti giuridici nella sfera dei destinatari;19

  2. mentre i communia praescripta dati dal legislatore ad una communitas capax saltem recipiendi legem sono senz'altro leggi (can. 29), lo stesso non vale per gli altri atti amministrativi generali, quindi a contrario deve ritenersi che il legislatore possa emanare – perlomeno – istruzioni applicative della legge senza che esse assumano natura legislativa;20

  3. sia gli atti amministrativi generali sia quelli singolari appaiono retti dal principio di tipicità: comunque vengano ad essere denominati nel caso concreto, l'interprete deve qualificarli secondo uno dei tipi previsti dal Codice;

  4. in concreto, comunque, non può che prevalere un criterio residuale secondo cui sono atti amministrativi, nel senso testé descritto, tutte le manifestazioni di volontà non riconducibili con certezza ad una delle altre due funzioni (la preferenza, nel dubbio, per tale qualifica si giustifica sia perché salvaguarda il diritto al ricorso gerarchico, sia perché, ex can. 14, le leggi non urgono nel caso di dubium iuris, quale sarebbe certamente quello sulla loro stessa natura di legge);

  5. l'antico problema dell'estensione in similibus non dovrebbe porsi per gli atti generali, se non come riflesso dell'applicazione analogica di un dettame della legge cui si riferiscono; invece, l'atto singolare, pur vincolante per le parti nella sua interpretazione della legge ex can. 16 §3 (sempre se non viene riformato o annullato in sede di ricorso), non può mai essere esteso ad altri casi (can. 36 §2); anche per dare vita alla praxis Curiae Romanae con il suo peculiare valore normativo, non si fa certamente luogo all'applicazione analogica di un singolo rescritto, bensì all'iterata adozione di provvedimenti singoli di contenuto similare;21

  6. infine, la forma scritta è necessaria all'esistenza stessa degli atti generali,22 mentre per quelli singolari il can. 37 la richiede solo per la prova in foro esterno (in foro interno resta dunque possibile usare liberamente delle grazie concesse vivae vocis oraculo, cfr. can. 59 §2).

Quest'ultima regola va forse considerata la più importante dal punto di vista pratico, giacché sono tuttora frequenti esternazioni orali di carattere più o meno interlocutorio o dilatorio, che, in assenza di un inequivoco criterio dirimente, potrebbero poi essere fatte passare per manifestazioni di volontà in senso proprio. Il problema, tuttavia, non manca di proporsi anche rispetto a documenti scritti dove, soprattutto negli ultimi decenni, non sempre risulta facile distinguere le semplici esortazioni dai veri e propri provvedimenti espressi, magari per delicatezza o nella speranza di agevolare l'adesione spontanea, in forma più sfumata. Nei casi di dubbio probabile, dovrebbe prevalere la lettura più favorevole al destinatario, soprattutto quando sia in gioco il suo diritto al ricorso, che potrebbe essere compromesso dalla mancanza di un'impugnazione tempestiva avverso quella che non sembrava, lì per lì, l'ultima parola dell'autorità in argomento.

Sotto un altro punto di vista, il can. 35, richiedendo che l'atto singolare sia emesso “entro i limiti della competenza” dell'autore, implicitamente richiama la forma di organizzazione caratteristica del suo esercizio: sebbene l'attuale definizione di ufficio ecclesiastico ex can. 145 non richieda più che ad essi sia annessa la potestà, ciò non toglie che la potestas exsecutiva sia di fatto attribuita ad una molteplicità di uffici, generalmente senza escludere la concorrenza di attribuzioni. In effetti, su una data materia si dà, di solito, un minimo di quattro autorità munite di competenza ad emettere atti amministrativi: il Papa, il pertinente Dicastero della Curia Romana, il Vescovo (o il Superiore religioso) e il Vicario generale. Inoltre, accanto al sistema degli uffici, il Codice ammette anche il ricorso normale alla delega, che è invece considerato eccezionale per le altre due funzioni, e contempla sia la possibilità di delegare ad casum sia per un insieme di casi, non senza specificare che, quando l'autorità delegante è la Sede Apostolica, salva disposizione diversa si intende accordata anche la facoltà di suddelega. Infine, nel sistema del Codice vigente non si parla più di “supplenza di giurisdizione” estesa a tutta la iurisdictio, ma questa specifica forma di delega a iure è circoscritta a singoli atti della potestà esecutiva (cfr. can. 144). Il requisito del dubbio probabile funge da criterio risolutore delle questioni sulla competenza: nel dubbio che Tizio sia dotato di potestà esecutiva rispetto alla data materia, la risposta è sempre affermativa, perché se non l'avesse per attribuzione diretta l'avrebbe comunque per supplenza. Invece, il requisito alternativo dell'errore comune rende validi gli atti posti da quello che, in ambito secolare, si chiamerebbe “funzionario di fatto”: la scelta codicistica di distinguere con particolare attenzione la potestà amministrativa dalla legislativa basta da sola a spiegare perché l'eventuale esercizio di fatto di quest'ultima non benefici della supplenza, tanto varrebbe abrogare i cann. 29 e 30.

