x

x

Rembrandt, Mago dell’Incisione: usava l’acido come un pennello

Ricordando il 350° anniversario della morte di Rembrandt (4 ottobre 1669)
Autoritratto di Rembrandt
Autoritratto di Rembrandt

Era il quinto di sei fratelli, figli di un mugnaio di Leyda e proprio lui, Rembrandt Harmenszoon van Rhijn, ebbe il privilegio di poter studiare. Sicuramente doveva aver dato prova di possedere doti particolari per assicurarsi un tal privilegio e, se non proprio sulla strada indicata dai suoi, saprà ampiamente meritare la scelta conquistando la stima dei contemporanei e quella ben più ambita dei posteri.

Una rigorosa educazione umanistica e quindi l’Università. Ma qualcosa si era intanto destato e stava prendendo campo nello spirito del giovane, tanto da fargli abbandonare gli studi convincendo ancora una volta i genitori ad ascoltare la forza della sua vocazione e affidarlo a un pittore del posto. La formazione umanistica agirà comunque su di lui, dandogli un’apertura culturale insolita, nel proprio campo, oltre al gusto per ogni opera d’arte del passato. Una scelta che lo portò a vivere, finché la sorte gli fu propizia, circondato da mobili di pregio, stoffe preziose, gioielli e reperti classici, raccolti in una casa di rappresentanza nella quale viveva come un principe del Rinascimento.

Attorno ai vent’anni, già noto e stimato, acquisì, come oggi si direbbe, una specializzazione: l’Incisione all’acquaforte. Una tecnica già nota da oltre un secolo, ma che lui seppe far propria recuperando il passato e impegnando l’avvenire.

Da Schongauer a Luca di Leida, a Dürer per non citare che i maggiori, la stampa originale ottenuta dall’incisione su metallo, aveva già dato prove superbe, ma toccò a Rembrandt di farne un puro mezzo espressivo capace di piegarsi a ogni richiesta dell’artista. Dal semplice, vivacissimo schizzo alla composizione complessa, dal solo segno che serpeggia e suscita la vita, alle tonalità infinite del chiaroscuro ottenuto con l’infittirsi dei segni, dalla magia dei bruni che creano penombre palpitanti, allo schianto dei bianchi luminosissimi.

Con l’acquaforte, e a volte il concorso del bulino e della puntasecca, Rembrandt ottiene dalla lastra di rame tutte le possibili declinazioni.

Il suo segno disegna, chiaroscura e colora: la luce che emerge per contrasto sul bianco della carta si fa materia palpabile, riconoscibile, classificabile. Nella mano dell’artista, la punta d’acciaio che graffia appena la preparazione della lastra diviene un bisturi che apre la via all’acido che gli succederà, una tenera matita che suggerisce morbidezze, o un pennello carico di colore che dà riflessi d’arcobaleno ai tanti toni di nero, di grigio, di bianco. Anche quando sono il frutto di una elaborazione lenta e insistita; quando l’autore ha cancellato, rifatto, raschiato ancora, sconvolto il soggetto, aggiunto o tolto personaggi, le sue lastre conservano il sapore di una viva immediatezza, e quando infine si presentano sul foglio mantengono l’iniziale spigliatezza, sono in grado di suscitare uno stupore che si rinnova da uno “stato” a un altro.

Con questo mezzo Rembrandt faceva addirittura il ritratto su ordinazione ai personaggi del proprio tempo; permetteva così alla nobiltà locale o alla ricca borghesia di avere il proprio ritratto in più esemplari, poterlo distribuire, espandersi in immagine. Spesso univa al ritratto dipinto la tiratura in acquaforte.

Raffaello, amico del Dürer, era stato tra i primi a servirsi dell’acquaforte ma solo come mezzo per la riproduzione dei dipinti. Faceva incidere i propri soggetti dall’esecutore Marcantonio Raimondi.

Rembrandt eleva invece a opera d’arte l’incisione, incide lui stesso, non copia ma crea ogni volta una nuova immagine e quindi provvede da solo a tutte le fasi del lavoro: dal disegno alla preparazione delle lastre, dal soggetto inciso sulla cera di preparazione, al bagno in acido e infine all’inchiostratura e al passaggio al torchio. L’artista si fa mago, alchimista che muta in arte i diversi passaggi su rame della punta e dell’acido, nel proprio studio divenuto un misterioso laboratorio.

Rembrandt comprese anche, per primo, l’importanza del “non finito”, addirittura delle zone ancora bianche, lasciate volutamente così almeno in un esemplare o due in corso di stampa. Questo permise al raccoglitore di stampe di divenire a poco a poco un amatore vizioso ed esigente che s’interessava al numero di tiratura, alla qualità della carta, delle filigrane e soprattutto degli “stati”.

Alla neonata passione per le stampe d’arte, a questo collezionismo colto il Nostro offrì la vanità di poter vantare anche l’“esemplare unico”. Così facendo l’artista poteva eludere la pretesa del pubblico e il gusto del tempo per l’opera eccessivamente rifinita o per la bravura tecnica.

Come dirà lui stesso: «Un pezzo è finito se l’artista ha ottenuto ciò che si è prefisso di raggiungere».

26 ottobre 2002

 

Incisione "Lo sgurdo" - Rembrandt