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Gioia e autorealizzazione dell’umano: Naess, Spinoza e Dewey

Amore e psiche, Canova 1793, Museo del Louvre Parigi
Amore e psiche, Canova 1793, Museo del Louvre Parigi

Pochi movimenti sociali descrivono meglio lo Zeitgeist della nostra epoca come quella eterogenea compagine di ideologie e gruppi d’azione che va sotto il nome di “ecologismo”. Legato a doppio filo da un lato alle scoperte scientifiche che hanno progressivamente ridefinito lo statuto dell’umano nella natura e da un altro alle rivendicazioni egualitarie tipiche di molti movimenti politici novecenteschi, l’ecologismo si caratterizza soprattutto per una sua spiccata attenzione per l’azione individuale volta al cambiamento.

Ma sarebbe ingiusto e superficiale credere l’ecologismo un semplice insieme di “buone pratiche” volte all’azione concreta. Tale azione sarebbe infatti cieca e miope se non fosse guidata ed innervata da una riflessione teorica di matrice scientifica, filosofica e talvolta religiosa.

Proprio come esistono una politica ambientalista e un attivismo ambientalista, esiste infatti anche una vera e propria filosofia ecologica, riconosciuta come disciplina a livello internazionale almeno dagli anni Settanta del Novecento.

Nata in ambito anglosassone e quindi inizialmente inserita in una riflessione di matrice analitica, tale disciplina si è progressivamente affermata come interessante ed importante crocevia di prospettive e di approcci al tema della relazione uomo/natura. Il presente articolo non sarà però affatto una panoramica di tale campo di studi, né una introduzione alle discussioni che ivi si svolgono, né tantomeno una storia degli sviluppi della filosofia ambientale.

Ciò che qui si propone è invece una riflessione sull’importanza della nozione di autorealizzazione nel pensiero di uno dei pensatori cardine della teoria ecologista, il norvegese Arne Naess.

Studioso di Spinoza e di empirismo logico, fautore di una ontologia ecologista ancor più che di una etica ecologista, promotore ed iniziatore del movimento internazionale denominato “ecologia profonda” e tra i primi filosofi a dedicare una riflessione sul tema ambientale di ampio respiro, Naess sarà in questo articolo il punto di partenza (forse potremmo dire il pretesto) per indagare la natura del rapporto tra uomo e natura e il posto che l’esperienza della gioia ha in esso.

Per fare ciò, estenderemo la nostra riflessione al pragmatismo americano, in particolare quello di John Dewey, che si rivelerà assai consonante con alcuni punti dell’ecologia di Naess. Ciò che in particolare costituirà il filo rosso della nostra trattazione sarà il tema della relazione tra uomo e natura come tutt’altro che irenica, come una relazione armonica sì ma soltanto in una maniera intrinsecamente conflittuale.

Sullo sfondo di questa nostra trattazione si situerà la dottrina spinoziana delle passioni, che ha con la riflessione naessiana un rapporto intrinsecamente consustanziale, essendone esplicitamente ispiratrice.

Il presente articolo non sarà quindi una introduzione al pensiero di Naess, nonostante vi si dedicherà una breve introduzione. Il presente articolo sarà piuttosto da intendere come una proposta volta a mostrare consonanze e parallelismi tra pragmatismo ed ecologia profonda e come esse si muovano nella direzione di una teoria naturalizzata dell’agire umano che tiene in considerazione una dose di conflittualità intrinseca nella relazione tra uomo e natura.

In questa prospettiva, l’arte, la scienza, lo sport, l’abitare e la sessualità si riveleranno mossi da un desiderio di quella che potremmo definire, con un termine di derivazione stoica, oikeosis.

Come ciò si articola in una dialettica tra conflittualità e adattamento e come ciò risulti eventualmente in un sentimento di autorealizzazione sarà il tema del presente contributo.

Come detto, ai fini della nostra trattazione sarà importante introdurre in termini molto generali il pensiero del filosofo-simbolo della riflessione ecologista, il norvegese Arne Naess.