Un'ultima considerazione riguarda il rapporto tra l'atto amministrativo e la legge.

Mentre per gli atti amministrativi generali il Codice reca indicazioni molto nette sull'impossibilità che essi rechino disposizioni contra legem, a pena di nullità, anche se dettarne di praeter legem rientra senz'altro nella loro ragion d'essere, rispetto agli atti singolari occorre considerare che la potestà esecutiva comporta di per sé il potere di dispensare dall'osservanza della legge (can. 85). nel primo caso, quindi, si può parlare di un assoggettamento dell'apparato amministrativo al principio di legalità, in un senso non troppo dissimile da quello in voga negli ordinamenti statali; ma rispetto ai provvedimenti singolari è parso impossibile ridurli ad un momento di mera applicazione del dato legale, foss'anche di una legge ricca di clausole generali ed espressioni vaghe come il nuovo Codice. In effetti, il potere di dispensare dall'osservanza della legge in un caso particolare non è che il riconoscimento della particolarità di esso, che chiama in causa l'epieikeia: si potrebbe giustificarne l'inclusione nella potestà esecutiva ricorrendo alla volontà presunta del legislatore, ma il Codice se ne astiene e, anzi, richiedendo una giusta causa per la validità dell'atto, se non è posto dal legislatore (can. 90), mostra di aver optato per un altro paradigma interpretativo.

Tuttavia, la possibilità di deroga alla legge non è circoscritta alla dispensa: il can. 38 contiene una regola generale, applicabile quindi a tutti gli atti singolari, secondo cui “L'atto amministrativo, anche se si tratta di un rescritto dato Motu proprio, è privo di effetto nella misura in cui lede un diritto acquisito oppure è contrario a una legge o a una consuetudine approvata, a meno che l'autorità competente non abbia aggiunto espressamente una clausola derogatoria.”.

Il rescritto munito di clausola motu proprio si considera valido nonostante la surrezione (cfr. can. 63 §1): l'indicazione esclude, quindi, che tale clausola possa di per sé produrre l'effetto derogatorio previsto dal can. 38. Essa non implica, però, che la “autorità competente” debba rivestire per forza di cose potestà legislativa: molti autori lo affermano,23 ma la collocazione sistematica del canone implica, a mio avviso, che si debba distinguere secondo la natura dell'atto amministrativo in questione. Se si tratta di una dispensa, la potestà esecutiva basta senz'altro; tuttavia, per il combinato disposto dei cann. 36 §1, 38 e 92, sia la clausola derogatoria sia lo stesso provvedimento vanno assoggettati ad interpretazione stretta, quindi, anche se non sembra strettamente necessaria la menzione nominativa del disposto legale cui si deroga, appare richiesta l'identificazione della regola sostanziale con la manifestazione inequivoca dell'intento di derogarvi a vantaggio dei privati coinvolti.24 Diverso il discorso per il privilegio, che, a prescindere dalle discussioni sulla sua natura, richiede la potestà legislativa per espressa disposizione di legge (can. 76 §1). All'infuori di questo caso, tuttavia, mi sembra che si debba concludere che, in generale, per emanare un provvedimento munito di clausola derogatoria ai sensi del can. 38 basti la potestà esecutiva: infatti, il precetto ha per scopo caratteristico e principale di urgere l'osservanza di una legge (can. 49), ma può farlo anche sotto minaccia di una sanzione penale creata ad hoc, rispetto a cui il can. 1319, pur fissando alcuni limiti, non richiede la potestà legislativa;25 il rescritto contiene sempre la concessione di una grazia (can. 59), quindi ha perlomeno un contenuto praeter legem e non di rado può risultare lesivo di posizioni giuridiche altrui. Per il decreto, che in genere si considera emanato in esecuzione di una legge (can. 58 §1), il problema non dovrebbe porsi; tuttavia, a mio parere, il can. 38 implica il riconoscimento della possibilità che, in un caso particolare, l'equità canonica imponga al titolare di potestà esecutiva di adottare una soluzione in contrasto con quella che sarebbe la semplice applicazione della legge.26 È il caso, in particolare, della lesione dei diritti acquisiti, che in sostanza consiste nell'applicazione retroattiva di nuovi requisiti legali per il loro acquisto (ad es. un obbligo di forma, di autorizzazione o di consenso a pena di nullità), con la conseguenza di invalidare un atto o una situazione pienamente legittimi secondo il principio tempus regit actum: in qualche caso, anche se il legislatore non ha previsto la retroattività (cfr. can. 9), la potestà esecutiva deve evitare storture applicative che potrebbero determinarsi.27 In altre parole, il can. 38 enuncia contemporaneamente l'esigenza generale che gli atti singolari seguano la legge e quella, altrettanto generale ed insopprimibile, che sia però possibile derogarvi per la miglior soluzione della singola fattispecie;28 ovviamente, l'esistenza astratta della potestà non ne rende sic et simpliciter legittimo l'esercizio e, come sarà necessario il contraddittorio previo almeno con il titolare del diritto acquisito (cfr. can. 50), così resterà sempre possibile il ricorso gerarchico circa la sussistenza della causa legittima e proporzionata per quella specifica deroga alla legge o lesione del diritto.

