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L’Italia … di sempre

Tra le rovine
L'Italia di sempre
L'Italia di sempre

L’Italia … di sempre

Tra le rovine

Il terremoto ci colse in casa di amici, a Ferrara. La gente scese per via, guardava il cielo. Ci parve elegante non dar peso alla cosa, tolta una telefonata ai ragazzi. Ritornammo al tema fisso del 20 giugno, e qualcuno ricordava l’esibizione televisiva dei radicali trasmessa poco prima, quella Faccio che parlava di orgasmi a rotazione. E intanto, appena un cento miglia più sopra, la cuspide alta del Friuli dolce e forte si schiacciava a terra, e sotto i borghi sbriciolati, le pievi millenarie, i castelli antichi e la case nuove, figlie del recente benessere, giacevano in mille nostri fratelli. Nella disgrazia avemmo il conforto di non dover maledire nequizie umane; e neppure avidità, imprevidenze, neppur l’errore. Il dolore fu più composto, la solidarietà più schietta, e seppure ci furono sciacalli che frugarono le case, ed altri che manipolarono parole e invettive, lo spettacolo complessivo fu dignitoso, e, per quel che riguarda le vittime, perfino fiero.

La rovina della nostra marca di confine, legata ad epopee non lontane resuscitò per un momento le forze sopite dei migliori istinti. Alla sfida del cielo, la terra friulana risponderà. Ecco, e vorrei persuadere il lettore che sto pesando le parole e che ho in mente tutto, i morti che non ritornano, il castello di Fratta che non vedremo più, le fabbrichette abbattute, oso dire che la rovina del Friuli, per quanto vasta, non è la più grave di questo Paese. E’ un incidente doloroso, che passerà. Ben più terrificante mi pare la distruzione strisciante dell’Italia bella; che non s’interrompe e non si arresta, non suscita i compianti collettivi e gli slanci di solidarietà; scivola di giorno in giorno, in uno stillicidio di piccole notizie, voci appena percettibili nel coro delle urgenze, gocce invisibili nell’oceano delle necessità.

Si sbriciolano i mosaici di San Marco, ed è appena una chiosa nella vasta tragedia di Venezia. Palermo e Napoli hanno superato il punto di non ritorno nella china della putrefazione che si può controllare in certe disperate metropoli del Terzo Mondo. Roma affoga nei rifiuti, i musei chiudono, rovine malamente puntellate si ricoprono d’erbacce. Quando si farà l’inventario, scopriremo che le perdite della guerra furono graffi, se le confrontiamo alle mutilazioni del dopoguerra. Della sorte di Ravenna, che segue Venezia nel pericolo di sprofondare, si preoccupa il deputato tedesco Dondenlinger, che interroga la Comunità europea.

A Pompei, è in atto la seconda distruzione. Una mostra di fotografie presenta, a Napoli, i “due volti della città dissepolta: quello di cinquant’anni fa e quello di oggi”.

Un quotidiano aggiunge la misera precisazione che “il riferimento agli anni Venti non vuole assolutamente avere toni nostalgici”. Meno male. Dov’era una statua, resta uno zoccolo smozzicato. Dov’erano la vasca di un impluvium, mensole di marmo, muri affrescati, restano un buco scuro, un prato incolto, muraglie cadenti. Quel che si poteva rubare, rubato: le statue, emigrate nelle ville dei nuovi ricchi, i mosaici sbriciolati. Tutto ciò non è un caso. La rovina delle rovine viene quando un Paese moderno perde la sua identità storica. I musei chiudono preludono a buie spelonche, ai magazzini spettrali del museo del Cairo. Lo sfasciume urbanistico di Napoli e Palermo imita le sorti di una Calcutta, di una Damasco.

Stiamo ritornando come ci vide John Ruskin, gli “ indegni custodi di tesori d’arte che non rispettano e non capiscono, senza sensibilità né intelligenza, fannulloni e tutti a zonzo”. Stiamo ritornando quelli di sempre. L’Ente del Turismo ci potrebbe fare un manifesto per gli stranieri: venite da noi, ritroverete quelli che videro Montaigne e Goethe. Vi piaceremo. Quando le erbacce avranno riconquistato definitivamente i loro diritti sui monumenti da cui furono sfrattate per neppure ottant’anni del Regno d’Italia, le nostre rovine perderanno quell’aria pettinata, sistemata e uggiosa che i forestieri conoscono a casa loro. Ritorneranno le pittoresche “rovine di rovine” del gran Settecento, che ritrassero generazioni di pittori fiamminghi e francesi, tedeschi e britanni. Perdute le imbarazzanti velleità di grande potenza, neanche a dirlo, ma perfino quelle di essere uno Stato riprendiamo quel gradevole impasto di società primitiva e comodità moderne, quella ricetta di classicità e barbarie che fu nel passato il nostro maggior pregio agli occhi forestieri.

La caduta della lira resuscita gli entusiasmi per i risibili prezzi nostrani. Jacob Burckhardt ne cava ammirato l’elenco a Karl Fresenius, nella prima lettera romana del 1846. Tanto per una buona camera, tanto per il pranzo, tanto il vino, i sigari. “Vieni, ragazzo, è il paradiso terrestre”. Come possono constatare i tedeschi d’oggi, che fanno un pranzo completo coi dieci marchi che da loro costa la prima colazione. Migliaia di americane potranno ripetere quel che annotava la delicata Elisabeth Barret Browning: pochi soldi, e ho fatto colazione da Doney, il più elegante locale di Firenze.

Da: “Il Giornale”14 maggio 1976