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Schema di sintesi: il sistema delle fonti

del verde
Ph. Erika Pucci / del verde

Mi sembra opportuno mettere a disposizione dei lettori uno schema riassuntivo delle fonti di produzione del diritto canonico, intese sia come soggetti sia nell'aspetto oggettivo. Trattandosi di una sintesi, ovviamente vengono dati per presupposti, o riassunti in modo cursorio, i concetti che sono o saranno stati esposti nelle singole voci.

 

A) DAL PUNTO DI VISTA DEI SOGGETTI

In definitiva, l'unico autore del diritto canonico è Dio.

Il Quale tuttavia agisce in modo diretto oppure mediato.

Direttamente come Creatore: diritto naturale.

Direttamente come Redentore: diritto divino positivo e fondazione della Chiesa con le annesse potestà.

In via mediata, tramite la Chiesa: diritto canonico in senso stretto ossia legislazione umana, detta anche “legge ecclesiastica” o “meramente ecclesiastica” (cfr. can. 11).

La potestà del legislatore canonico umano è teleologicamente orientata al fine prefisso da Dio, la salvezza delle anime; la misura della sua attribuzione corrisponde all'astratta necessità; il suo concreto esercizio va sempre soggetto ad una verifica di necessità concreta e proporzionalità.

Sono legislatori umani per diritto divino:

- il Papa e il Concilio Ecumenico[1] per la Chiesa universale, intesa come totalità dei fedeli;

- i singoli Vescovi, ciascuno per i fedeli affidati alle sue cure, sia che il corrispondente riparto di giurisdizione avvenga su base territoriale, sia che avvenga su base personale o rituale.

Sono invece legislatori umani per diritto umano tutte le strutture intermedie tra Papa e singoli Vescovi, dunque, nel diritto vigente della Chiesa latina:

- a livello universale, il Sinodo dei Vescovi e la Curia Romana, se in concreto ricevono dal Papa tale potestà;[2]

- le Conferenze Episcopali nazionali, nelle materie in cui hanno ricevuto questo potere dall'autorità superiore in via generale (cfr. can. 455) o per deleghe specifiche;

- i Concili plenari, per il territorio di tutta una Conferenza Episcopale, e i Concili provinciali per una singola provincia ecclesiastica (cfr. cann. 439-46);

- soltanto per i religiosi, a norma del diritto particolare delle singole comunità, i rispettivi Superiori maggiori (cfr. cann. 590, 591 e 620) e il Capitolo generale (cfr. can. 631);[3]

- le singole comunità insieme con uno dei legislatori sopra elencati, rispetto alla formazione delle consuetudini aventi forza di legge.

Debbono infine aggiungersi le fonti suppletive, che intervengono solo in difetto di norme poste dai legislatori umani che precedono (cfr. can. 19), ma che, anche per questa loro competenza suppletiva, giocano un ruolo importante pure nell'interpretazione del diritto:

- la Curia Romana, che in linea di principio non ha, nell'attuale assetto dell'ordinamento, potestà legislativa, essendo l'insieme degli organi che in concreto applicano le leggi ecclesiastiche universali, vuoi amministrando vuoi giudicando, e all'occorrenza sindacando anche leggi o consuetudini particolari, può dar vita allo stylus et praxis Curiae Romanae, che ha esso stesso valore di legge quando interviene a colmare le lacune;

- la dottrina, in due modi diversi ossia come opinione comune e costante dei dottori, capace quindi di offrire una regola di comportamento il cui grado di sicurezza è paragonabile alla legge, oppure come sede di elaborazione dei princìpi generali applicati secondo l'equità canonica,[4] che in concreto dovrebbero costituire un caso particolare ed eminente di opinione comune e costante, ma per i quali non è escluso che possa trattarsi, a volte, di opinioni meno comuni, relativamente nuove o anche riferite soltanto a tradizioni giuridiche specifiche di un certo ambito territoriale, quello al cui interno sia maturata la controversia da risolversi; 

- infine, è discusso se la giurisprudenza abbia un ruolo distinto oppure debba essere ricondotta all'una o all'altra delle fonti che precedono. Il can. 19, parlando di iurisprudentia et praxis Curiae Romanae in luogo dell'espressione tradizionale stylus et praxis, parrebbe in verità indicare un'opzione assai chiara, ma il problema è stato riaperto dalla Cost. Ap. “Pastor Bonus”, che ha assegnato alla Rota Romana il compito specifico di provvedere all'unità della giurisprudenza, attribuzione tanto più significativa in quanto la Rota non è l'organo di vertice, anzi le sue sentenze potrebbero essere impugnate davanti alla Segnatura Apostolica proprio per violazione di legge (sebbene in concreto ciò accada molto di rado). Di qui comprensibili interrogativi sul valore specifico della giurisprudenza rotale e la sua collocazione nel sistema delle fonti. 

 

B) DAL PUNTO DI VISTA DELL'OGGETTO

B.1) Diritto divino

A rigore, il diritto naturale è stato prodotto una volta per tutte all'atto della Creazione, quindi rispetto a noi può darsi solo un problema di fonti di cognizione; trattandosi però di scoprire qualcosa che è già dato, in definitiva l'unica fonte è la ragione umana quando investiga nel campo dell'antropologia filosofica.

Tuttavia, la Divina Rivelazione ha confermato almeno i punti principali del diritto naturale, sicché in pratica vale anche per la sua cognizione quel che deve dirsi per il diritto divino positivo.

Quest'ultimo è ius positum da Dio in un periodo storico concreto, noto e ormai concluso; le sue fonti di produzione hanno cessato di operare, ma non è ancora completa la sua cognizione esplicita da parte nostra.