 

1La plenitudo potestatis divenne dalla fine del XII secolo l'istituto giuridico che rappresentava le più estese rivendicazioni del potere di giurisdizione del romano pontefice sulla Chiesa e sugli ordinamenti secolari. Nelle prime citazioni il termine si trova usato in correlazione con quello di pars sollicitudinis e la contrapposizione valeva ad esprimere la maggiore ampiezza e superiorità delle attribuzioni gerarchiche del papa rispetto alle competenze degli uffici vicari. Il binomio venne in seguito ripreso in senso più esteso e usato per sostenere i limiti imposti progressivamente dalla posizione suprema del romano pontefice alle competenze di tutte le autorità inferiori, non solo quelle con potestà delegata dalla Sede apostolica, ma anche quelle titolari di potestà propria. […] Peraltro, l'antitesi non valeva ancora a designare due poteri di natura eterogenea, ma solo un'estensione di diversa ampiezza del medesimo potere di governo: l'uno, quello pontificio, esteso e senza limiti; l'altro, quello episcopale, subordinato e parziale. [… Tuttavia] Il contenuto della potestà pontificia si stava […] gradualmente espandendo nella correlazione dialettica tra due ambiti complementari: quale potestas ordinaria o ordinata rappresentava il ruolo supremo occupato dal successore di Pietro nella gerarchia di governo regolata dall'ordinamento (“iudex ordinarius omnium”); quale potestas absoluta, invece, si estendeva a ricomprendere la capacità straordinaria del papa di oltrepassare i confini dello ius conditum. […] I poteri straordinari del papa erano espressi in termini di astratta potenzialità, non di concreta effettività. In un mondo ancora profondamente impregnato di tradizioni e di realismo, il sovrano ricorreva eccezionalmente a interventi innovatori, mentre nella comune attività di governo si avvaleva della potestas ordinaria e degli strumenti disciplinari dell'ordinamento.”. I. Zuanazzi, Praesis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonia della Chiesa, Napoli 2005, pagg. 105-13.

2Per la precisione, di rescritto in forma commissoria si parla ogniqualvolta si designa un esecutore, ma il termine può essere fuorviante perché include il caso del rescritto “commissorio libero”, che in realtà una delega (in genere, da parte della S. Sede all'Ordinario del luogo) a concedere la grazia se e nella misura in cui lo ritenga opportuno. Invece, se il compito dell'esecutore è circoscritto alla verifica delle condizioni, si ha il caso trattato nel testo e detto di rescritto “commissorio necessario”.

3Cfr., ex plurimis, S. Gregorio Magno, Regula pastoralis II, 6: “Perciò è necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà. Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. Infatti, come abbiamo già detto nei Libri Morali (Moralia, lib. 20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà.