Alpinista esperto fin da giovane, studioso di Spinoza e vicino in gioventù alle riflessioni del Circolo di Vienna, Arne Naess era noto alla comunità filosofica internazionale ben prima di diventare un autore di spicco in relazione alle tematiche ecologiste. Professore ed autore di fortunati manuali universitari, Naess si avvicina, come molti altri, alle problematiche ambientali grazie alle opere della biologa Rachel Carlson, tra le prime persone a denunciare le ricadute negative delle attività umane sul mondo naturale.

Sarà nel 1973 in particolare che l’autore presenterà un articolo destinato ad avere enorme influenza, in cui si distingue per la prima volta tra “ecologia superficiale”, volta ad azioni circostanziate ed al contenimento dei danni, ed una ecologia profonda volta a cambiare radicalmente le modalità di relazione col mondo naturale da parte della nostra specie.

Non bisogna però penare che la svolta ecologista del pensiero di Naess comporti un radicale cambio di interessi e tematiche: lo studioso norvegese continuò a portare avanti un programma di ricerca ontologico ed epistemologico, intendendo l’ecologia profonda come un movimento politico e preferendo chiamare ecosofia la sua riflessione di natura teoretica sul posto della vita umana nel più ampio mondo naturale. L’etica per Naess non è la dimensione prioritaria della riflessione ecologista, in quanto essa stessa deve basarsi su una rinnovata e più accurata rappresentazione dei modi in cui l’uomo conosce il mondo e di come esso sia fatto.

Si capisce quindi il perché delle numerose pubblicazioni in cui il filosofo norvegese avanza la proposta di una “Ontologia della Gestalt” come rimedio alle derive negative dal punto di vista epistemologico dell’espulsione operata dalla scienza galileiana di tutto ciò che non è fisicamente studiabile dal novero dell’oggettività.

Contro una visione del mondo che mira ad escludere sensazioni, sentimenti e significati dal “mondo dei fatti”, l’epistemologo Naess avanza una visione prospettivistica in cui il mondo è una serie indefinita di contenuti senza soluzione di continuità, di volta in volta identificati grazie al ricorso di strutture razionali puramente intellettuali, che ci permettono di comprendere il mondo senza essere però parte del mondo.

Prima conseguenza di tale concezione è che le leggi scientifiche non sono rivolte ad un livello di realtà più autentico, ma sono semplicemente strumenti di comprensione incredibilmente efficaci.

Seconda conseguenza della ontologia gestaltica è che le visioni del mondo in contrasto sono derivate da una diversa maniera di interpretare il fenomeno in questione: per convincere la gente della necessità di una politica ecologista non basta imbracciare “fatti” (come ricorda in tempi più recenti anche Timothy Morton) ma mostrare all’interlocutore un nuovo modo di vedere l’ambiente.

Terza conseguenza della svolta verso l’ontologia della Gestalt è che i sentimenti ed i significati soggettivi tornano ad avere rilevanza, senza dover cedere il passo alle dimensioni fisiche come peso, movimento e forma. Vedremo ora come questo ritorno dell’emozione sia fecondo di conseguenze per una teoria dell’agire umano che voglia essere davvero naturalista.

Occorre innanzitutto ricordare i termini della discussione, che ha le sue origini nella riflessione seicentesca, galileiana e non solo, sulla distinzione tra qualità primarie e secondarie. Le prime, riducibili a dimensioni misurabili come peso, movimento e forma, sarebbero oggettive e reali in assoluto, mentre le seconde sarebbero soltanto legate all’apparato percettivo dell’essere umano.

Ad esempio, l’acqua sarebbe una sostanza dotata di ben precise qualità fisiche, ma sarebbe calda o fredda solo per un animale come l’uomo.

Nella vera natura dell’acqua non ci sarebbe quindi niente a riguardo del suo essere calda o fredda, così come in un albero grottesco non ci sarebbe niente di davvero grottesco, essendo l’albero al massimo un oggetto legnoso con un certo peso ed una certa altezza. Conseguenza paradossale di questo pensiero è che ci si trova a dover spiegare come venga proiettato sul vero albero o sulla vera acqua il contenuto soggettivo. Naess non procede in tal modo e preferisce dare piena dignità alle nostre rappresentazioni “soggettive”, che altro non sarebbero che modi gestaltici di organizzare il flusso dell’esperienza. In questo senso, la piacevolezza dell’acqua o dell’albero sono risultato reale di un modo dell’albero di apparire a me in una rete di significati in cui lo ho posto.

