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La cupola

Brunelleschi
Brunelleschi

Negli anni Ottanta la Cupola di Brunelleschi subì un complesso restauro. Architetti, storici dell’arte e funzionari si mobilitarono perché il lavoro si rivelò da subito arduo e costoso. Ma anche il popolo degli osservatori, degli intellettuali, dei salotti colti non si tirò indietro… Ora che gli stupefacenti affreschi del Vasari e dello Zuccari sono salvi, questo pezzo fa meditare su quanto sia stato sempre in pericolo il patrimonio italiano, in tutti i sensi, in tutti i secoli, in tutti i modi: dalle scialbature ottocentesche, ai furti, alle vendite vere e proprie …

Il porto di Trieste, innumerevoli palazzi delle poste italiane, la Certosa di Trisulti, l’Isola di Gallinara: sono in vendita o già vendute.

 

Qualche mese fa, fu venduto all’asta, a Londra, l’ultimo Codice di Leonardo da Vinci che restasse sul mercato.

Ma l’Italia si trovava in lutto stretto per il terremoto, e fu spacciato come un sublime gesto ascetico, degno della gratitudine dei viventi e encomio dei posteri, astenersi dal partecipare a quella cerimonia frivola e costosa: quasi che comprare un Codice di Leonardo, da parte d’un paese che di Leonardo s’è fatto portar via tutto, fosse un lusso inutile, un colpo da nababbi sconsiderati.

L’astinenza degl’idioti fu premiata dalla beffa della sorte perché, come sovente accade, il rimbombo pubblicitario su quella vendita aveva sparso in giro tanto timore, che pochissimi andarono a fare le loro offerte, e il Codice se lo portò a casa un  il milionario americano; gli costò quanto nella renitente patria di Leonardo, costano due chilometri della più stupida autostrada.

Ora, io non so che cosa costerebbe staccare dalla cupola del Brunelleschi, a Firenze, gli affreschi del Vasari e dello Zuccari che ci stanno attaccati da quattro secoli. Certamente, molto più dei cinque miliardi che non si trovarono per il Codice di Leonardo. I soldi che non si trovano per fare il bene, in Italia, ci sono sempre quando si tratta di perpetrare qualche male: tanto è vero, che la sola preoccupazione che non è emersa, nell’incredibile polemica che furoreggia a Firenze sugli affreschi della Cupola, è quella della spesa.

A conferma dell’antico detto fiorentino, che la mamma dei fessi è sempre gravida, è venuta, proprio adesso, che l’Italia artistica o si sbriciola o si dilegua, la pretesa di buttar giù gli affreschi dei due pittori manieristi. Perché, dicono, occorre urgentemente restituire al Brunelleschi il suo spazio originale: dimenticando fra l’altro, che lui lo voleva riempito di musaici, e non del bianco intonaco che predicano questi qua. Buttarli giù o imbiancarli, per questi, non fa gran differenza. Una volta staccati, i poveri dipinti diverrebbero ingombranti telai polverosi, senza possibile dimora. S’è proposto di costruirgli una falsa cupola di tubi metallici, di metterli nei soffitti dei palazzi dello sport, di piscine, di aeroporti. O li faranno a pezzi con la sega, per farli entrare in un museo?

Un tale ha suggerito di scavare una immensa buca nei giardini di Boboli, grande come la Cupola, e sistemarci dentro i reietti dipinti, che i visitatori potrebbero così contemplare non più dal basso verso l’alto come nei tempi oscurantisti, ma dall’alto in basso, in modo veramente democratico.

Invano, dalle ultime trincee del senso comune si è ammonito che ogni “controcupola”, comunque e dovunque montata, sarebbe un orrendo falso, e che ancora più intollerabile e falso sarebbe lo spazio “originale”, intonacato magari con patine falso-antiche. Il partito degl’imbianchini è dogmatico e non tollera contraddizioni, così come erano dogmatici quei monsignori che in età di Controriforma pretesero di metter braghe e mutande alle figure che Michelangelo aveva fatto nude, nella Sistina, e ne incaricarono un poveraccio che se n’ebbe in cambio la condanna eterna al soprannome di Braghettone.

Oggi, la severità dogmatica ha lasciato le cattedre teologiche e s’è assisa su quelle d’architettura. Infatti, il capo del partito degl’imbianchini è un architetto. “Laureato in architettura, non architetto” precisa Sigfrido Bartolini, “e fa una bella differenza”.

In nome della purezza delle origini, degli spazi da riconquistare contro quello ch’essi chiamano le “superfetazioni abusive”, in nome magari di uno spirito della resistenza avanti lettera contro l’autoritarismo reazionario e granducale, un manipolo di laureati in materie assortite, dei soliti intellettuali d’assalto, si arroga il diritto di manipolare il passato, alterarlo e rifarlo a misura sua propria.

Il pretesto filologico nasconde la miseria materialistica di chi non sa accettare il discorso del passato nella sua unità, non sempre coerente, non sempre facile, non sempre armoniosa, ma tale comunque che noi non abbiamo il diritto di alterare o distruggere.

Ma no, costoro pretendono di condannare ciò che loro non piace, di ritagliare, di scartare. L’Ottocento praticava nei restauri aggiunte fantasiose e abusive, il Novecento percorre la strada opposta. Agli eccessi del restauro in mettere, si oppone il restauro in levare, che coi propositi della Cupola fiorentina raggiungono il delirio, la pazzia. E siccome ogni pazzia non s’arresta, ma procede per vorticose spirali, c’è già chi propone, tra i due partiti avversi, la soluzione “democratica” del “referendum” col quale la sorte degli affreschi del Vasari e dello Zuccari e, in definitiva, della Cupola, verrebbe fatta dipendere dagl’intrallazzi e dagli mori degli onorevoli Piccoli, Berlinguer, Craxi e compagnia. Chi può mai dire da quali manipolazioni, da quali rincorse e scavalcamenti della demagogia verrebbe fatta dipendere la sorte del malcapitato monumento?

Domani, siccome i valori della storia dell’arte cambiano, e come l’Ottocento ignorava Caravaggio e Vermeer mentre il Novecento li venera, e così via; domani, il Duemila, potrebbe scoprire che gli affreschi del Correggio (manieristi, infine, come quelli dello Zuccari e del Vasari) disturbano gli spazi celesti del Duomo di Parma, e che, magari, gli affreschi di Giotto sono “committenze abusive” che guastano il rigore di linee della Cappella degli Scrovegni, e allora evviva il bell’intonaco bianco che piace tanto a questo o quel laureato in architettura, e più gli affreschi, che si potrebbero magari cedere alla Libia, o all’Arabia Saudita in cambio del petrolio. Ammesso che, a quei tempi, il fratello Gheddafi, non si sia già comperato, a prezzi di liquidazione, Duomi, Basiliche e Cappelle, così vanificando ogni progetto di buon affare.

Da “In casa e fuori”, Il Giornale, 24 aprile 1981