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Il Grande Metafisico: Giorgio de Chirico

Le Jour ni l‘Heure 3951, Giorgio De Chirico, 1888-1978, l'Enigme du depart, 1914, Roma
Le Jour ni l‘Heure 3951, Giorgio De Chirico, 1888-1978, l'Enigme du depart, 1914, Roma

Più passa il tempo e si allontana da noi la figura reale del Grande Metafisico, e più diviene possibile avvicinare i suoi silenzi, i suoi colori e le sue trattenute inquietudini alle opere dei grandi antichi, per esempio a quelle di Antonello, di Bellini o di un Carpaccio.

Finita la fiera, cessati i clamori e riposte le insegne, rimane lo spazio libero e il silenzio conciliante che finisce per confondere quelle diversità che sembrarono stridenti al loro apparire al proscenio.

De Chirico è forse l’unico, tra gli innovatori del nostro secolo, che non abbia mai abbandonato la realtà, neppure nei momenti dell’avventura avanguardista. Che poi la sua risulti una realtà di sogno, trasfigurata e riproposta in una luce metafisica o mitica poco importa; non son forse questi gli eterni ingredienti, dosati in modo diverso, che hanno sempre fatto la qualità e la differenza nell’arte? Ma il senso, diciamo semplicemente la riconoscibilità delle cose, nella pittura di de Chirico non è venuta mai meno.

Tutto rimane per ciò che è: una squadra, un metro, una scatola o un solido, resi vivi e forti dall’impeto che sa imprimervi l’autore e dall’atmosfera inquietante che ne deriva.

Su de Chirico non ha fatto presa la scomposizione futurista, la fuga nell’astratto o nel näif, e neppure la magia degli oggetti sospesi nello spazio, cari ai suoi scismatici allievi surrealisti. Nei suoi quadri troviamo invece il miracolo delle cose inanimate che acquistano una vita. Non si muovono, tutto resta terribilmente fermo, perfino la silhouette della bambina che spinge il cerchio resta bloccata nel proprio simbolo, ma hanno il dono di una vita interiore, divengono oggetti pensanti.

Un cavallo dipinto da Boldini è un animale in movimento, se ne avverte la fatica; un cavallo di de Chirico è un’apparizione, le froge son dilatate ma non sbuffanti, i suoi sono i cavalli dei Dioscuri che sanno trattenere la forza e lo sforzo, in loro è la calma olimpica carica di presagi.

Una testa di gesso, di un dio o di un eroe greco, posata in un angolo del quadro o emergente da quinte del fondo, potremmo interrogarla come si interrogava un oracolo, e ne avremmo risposte sibilline mormorate nella struggente malinconia del filo di luce teso all’orizzonte.

Le torri, le stesse piazze o i manichini, sono invenzioni, ricostruzioni immaginarie sì, ma di realtà possibili.

Uno dei segreti alchemici di de Chirico consiste nel sortilegio della composizione, nella quale anche le ombre divengono oggetti creatori di atmosfere.

Giacomo Leopardi elencava le parole di particolare valore poetico, de Chirico ha scoperto oggetti evocatori di memorie, forze ancestrali, e li ripropone assiduamente. Può comporli o lasciarli abbandonati su una superficie alla quale aderiscono grazie alla compressione della loro ombra portata.

Oggetti, composizioni, atmosfere a loro volta suggeritrici di parole che verranno ripetute ossessivamente ogni volta che si torni a parlare del Grande Metafisico: aura, nulla, enigma, oracolo, tristezza, malinconia, mistero, terribile, incombente, fatalità, minaccioso, onirico, destino, presagio, e che altro ancora.

Il Grande Metafisico, Giorgio de Chirico, 1917
Il Grande Metafisico, Giorgio de Chirico, 1917

Curiosa figura, questa di de Chirico nell’arte del nostro tempo, maestro di avanguardie e custode della tradizione, battistrada dei surrealisti e spregiatore dell’arte moderna, fautore di aperture storiche, con la pittura metafisica, e intento al recupero di un barocco per proprio uso e consumo.

Anche lui indizio inquietante per una <presa di coscienza – come ha scritto Carlo Fabrizio Carli – della grande crisi della modernità>.(...)

Nutrito di cultura classica, de Chirico ne ha resa pregnante la propria pittura che ha finito per divenire un polo di attrazione, vincendo iniziali sdegni e resistenze. Oggi l’influenza nell’arte, ma anche nel teatro, nel cinema e perfino nelle canzonette, della metafisica chirichiana è un fatto scontato; il sogno ne Il posto delle fragole di Bergman, ma anche le parole di una canzonetta di Gino Paoli:<Questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti...>.

Gli stessi manichini che si atteggiano ora come i modelli dipinti e li troviamo, disinibiti fino alla strafottenza, nelle vetrine dei negozi, dove un tempo si nascondevano vergognosi sotto gli abiti fino a sparire.

Come nell’arte, anche nella vita de Chirico pareva vivere di contrasti: altero, sdegnoso, accigliato e distante nelle vesti del personaggio pubblico; cordiale, dimesso, amicone e festoso in privato e con gli amici. Pronto ad assumere il tono del cesare annoiato dovendo rispondere alle domande, quasi sempre stupide, di un intervistatore; spontaneo nel sedersi sulla pedana della "Ca’ d’Oro" a Roma, a due passi dalla sua casa, e pronto a rievocare gli amici di un tempo richiamandone i meriti alla memoria: <Soffici? Uomo di vivacissimo ingegno!>.

Osservandolo in quei momenti di quiete, colpiva l’aspetto di serenità interiore e tornavano in mente le tappe del suo lavoro, gli amici, le polemiche (quelle formative di un tempo): Maccari che saluta il rientro da Parigi dei fratelli de Chirico, scrivendo su "Il Selvaggio":

<Non quando li prende

Ma quando li rende

Parigi ci offende>.

Di lì a poco i disegni di de Chirico compariranno sul foglio maccariano; ma viene in mente un altro rientro da Parigi di de Chirico e Savinio, quello per prendere parte alla Grande Guerra, che fu il loro modo generoso e perentorio di proclamarsi italiani.

Chi lo ricorda al lavoro nel laboratorio milanese di Giorgio Upiglio, dove eseguì direttamente una serie delle sue litografie più belle, ricorda un uomo facile allo scherzo, allegro e di schietta cordialità, in special modo quando l’ombra, anch’essa inquietante, di Donna Isabella Far si allontanava. In quei momenti sembrava riaffiorare anche in lui, inaspettato, il fanciullino di pascoliana memoria e rivelava una modestia e una umiltà, queste sì inattese e impensabili, sotto la scorza posticcia del Pictor Optimus.

                                                                                                                          Febbraio 1993