Per capire meglio quanto detto dobbiamo però rivolgerci ad un altro pensatore, anch’egli critico della distinzione tra qualità secondarie e primarie.

Il filosofo americano John Dewey è infatti un acuto critico di tale concezione impoverita dell’esperienza.

La concezione di esperienza deweyana vuole portare a compimento la rivoluzione del pensiero avviata da Darwin, mettendo in mostra non tanto le conseguenze filosofiche del darwinismo come teoria ma piuttosto tratti della nostra esperienza che grazie al darwinismo sono stati nuovamente messi al centro dell’attenzione.

Tali tratti sono la commistione di riflessione ed azione, il carattere finalistico della nostra azione e la relazionalità dell’agire umano, sempre in rapporto con il suo ambiente.

Ma a questi tratti generali si aggiunge una dimensione dell’esperienza assai importante per la nostra trattazione, ovvero la centralità degli aspetti emotivi e del conferimento di significato nel relazionarsi col mondo. Che essi siano morali, estetici o meramente edonistici, i valori non sono calati giù da mondi sovra-esperienziali bensì presenti nella nostra esperienza del mondo. Si rivela quindi chiaro perché la distinzione tra qualità primarie e secondarie non regga: è reale ciò che si dà a noi nell’esperienza del mondo e così la sensazione di meraviglia data da un tramonto è reale (avviene spontaneamente nella relazione uomo/mondo) tanto quanto lo sono gli aspetti fisici di esso.

Il tramonto (l’acqua, l’albero, una città ecc.) sono oggetti che agiscono sulla nostra esperienza in modo pervasivo e sarebbe fittizia una “esperienza” che le ritiene mere proiezioni soggettive. Esse non dipendono da come io vedo il tramonto, bensì da come il tramonto impone a noi spettatori i suoi connotati esperienziali.

Studiare l’esperienza reale del mondo vuol dire evitare di calarla in distinzioni strumentalmente utili ma fittizie, per abbracciare la varietà delle diverse modalità di fare esperienza del mondo.

Per Dewey, dunque, anche i nostri sentimenti spontanei hanno una loro datità ed un loro ruolo parzialmente autonomo, non essendo del tutto “nostri” quanto piuttosto cose che accadono a noi mentre ci apriamo al mondo. Proprio da questa datità dell’esperienza partiremo per allargare la nostra analisi, ritornando ad Arne Naess, stavolta nella sua veste non di epistemologo analitico ma di interprete originale di Spinoza.

Fin da ragazzo il teorico dell’ecologia profonda fu profondamente influenzato dal filosofo olandese, pubblicando numerosi contributi di analisi ed interpretazione del suo pensiero.

Tale interesse non è affatto disgiunto dal successivo impegno per la questione ambientale, ma ne è quasi l’asse portante, il nucleo ispiratore di alcune importanti posizioni dell’autore. Sulle numerose connessioni tra lo spinozismo e l’ecologia l’autore si soffermò in alcuni testi di rilevo, che non saranno però qui oggetto di trattazione approfondita.

Vorremmo piuttosto qui mostrare come lo spinozismo di Naess si presenti come pars costruens (a fianco della già citata Ontologia della Gestalt) speculare alla critica serrata mossa alle distinzioni tra qualità oggettive/primarie e meramente soggettive/ secondarie.

In un testo significativamente intitolato Il posto della gioia in un mondo di fatti l’autore riprende la teoria delle emozioni di Spinoza per ridare concretezza all’esperienza della gioia nella nostra vita.

Se, come detto, la scienza moderna mira al distacco ed all’oggettività, nozioni costruite su una mal posta distinzione tra qualità primarie e secondarie, anche le emozioni devono essere ritenute per forza estrinseche all’oggetto, irrilevanti e soggettive. Ma lo spinoziano filosofo norvegese riconosce all’emozione un ruolo ben più sostanziale: anziché elemento trascurabile e secondario, esse sono modalità fondamentali di relazione con il mondo.