4Soprattutto dopo che, con Clemente V, rimase affermato il principio per cui i Vescovi non possono dispensare da una legge del Romano Pontefice, perché essa proviene da un superiore, salvo il caso di concessione speciale: capovolgimento della regola precedente, propiziato però da un plurisecolare incremento dei casi riservati alla Sede Apostolica.

5Ordo servandus in Romana Curia – Normae peculiares, Cap. III, Art. II, n. 7°, in AAS 1 (1909) 65.

6In particolare, il can. 37 escludeva la necessità dell'accettazione del rescritto, anche quando era stato richiesto in favore di un terzo. Più complessi gli sviluppi relativi ai privilegi, notevolmente innovati dalla codificazione, ma senza che fossero ancora pienamente distinti dalle leggi generali di contenuto favorevole.

7Per la tesi favorevole militarono soprattutto Del Giudice e Giacchi, mentre in difesa della tradizionale concezione del rescritto come atto legislativo si segnalò in particolare d'Avack.

8In effetti, il rescritto di giustizia, volto a risolvere una controversia giudiziale, era divenuto talmente raro che il concetto non figura neppure nel testo del CIC 1917.

9Questione ben diversa, invece, l'ammissibilità di atti amministrativi generali, e/o di normazione secondaria: la dottrina maggioritaria riteneva che, dopo l'entrata in vigore del Codice, le Congregazioni non avessero più il potere di legiferare – almeno non contro i suoi canoni – ma di fatto le Istruzioni, che si sarebbero dovute limitare ad una funzione esplicativa o, al più, integrativa delle leggi in vigore, erano usate senza troppi problemi per vere e proprie riforme (anche in materie di sicura importanza: così, ad es., la Provida Mater nelle cause matrimoniali) e non vi era modo di contestarne la legittimità.

10«Il primo a proporre di adottare una simile classificazione fu, ancora in epoca precedente all'emanazione del Codice, M. Lega […]. La tesi venne poi sostenuta da altri: F. Cavagnis […]; B. Ojetti […]; F. Roberti […] J. Johnson […]; K. Mörsdorf […]; M. Castellano […]; C. Lefebvre […]; W. Onclin […]; A. Ottaviani […]; S.M. Ragazzini […]. In seguito quasi tutti accolsero questa tripartizione.». I. Zuanazzi, op. cit., pag. 239, nt. 16.

11Cfr. ad es. S. Romana Rota, Damnorum – Incidentalis, 30 aprile 1923, c. Parrillo, in SRRD XV (1923), pagg. 82-7: sospeso dal Vescovo per “fatti gravi” non meglio precisati, un Canonico aveva chiesto a più riprese, ma invano, alla S. Congregazione del Concilio di annullare la pena o di fargli conoscere detti fatti, ricevendo solo risposte che confermavano la piena bontà del modo di agire del Presule. Scelse allora di citare quest'ultimo in Rota, allegando la diffamazione per i conseguenti effetti pregiudizievoli; ma la Rota, oltre a dichiararsi incompetente, afferma che non si può nemmeno ipotizzare di costringere in via giudiziale la Congregazione a rivelare le informazioni in suo possesso e che il Vescovo, in proposito, è a sua volta tenuto (!) al segreto d'ufficio.

12Cfr. Synodus Episcoporum, Principia quae Codicis iuris canonici recognitionem dirigant, in Communicationes 1 (1969), pagg. 77-100; J. Canosa (cur.), I principi di revisione del Codice di diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000.

13Contra, in precedenza, A.C. Jemolo e P. Fedele, sul rilievo per cui l'ordinamento canonico avrebbe per intero carattere pubblicistico e qualunque interesse privato non sarebbe che occasionalmente protetto, in relazione alla salus animarum. Eppure, anche secondo questa prospettiva, si dovrebbe almeno parlare di un diritto ai mezzi sovrannaturali di salvezza, già previsto dal can. 682 CIC 1917.

14Cfr. S. Goyeneche, De distinctione inter res iudiciales et administrativas in iure canonico, in AA.VV., Questioni attuali di diritto canonico, Roma 1953, pagg. 419-34, spec. 432-3.

15Unica, perché le sentenze di Segnatura erano dichiarate inappellabili dal can. 1880 CIC 1917. La dottrina notava, però, come tale regola patisse eccezione nei giudizi penali affidati alla sua competenza e argomentava che l'appello si sarebbe dovuto ammettere anche nelle controversie amministrative commesse per l'esame del merito; non risulta che la tesi abbia trovato seguito, mentre si è ammessa in via giurisprudenziale l'esperibilità dei rimedi straordinari della querela nullitatis e della restitutio in integrum.

