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Moses Levy: la spiaggia per palcoscenico

Il tumultuoso Novecento si è preso una vacanza e ha protetto la propria visione dietro un paravento immaginario
bagnanti
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Moses Levy (1881-1956) ci prende ancora una volta sottobraccio per farci seguire la sua vita errabonda di pittore solare consumato troppo presto dall’inquietudine del mal d’Africa. Forse il sole della costa toscana sembrò tiepido alla sua natura multietnica e, da incostante falena, finì per bruciarsi sotto quello natio di Tunisi.

Così la pittura di questo artista raffinato rimane circoscritta a un episodio estivo; una stagione assolata, fatta di ozi e di amene avventure, durata poco più di un lustro e consumata sulla spiaggia di un’ideale Versilia. Di quella Versilia che vede dilatati i propri confini da Livorno a La Spezia protetta dal costone delle Apuane. Poiché questa zona, ormai affidata al mito, ha la stessa estensione della “Repubblica di Apua”, la Terra di mezzo fondata da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che ha la capitale in un caffè e il territorio ovunque i suoi ministri si fermino a sognare.

Levy è un fuoco d’artificio che apre e chiude una stagione, la propria, acceso all’improvviso nel cielo afoso del mare toscano; un’accensione breve ma destinata a lasciare una traccia, a vincere il tempo reale nel segno dell’arte. La sua parabola di artista, quella da prendersi in considerazione, si può situare tra la metà degli anni Dieci e i primissimi anni Venti del secolo scorso, il resto è la cenere di quella felice vampata.

Un lasso di tempo troppo breve per definire un artista? Brevissimo! Ma in questo Levy non è un caso: il Novecento artistico, non solo italiano, non è stato forse tutto un brillare improvviso di stelle cadenti? Levy è il risultato originale di una serie di umori, pregnanti poesia, filtrati con intelligenza: Giovanni Fattori, Lorenzo Viani, Alberto Magri, il Futurismo; chi lo ha preceduto e chi si è ritrovato accanto, il tutto ingentilito dal suo filtro di seta che allenta la pesantezza dell’essere, che ha della realtà una visione estatica, immota anche nel balzo, sfumata in una indolente malinconia.

Dirà di sé: “Sono passato attraverso l’esperienza di una pittura che veniva dai macchiaioli, vista però in modo nuovo”. Di fatto ingrandisce la “macchia” ottocentesca, schiarisce il mare di Viani, fa scomparire tra la folla il “viandante” di Magri e risolve la velocità futurista nel moto guidato di un ventaglio da signora. Levy minimizza, smorza, alleggerisce, non dà spazio all’angoscia. Nel tumultuoso Novecento si è preso una vacanza e ha protetto la propria visione dietro un paravento immaginario.     

La sua rappresentazione del mondo, un mondo innocente, ha scelto la spiaggia per palcoscenico, con un fondale mosso da poche bave bianche: la lastra verdazzurra del mare che delimita il cielo. Anche quando finge di trovarsi altrove, per esempio “Nelpalcodiunteatro”, il dipinto del 1917, l’atmosfera resta quella di sempre, a cambiare è solo il titolo.                                                     

Su spiagge popolose eppure quiete, avvolte in una caligine afosa che stende su tutto un velo azzurrino, si accendono i bianchi candidi delle onde, delle vele e delle vesti.

Sembra che Levy abbia dipinto tutti i suoi quadri alla medesima ora di una stessa giornata. Forse fu così, la sua è stata una giornata lunga un po’ di anni, quanti gliene occorsero per iniziare e concludere il proprio ciclo pittorico. Con il cambiare di questa, che è stata la sua stagione, si dissolve.                           

Il suo gioco ha privilegiato i toni bassi, suggeriti sottovoce, ma ravvivati qua e là dal grido del cinabro puro posato su un vestito, un ombrellone, una cabina o su “Il tram n° 7”. Al rosso, Levy affida la propria sottile violenza. Con pennellate pastose, morbide e succose, ottiene una materia felpata, quella che Romeo Costetti apprende dal “monotipo”, la tecnica alla quale anche il Nostro ogni tanto si affida. I suoi quadri hanno del mosaico e del gioiello, per i quali, attento e misurato, sceglie i tasselli giusti, le pietre particolari, le forme più suggestive. Ha in mente un’oreficeria raffinatamente barbara che pensa di ritrovare sulla tela sostituendo via via alla “macchia” castoni con pietre dure di propria invenzione.

Quando dai suoi dipinti affiorano altri autori ammette le provenienze, dice di evocare ricordi e lo fa senza malizia anzi, ci tiene a presentarli lui stesso, si tratti di Chagall o di Costetti, della poesia di Magri o delle impertinenze futuriste. Attore di una sola commedia ne moltiplica gli episodi: figure sulla spiaggia, bambini sulla giostra a cavallo, il pubblico che osserva trepidante, o quello che si muove nel viale. Momenti sereni, quelli di una vacanza durata poco più di un lustro ma così satura d’impressioni da vincere il tempo.                                                                                                 

Livornese di madre, inglese di padre, tunisino di nascita e ebreo di razza, Moses Levy finirà per assumere l’identità passeggera dell’errante turista cosmopolita alla ricerca delle radici che si dimostreranno fluttuanti. Quando si troverà in balia delle sole idee, a tu per tu con il desiderio struggente di una terra che poteva avere un peso soltanto nel desiderio, il pittore che ha guardato all’800 italiano allenta la presa sul pennello. Le sue composizioni, quiete o appena vibranti che strutturavano il quadro, conosceranno il confuso, l’improvvisato, l’informe. Quella che era un’attenta tarsia di forme equilibrate, già nei primi anni Venti scade nel ricamo, nella incerta decorazione, nel vacuo merletto. Pennellate di schiuma faranno lievitare un mare inventato, paesaggi improvvisati avranno la consistenza di un miraggio.

Nel trentennio che seguirà la fioritura sulla spiaggia toscana, raramente riaffiorerà il timbro del passato, poche le tracce, rare le testimonianze di quella pittura ordinata e poeticamente avvincente, persa ormai in fantasie che alternano la banalità all’improvvisazione. D’ora in poi sembrerà di assistere al ripetersi stanco e annoiato di un canovaccio esaurito.

I soggetti africani saranno ombre da dormiveglia, colori generici al seguito di un disegno inesistente. Il pittore si spegne e questa volta senza che resti traccia.

Il tentativo di rinnovare su altre spiagge il miracolo di un tempo fallisce, l’incanto non ritorna. Crede di poter inseguire attualità che non sono le sue, pensa che basti un colore, come l’azzurro che non lo abbandona mai, ma che ora veste manichini o delinea tinozze d’acqua dalle onde provocate a bella posta.                              

Dell’intera sua opera resta quindi un solo breve periodo, ma si tratta di una manciata di brillanti, quelli che vediamo rifulgere nelle prime sale di questa mostra in lucchesia per ricordare, con dovizia di particolari il passaggio veloce di Moses Levy, cometa per pochi Re Magi in questo tempo assente o distratto.

 

(“Libero”, 30 luglio 2002)