Esse sono anzi talvolta proprio le esperienze più immediate e reali che abbiamo, direttamente derivate dal nostro esperire il mondo. Ritenere un modello fisico costruito e studiato più reale della nostra percezione complessiva di esso nell’esperienza vuol dire confondere i nostri strumenti astratti, per quanto efficaci, con i contenuti concreti del mondo.

Ciò è fondamentale per Naess ma è anche un tema centrale nella filosofia di Dewey, che proprio verso un recupero di una esperienza indivisa e non lacerata da distinzioni astratte orienterà le sue più famose riflessioni.

I due filosofi, da prospettive diverse e per motivi diversi, giungono entrambi alla consapevolezza della ricchezza emotiva dell’esperienza e del suo carattere fondamentale.

Ma, come detto, Arne Naess si dedica in particolare ad una di queste emozioni fondamentali, la gioia. Essa è spinozianamente intesa come un aumento di potenza, un anelito al massimizzare ciò che possiamo fare nel mondo senza impedimento. La gioia si manifesta ogni volta che ci sentiamo arricchiti nella nostra relazione con il mondo: più realizzati, più forti, più consapevoli, più al sicuro, più vicini ai nostri desideri oppure in possesso di ciò che bramavamo.

Lungi dall’essere un tratto accessorio della nostra esperienza del mondo, essa è la più evidente manifestazione del nostro essere gettati, aperti ad esso. Anziché una separazione tra soggetto ed oggetto (una concezione “spettatoriale” della conoscenza, direbbe Dewey) il nostro conoscere è agire, fare, porci obiettivi e trovare mezzi per raggiungerli, desiderare, esperire, pensare e infine avere un feedback emotivo che si accompagna all’esito.

La concezione della conoscenza che prescrive il distacco emotivo dall’oggetto genera astrazioni, utili forse, ma pur sempre esperienze mutilate: il nostro rapporto con la natura è mediato soprattutto dalle nostre emozioni, che guidano l’agire.

Ne consegue una visione dinamica dell’essere umano, in cui il pensiero non è pura teoresi ma è soprattutto interazione e azione ed in cui desideri ed emozioni sono frammisti ai nostri ragionamenti in un tutt’uno olistico.

Gli sviluppi coerenti di questa nuova concezione dell’uomo e dell’esperienza si trovano in tutta l’opera di John Dewey e sono alla base anche di molto pensiero ecologista. Ma non è questa la sede per un confronto più approfondito.

Vorrei piuttosto concludere mostrando alcuni interessanti sviluppi di questa intuizione.

Innanzitutto, quanto detto si presta ad essere nucleo di una teoria molto generale dell’agire umano.

In essa trovano posto attività che danno piacere e senso di realizzazione all’essere umano, come lo sport e l’arte, ma anche la sessualità, l’amore e la scienza.

A muovere la pratica sportiva è infatti l’intimo piacere che si prova nell’affrontare attività che ci mettono alla prova, portandoci ad aumentare le nostre capacità, a superare i nostri limiti, a prendere consapevolezza della nostra esperienza.

La gioia nello sport si collega al senso di libertà fisica, a quella sensazione di un aumentato senso di potere nel mondo.

Lo stesso vale per l’arte, che ci porta a sviluppare modi per comprendere l’esperienza, farla nostra e riprodurla, riconoscendo le nostre esperienze dopo averne preso consapevolezza, rendendoci la vita più accessibile e comprensibile.

Questo senso di potere, legato al sapere, innerva il pensiero filosofico e la scienza, motivando l’uomo a cercare modalità di comprensione del mondo sempre più efficaci e profonde. Da questo punto di vista, molto generale, arte, scienza e filosofia sono accomunate alla radice.

Un discorso parzialmente diverso riguarda la sessualità: essa condivide con l’arte e lo sport elementi di autoconsapevolezza e di crescita personale, ma ci introduce ad una dimensione nuova, ovvero quella della ricerca dell’oikeosis, del sentirsi a casa nel mondo.

