x

x

I Bronzi di Riace

L’Italia cola a picco, ieri come oggi
Beni culturali italiani
Beni culturali italiani

Ancora un pezzo sui beni culturali italiani, in cui ironia e desolazione accompagnano una storia tuttora attualissima. Quasi un secondo capitolo dopo la vicenda della Cupola di Brunelleschi, l’autore riflette su cose che vediamo ogni giorno, dal disfacimento del paesaggio agricolo, alla sottovalutazione della perdita di un patrimonio che avevamo soltanto il dovere di custodire (sono passati quarant’anni).

 

Viviamo una stagione culturale intensa fino alla febbre. L’Italia è ricca e anela alla bellezza. Migliaia d’italiani partecipano alle aste notturne organizzate dalle stazioni televisive. Maestri oscuri e oscurissimi senton squillare la loro ora tra stormire di telefonate.

Si tengono, in Italia, centoventimila congressi ogni anno. Fenomeno imponente, entra nel vocabolario la “congressualità” che si affianca in leggiadria alla “conflittualità” già stagionata, e precede la “convegnalità” che dovrà pur venire, dal momento che nella cifra non sono compresi i convegni, e anch’essi vorranno essere censiti.

A Venezia, davanti alla mostra di Picasso a Palazzo Grassi, ci son code che non si videro neppure per il pane nei giorni più lividi della guerra: in Campo San Samuele si snoda una coda attorcigliata come un pitone. I cataloghi si vendono come croccanti. Biglietto e catalogo, una turba assetata di cultura attende sotto pioggia e sole. Torme di scolari carichi di merende prendono d’assalto le pinacoteche ancora aperte (o semichiuse come la Sabauda di Torino, vigilata da giovinastri d’insondabili abbigliamenti e carriera amministrativa) pilotati da maestre esagitate.

Firenze irraggia sapienza e buon gusto, come sempre. Menti illuminate si battono per liberare il Cupolone da importuni affreschi manieristi, e un’azienda da sempre benemerita dell’igiene nazionale, come la Manetti e Roberts propone dolcemente, nella sua pubblicità: “Parliamo di igiene anale…”.

Le statue di Riace calamitano orde delle più incredibili estrazioni sociali. Confesso. Finora mi sono astenuto, a causa delle descrizioni che ho letto. Professori famosi hanno dovuto rinunciare, dopo lungo viaggio. Appelli alle Soprintendenze caddero nel vuoto, gli orari di visita sono fatti e disfatti al libito degli uscieri. Durante il “ponte” del primo maggio, si videro scene selvagge intorno ai bronzi ormai celebri.

Di questo furore dovremmo ritenerci paghi e così dimenticare che mentre le aste televisive popolano le nostre notti di febbrili contrattazioni pitturali e sempre più numerose partono le carovane verso gl’idoli picassiani di Venezia o quelli greci di Firenze, tutta l’artistica penisola va a pezzi, basiliche e palazzi, aree archeologiche e musei, città antiche e moderne si sbriciolano sotto ogni specie di atti vandalici e affaristici, sotto l’incuria, l’incompetenza, la viltà amministrativa.

Ruspe ed escavatori continuano ad aprire mostruose voragini nei greti dei fiumi, e dovunque ci sia da rapinare alla terra i suoi depositi di ghiaia. Colossali cementifici continuano a cuocere montagne boscose, come succede negli Euganei, dove il macello dei colli di Monselice è un assassinio paesistico che dovrebbe preoccuparci più dei massoni della loggia P.2.

Una volta, ritagliavo dei giornali e stipavo il materiale in tante cartelle che sono la via crucis della demolizione monumentale dell’Italia. Le distruzioni del dopoguerra sono ormai pari a cento volte quelle della guerra.

Non una costa, non una pineta, non una scogliera, non una valle si sono salvate. Una lettrice di Verona mi spedisce ogni settimana una busta di ritagli. Se un giorno comporrò un colonnino soltanto allineando i titoli, vi farò rabbrividire. E poi, basta viaggiare e vedere.

C’è un tipo di patrimonio che sta andando in rovina tutto insieme, ed è l’antica edilizia agricola. Fra dieci anni, non ci sarà più niente.

Sono tornato brevemente a Ravenna ed ho potuto gettare ancora una volta un occhio intorno alla tomba di Dante, luogo lurido, alcova all’aperto e pisciatoio di drogati; un’autentica vergogna nazionale in una città dove l’amministrazione municipale dissipa montagne di soldi in costosissime riviste di quell’avanguardia artistica che usava nel paleolitico della scapricciatura, quando Lucio Fontana faceva i tagli con la lametta nei fogli di carta.

Ogni nostra bruttura autentica si nasconde dietro pretenziosi simulacri accademici.

D’altronde, le nostre istituzioni musicali, orchestre, teatri, conservatori, vanno in malora nel rimbombo illusorio e bugiardissimo del cosiddetto “boom”, fenomeno misto d’isteria e d’ignoranza. Andiamo a picco come il Titanic, facendo il baccano.

Ecco la funzione delle statue di Riace. Danno l’illusione del movimento. La nazione si agita, è sana. Dal borgo ionico partono spedizioni per Firenze, per Roma, per Reggio. Le statue sono nostre, le vogliamo gestire noi. Cupidigie dormienti si svegliano e sfavillano. Fabbricate alla svelta, leggende su passate apparizioni degli Dei immersi sono patinate all’antica e inserite nelle “tradizioni” locali, che i vecchi del paese s’affrettano a ricordare. Riace si prepara alla guerra. E che non sia gente da scherzare, lo dimostrarono una decina d’anni fa, quando misero Reggio a ferro e fuoco perché volevano la capitale della Regione. Noi siamo fatti così.

Possiamo invece perdere intere province senza battere ciglio. Ma se fanno un dispetto al rione, come è successo a Siena per una certa bandiera di un certo rione messa, piuttosto che le altre, in un francobollo del Palio; o se la squadra di calcio locale perde il campionato; o se mettono le statue a Reggio invece che a Riace, noi siamo capaci di scendere nella guerra santa.

Se poi dovessi dire chi, a mio parere, ha diritto a quelle statue, non saprei cosa rispondere. Diritti di sovranità marittima, che io sapessi, li hanno gli Stati, non ancora i comuni o le regioni.

Le statue non appartennero mai ai calabresi. Furono i romani che portandole via dalla Grecia, le salvarono dalla sorte, altrimenti quasi sicura di diventare cannoni turchi. Le acque del Mediterraneo le protessero per venti secoli da tutti gli altri predoni. Chi le salverà, ora, dagl’italiani? Se stesse in me, le prenderei per benino, e tornerei a calarle nel loro mare, magari un po’ più lontano dalla costa, al sicuro d’altri recuperi.

 

Da “Il Giornale”, 22 maggio 1981