Ha carattere giuridico in quanto possiede un aspetto precettivo, ma in primo luogo si tratta di dottrina rivelata, quindi il canonista riceve in sostanza dal teologo le norme fondanti e inalterabili della disciplina ecclesiastica.

Le fonti di produzione del diritto divino, che oggi concretamente si studiano come fonti di cognizione ma hanno un grado di autorità diverso da quelle che neppure in astratto potrebbero crearlo, sono: 

- le Scritture canoniche, eccezion fatta per le parti dell'Antico Testamento corrispondenti all'ormai mutata Legge giudaica;

- la Tradizione, che comprende lo stesso Canone scritturistico e secondo alcuni trasmette solo l'interpretazione autentica della Scrittura (c.d. Tradizione inesiva), mentre per altri anche norme aggiuntive, rivelate da Dio mediante Cristo o gli Apostoli ma non inserite nelle Scritture canoniche (c.d. Tradizione costitutiva). In pratica si segue questa seconda opzione, per ragioni almeno prudenziali: quante volte si riscontra che un'usanza non attestata dalla Scrittura è universalmente seguita nella Chiesa fin dai tempi più antichi cui si riesca a risalire e senza che sia possibile ascriverla ad alcun legislatore umano, la si considera di Tradizione costitutiva apostolica.

Le fonti di cognizione sono:

- sempre la Scrittura, ma con l'avvertenza che la custodia del suo esatto senso spirituale è stata affidata alla Chiesa;

- la Tradizione, che qui significa soprattutto le opere dei Padri della Chiesa, il cui consenso unanime sull'interpretazione di un brano scritturistico obbliga all'assenso di Fede;

- il Magistero della Chiesa, che non sempre richiede quest'assenso, ma propone sempre almeno direttive prudenziali che mettono in guardia da scelte capaci di mettere a repentaglio il diritto divino;

- il lavoro dei teologi, se in armonia con il Magistero, soprattutto quando dia vita ad un'opinione unanime o almeno veramente comune e duratura.

Inoltre, occorre considerare che, se l'aggiunta di nuovi contenuti alla Rivelazione si è conclusa con la morte dell'ultimo Apostolo, non cesserà invece fino alla fine dei tempi il processo di scoperta di questi contenuti (sviluppo dogmatico estrinseco, caratterizzato da una serie di criteri di autenticità, il più importante dei quali è l'impossibilità di contraddire ciò che è già stato riconosciuto come dogma). Si tratta di un processo che in definitiva coincide con la vita stessa della Chiesa e quindi non corrisponde ad alcuna delle fonti fin qui elencate; può cominciare a livello popolare o di semplice predicazione, oppure come opinione teologica isolata, ma quasi mai comincia come atto magisteriale, il Magistero interviene solo in momenti successivi, spesso a più riprese e impegnando la propria autorità con forza via via crescente.

 

B.2) Diritto umano

Fonti primarie: legge ecclesiastica e consuetudine.

Per diritto divino, quando il Papa, il Concilio Ecumenico o un legislatore inferiore da loro delegato/investito intervengono in una data materia, limitano in misura corrispondente la potestà legislativa generale del Vescovo diocesano. Questo tuttavia non esclude la formazione di consuetudini particolari (diocesane o sovradiocesane) contrarie alla legge universale.

Fonti primarie suppletive: dottrina, prassi della Curia Romana, giurisprudenza (v. sopra).

Fonti secondarie, subordinate alle precedenti: atti amministrativi generali (decreti generali esecutori, istruzioni).

Fonti di diritto particolare: oltre a quelle primarie, i privilegi; inoltre le norme proprie delle diverse comunità religiose.

 

[1]    Appare difficilmente configurabile nella pratica, anche al di là delle questioni teologiche sottesa, un'azione legislativa del Collegio dei Vescovi, inteso come tutto l'Episcopato mondiale non riunito in Concilio Ecumenico: ciò può avere senso nell'esercizio del Magistero e di fatto è avvenuto con la consultazione di tutti i Vescovi che ha preceduto l'Enciclica Evangelium Vitae, ma a livello di legge ecclesiastica esistono due Codici diversi, Latino e Orientale, cui corrispondono (almeno) due diverse tradizioni giuridiche, e benché non manchino le norme comuni sembra molto più semplice ipotizzare che il Papa provveda a porle o modificarle da solo, chiedendo semmai pareri ad esperti qualificati.

[2]    Il Pontificio Consiglio per l'Interpretazione dei Testi Legislativi si è visto attribuire in pianta stabile una specifica facoltà insita nel potere legislativo, l'interpretazione autentica; a rigore, però, questo non ne fa un legislatore propriamente detto.

[3]    Non rileva in questa sede la differenza tra la vera e propria potestà di giurisdizione e la semplice potestà dominativa, che sarebbe caratteristica delle comunità religiose, perché oggi di fatto la legge assimila comunque i loro atti di governo agli atti di giurisdizione, anche per quanto riguarda il valore di legge.

[4]    La formulazione, che risale al Codice del 1917 e sostituisce i riferimenti anteriori al diritto romano e alle regulae iuris, risente tuttora della cultura giuridica dell'epoca e di un'impostazione che fa pensare che “il diritto” si formi fuori della Chiesa, anche se qui stiamo parlando proprio di una fonte canonica, e venga poi da Essa recepito in modi temperati dall'aequitas; al tempo, questi “princìpi generali” erano le costruzioni della Pandettistica, ma oggi dovrebbero essere innanzitutto quelli propri della scienza canonica, sebbene non mi senta di escludere che per questa via si possano recepire apporti di ambienti secolari, anche territorialmente circoscritti se la questione rientra nella competenza di un legislatore canonico particolare.