La sessualità e l’amore (e più in generale l’affettività) sono accomunate in questo a molte forme di spiritualità, in quanto il loro senso eccede il piacere fisico, ma comprende desideri di amore, sicurezza, protezione ed appagamento. Se la gioia deriva dall’aumento di potere nel mondo, il culmine di esso è il senso di sicurezza che danno le grandi religioni, la mistica e l’amore.

La seconda conseguenza che se ne ricava, desunta da quanto ora detto, è che l’obiettivo dell’agire umano è il superamento dell’impedimento verso il raggiungimento del potere nel mondo.

Come detto, figure di esso sono l’amore, l’estasi mistica e l’esperienza estetica, poiché in esse la gioia deriva, come ben ricordava George Santayana a proposito della bellezza, nel vedere realizzata la possibilità della nostra felicità nel mondo.

Bellezza e gioia sono intrinsecamente legate: una è l’oggetto dell’emozione, l’altra ne è il risultato.

Venendo di nuovo all’ecologia, in conclusione, non sorprende che al cuore della proposta ecologica molto spesso non ci sia solo una teoria scientifica (quella dell’ecologia come scienza naturale moderna) ma anche e soprattutto un apprezzamento estetico, un senso di unione oppure in alcuni casi un vero e proprio sentimento religioso ( come nel caso delle molte e varie forme contemporanee di religious naturalism).

La nostra vita non può prescindere dalla natura, con cui abbiamo però un rapporto conflittuale. La crisi ecologica non è né innaturale né inumana.

Essa è piuttosto la realizzazione sregolata del desiderio umano di potenza, di rendere il mondo adatto in ultima istanza al soddisfacimento dei propri bisogni.

Ecco il paradosso: lo stesso sentimento di unione con la natura che anima il fervente ecologista spinge molti a devastare l’ambiente, a riprova della natura complessa e sfaccettata della nostra relazione con il mondo naturale.

Come ben ha mostrato il darwinismo, la vita è anche lotta e desiderio di sopravvivenza (anche qui il conatus di Spinoza precorse i tempi) e l’uomo non fa eccezione: la nostra specie mira da sempre ad un aumento continuo della sua potenza, tramite la tecnica, le arti, la scienza e la filosofia.

L’animale esonerato caro a Gehlen, l’animale che ha un mondo al posto di un ambiente, per dirla con Jakob von Uexküll, è un animale che non ha quasi limiti naturali a questo suo desiderio di aumentare la propria fitness.

Si sente spesso dire che l’uomo abusa del mondo naturale perché non sta al suo posto nella natura, ma proprio il posto dell’uomo nella natura è eccentrico, senza veri eccessi perché sempre eccedente.

Gli autori qui esaminati hanno permesso di prendere consapevolezza della relazione insieme fondamentale e conflittuale della relazione uomo-natura.

Come detto, tale desiderio di potere si può esplicare sia in forme violente di sfruttamento che in forme di unione spirituale ed affettiva col mondo naturale.

Sarà compito della filosofia ambientale ed ancora di più dell’ambientalismo come movimento sociale spingere verso la realizzazione più etica e proficuo di questa nostra propensione al potere. Per farlo, occorre rimettere al centro del dibattito la nostra esperienza completa, indivisa, descritta con profondità da autori come Arne Naess e John Dewey e intuita secoli fa da Baruch Spinoza.

Arne Naess, Introduzione all’ecologia, Edizioni ETS, 2015

Arne Naess, Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, Red Edizioni, 1994

John Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2020

John Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli Editore, 2008

John Dewey, Per una filosofia risanata. Intelligenza e percezione, Armando Editore, 2009

Timothy Morton, Noi, esseri ecologici, Laterza, 2018

Luigina Mortari, Educazione ecologica, Laterza, 2020

Serenella Iovino, Filosofie dell’ambiente, Carocci, Milano, 2008

George Santayana, Il senso della bellezza, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2020                                                                          

Jakob von Uexküll, Ambienti animali ed ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti ed invisibili, Quodlibet, 2010

Donald Crosby, Jerome Stone, The Routledge Handbook of Religious Naturalism, Routledge, 2018