16In AAS 63 (1971) 329-330.

17In concreto, l'insindacabilità nel merito precludeva non solo lo scrutinio delle ragioni di opportunità o la sostituzione del provvedimento con un altro, ma anche le azioni conseguenti all'illegittimità, prima fra tutte quella risarcitoria, perché era ancora vigente il can. 1601 CIC 1917 con la relativa interpretazione autentica. Una commissione per l'esame del merito, inclusa la domanda di riparazione del danno, si ebbene nel caso di denunziato plagio universitario (e relative conseguenze) trattato in Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sentenza definitiva 27 ottobre 1984, c. Ratzinger, Rev. X / Congregazione per l'Educazione Cattolica, prot. 10977/79 CA, in Il Diritto Ecclesiastico 96 (1985), II, pagg. 260-70.

18Cfr. il repertorio approntato da Mons. G.P. Montini, che riporta tutti i provvedimenti editi tra il 1968 e il 2020.

19Il Codice, naturalmente, conosce anche atti preparatori o strumentali (il can. 127, ad es., è dedicato a consensi e pareri), oltre ad incombenze di notevole rilievo come la registrazione dei Sacramenti amministrati nei libri parrocchiali, che funge da prova del fatto storico, ma anche da base documentaria per un controllo sulla cura animarum (p.es. in occasione della Visita pastorale). Tali atti, però, nonostante l'indubbio rilievo giuridico e pratico, sono soggetti ai cann. 124-8 sugli atti giuridici in generale, non alla disciplina degli atti amministrativi singolari.

20Di fatto, esiste almeno un esempio di tal fatta: l'Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio – volta a risolvere una serie di dubbi relativi alla partecipazione dei fedeli laici ai tria munera – è un atto giuridico del Romano Pontefice, in virtù dell'approvazione in forma specifica. Per quanto detto nel testo, però, deve ritenersi che ciò la renda non impugnabile né sindacabile, senza tuttavia mutarne la natura di atto amministrativo, sicché le relative interpretazioni non possono essere contestate, tuttavia la legge rimane immutata.

21Il legislatore, pur consapevole dell'importanza che riveste la conoscenza di una simile prassi, nulla ha disposto al riguardo. Talvolta, decreti generali e soprattutto istruzioni riassumono in regole generali gli esiti cui è pervenuta la prassi, anche per correggere eventuali deviazioni; ma solo un'ampia conoscenza dei provvedimenti singolari può consentire all'interprete di misurarsi con la praxis Curiae come tale e, in proposito, si deve osservare che mancano, nella realtà giuridica post-conciliare, strumenti di portata analoga al Thesaurus resolutionum della vecchia S.C. del Concilio. In linea teorica, la Cost. Ap. Promulgandi di S. Pio X, istituendo gli Acta Apostolicae Sedis, dovrebbe aver reso superflua qualunque altra collezione, giacché i Dicasteri debbono pubblicarvi quegli atti, anche singolari, di cui ravvisino l'importanza generale; ma non è un caso che, in seguito, la S.C. dei Riti abbia continuato a curare ed aggiornare la propria collectio authentica, come del resto oggi la Congregazione per il Culto Divino pubblica sistematicamente i propri decreti nell'apposita rivista Notitiae. La pubblicazione in AAS, infatti, sebbene preziosa, ci dice che hic et nunc gli Officiali maggiori del tal Dicastero attribuiscono valore esemplare a quella certa decisione, ma non può dirci se essa corrisponda o meno a quella prassi consolidata, quell'auctoritas rerum perpetuo similiter iudicatarum che, sola, ha forza di legge ex can. 19. In effetti, ci si potrebbe perfino aspettare che il Dicastero pubblichi proprio le pronunce innovative, che però sono l'esatto contrario della prassi nel senso appena detto e, nella misura in cui questa assume valore di fonte suppletiva, presentano anche problemi di legittimità per il fatto stesso di discostarsene. Il problema può solo essere segnalato, perché ad oggi non si intravedono soluzioni praticabili; privati volenterosi fanno apparire singoli provvedimenti sulle riviste giuridiche (negli ultimi anni, si è distinta particolarmente in tal senso Monitor Ecclesiasticus), ma il carattere rapsodico di tali pubblicazioni non giova allo studio sistematico che sarebbe, invece, assai necessario.

22Infatti i decreti generali esecutivi debbono essere promulgati (can. 31 §2), mentre per le istruzioni si parla del potere di “pubblicarle” (edere: can. 34 §1) ad uso di quanti sono tenuti ad applicare la legge, platea troppo vasta – e oltretutto variabile nel temo – per un'intimazione orale.

23Cfr. P. Lombardía, ad can. 38, in Pontificia Università della S. Croce (cur.), Codice di Diritto Canonico e leggi complementari commentato, Roma 2020, pag. 98; V. de Paolis, Il Libro I del Codice: norme generali (cann. 1-203), in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 325; sembrano tralasciare il problema P.V. Pinto, Diritto amministrativo canonico. La Chiesa: mistero e istituzione, Bologna 2006 (che, a pag. 252 nt. 633, implica che la violazione del can. 38 implichi l'inesistenza giuridica dell'atto, ma nulla dice, salvo errore, su quale sia l'autorità competente) ed E. Labandeira, Trattato di diritto amministrativo canonico, Milano 1994; contra, invece, nel senso della sufficienza della potestà esecutiva, I. Zuanazzi, op. cit., pagg. 571-2, testo e nt. 30, e J. Miras – J. Canosa – E. Baura, Compendio di diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pagg. 212-3.

24Siccome la dispensa è definita dal Codice stesso come relaxatio legis (can. 85), il titolare di potestà esecutiva non potrebbe limitarsi a dettare una disciplina differente da quella legale e munirla di una clausola derogatoria onnicomprensiva come “Nonostante qualunque disposizione in contrario, anche dotata di forza di legge o di consuetudine”: la dispensa libera il suddito da un obbligo, non lo assoggetta ad una disciplina diversa. Quindi, l'identificazione della regola cui si intende derogare è un requisito letteralmente in-dispensabile della dispensa stessa (can. 86) e, sebbene il titolare della potestà esecutiva possa usarla per dispensare sé stesso (can. 91), non può lierarsi dal can. 38 per questa via.

25Sembra quasi superfluo aggiungere che, se il valore di garanzia della legge, la necessità di essa come unico strumento abilitato alla moderatio iurium ex can. 223 §2 (cfr. Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Nota esplicativa dell'8 dicembre 2010) e il diritto dei fedeli di non essere puniti “nisi ad normam legis” (can. 221 §3) non bastano ad impedire un simile risultato, allora a fortiori la potestà esecutiva basta per incidere negativamente su un “semplice” diritto acquisito in forme che non costituiscono una sanzione penale.

26Infine, rispetto alle licenze (can. 59 §2), deve osservarsi che esse hanno natura di atti vincolati e che all'autorità è accordato il solo potere di riscontrare l'esistenza delle condizioni richieste. Tuttavia, perfino il semplice esecutore dell'atto amministrativo ha un certo margine per rifiutare l'esecuzione, sebbene in casi eccezionali (cfr. can. 41): mentre non credo che il can. 38 possa mai rendersi necessario per il rilascio di una licenza, sarei dell'avviso di consentir la sua mancata concessione nei casi contemplati dal can. 41, estendendolo per analogia.

27Questo, peraltro, vale altresì a confermare che il can. 38 non richiede necessariamente la potestà legislativa, altrimenti sarebbe superfluo nella parte relativa ai diritti acquisiti: basterebbe il can. 9 ad imporre al legislatore un intervento espresso; il senso del can. 38 in parte qua sta proprio nel consentirlo al titolare di potestà esecutiva anche se il legislatore non ha previsto la retroattività nella nuova legge.

28In tal senso, cfr. spec. I. Zuanazzi, op. cit., pag. 573: “Il principio fondamentale di equità, che informa tutto il diritto ecclesiale, può pertanto legittimare a integrare o supplire la normativa incompleta, a mitigare, disapplicare o derogare precetti inadeguati o controproducenti, a plasmare quegli istituti e strumenti tecnici che assicurano la flessibilità del sistema nel nome di un ideale di doverosità più alto.”. Si può anche ricordare il can. 221 §2, che prevede il diritto dei fedeli ad essere giudicati “servatis iuris praescriptis, cum aequitate applicandis”: il principio viene enunciato rispetto ai “giudizi” in senso tecnico, ma gli si può agevolmente riconoscere portata generale.