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Il male italiano

La riflessione di Leopardi, “Gl’italiani non scrivono né pensano sui loro costumi”, resta, per la nostra classe politica, attualissima
Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi

Il male italiano


[Un ritratto dell’Italia di più di quarant’anni fa, dove tutto torna, con una esattezza che quasi intimorisce. Un paese, dice Buscaroli, che nessuno osa chiamare “Patria”, ora come allora]

La diatriba tra il ministro socialista che disse in un’intervista che tutto va male e bisogna fuggire all’estero, e il Capo dello Stato, suo correligionario socialista che, da Nizza, ci comunicava invece le sue grandi speranze, m’ha fatto riprendere in mano un libro che un uomo politico francese pubblicò tre anni fa. Nel saggio che fece clamore (Le Mal français, Pion Editore) il ministro Alain Peyrefitte ricercava le ragioni dell’inferiorità della Francia in campo economico, tecnico e demografico, rispetto alle grandi nazioni industriali anglosassoni.

Il paradosso, che sottolineava, di uno Stato in ogni epoca teso ad affermare la sua onnipresenza, che poi, per questo ingombrante eccesso di funzioni, diventa caotico e impotente, si trova anche da noi. Certe sue scoperte sembrano indicare più generalmente un “male latino”, tanto alcuni sintomi ricorrono tra tutti gli europei del Meridione.

Peyrefitte evita lo scoglio razziale, intorno a cui navigando più d’un secolo e mezzo fa, Giacomo Leopardi scriveva esser finito il ciclo del Mezzogiorno: “Sembra che il tempo del Settentrione sia venuto”. Ed ecco, dice Peyrefitte: da una parte, lo Stato che s’impiccia, con montagne di leggi, regolamenti e circolari, d’ogni minuzia. Dall’altro, Stati Uniti, Germania e Inghilterra, dove lo Stato, assicurati i cardini della convivenza, lascia la briglia sciolta a regioni e individui, può fidarsene, incoraggiando cooperazione spontanea e attiva, in luogo dell’oppressione uniformatrice.

Di qua, la sfiducia impigrita, avvezza a tutto attendersi dallo Stato, pur detestandolo e diffidandone, e cercando di eludere ogni pretesa, le imposte per prime. Di là, le “società della fiducia”, attrezzate, con la collaborazione spontanea e critica, per i nuovi compiti della modernità industriale.

Nei “paesi della fiducia”, la critica può spingersi fino a bruschi trapassi e terremoti elettorali. I “paesi della sfiducia” sono immobili, stagnanti, il loro voto è lento, “vischioso”, come si dice da noi. Li spazzano a tratti ondate di furore nichilista, meglio vi prospera il disordine. A un Nord di libera iniziativa e democrazia fondamentalmente sana, si contrappone un Sud perpetuamente in bilico tra miasmi anarchici e tentazioni autoritarie, con economie zoppicanti e le più basse percentuali di popolazione attiva: la Francia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, il carnevale dell’America Latina.

Ma, un momento. La Francia sta alla stessa latitudine della Germania. Non è, dunque, geografico o climatico, lo spartiacque tra efficienza e inefficienza, fiducia e sfiducia, Stato discreto e Stato impiccione. Peyrefitte lo identifica nella la Riforma, concetto non nuovo alla nostra storiografia, e famigliare agli storici dell’economia liberale.

Un giorno, Hitler disse ai suoi commensali che, comunque finisse la guerra, era certo che i germani di Germania avevano legnato i francesi, e i germani d’Inghilterra le avevano date agli Italiani. Anche se noi finimmo la guerra dalla parte dei cattivi, e i francesi, grazie alle acrobazie di De Gaulle e alla “bontà” di Roosvelt, coi vincitori, le affinità sono profonde. Con qualche differenza in peggio per noi, che non abbiamo alle spalle quei secoli di monarchia unitaria e di abitudine a vivere insieme che formano, secondo Renan, la base psichica di una nazione.

La riflessione di Leopardi, “Gl’italiani non scrivono né pensano sui loro costumi”, resta, per la nostra classe politica, attualissima. A differenza dai colleghi francesi, nessuno dei nostri capi di Stato, di governo o di partito, sembra preoccuparsi profondamente, al di là dei discorsi ufficiali ed elettorali, dell’Italia come motivo di riflessione, di indagine, di affetto. Alla nave dello Stato in pericolo, Orazio si rivolgeva come ad una persona cara. Mentre i nostri capi di governo e ministri non dedicano all’Italia una indagine, uno studio, un pensiero. Se sono docenti, scrivono trattati scolastici, dispense. Andreotti, il solo ministro con la fama di uomo “colto”, ha gl’interessi di un canonico dell’Ottocento. Un ministro socialdemocratico scrive romanzetti per coprire di immondizie la sua giovinezza fascista. E basta.

Non voglio dire che i ministri francesi scrivano e siano colti, e i nostri no. Poco m’importa di queste gare. Dico che là c’è gente che pensa, e studia, e soffre e s’interroga sulle sorti di quella che, incontestabilmente, e per tutti, è la Patria. E qua, dove nessuno adopera questo nome obsoleto, tutti parlano sciattamente di un “Paese”, che sarà laboratorio di nuove formule, arengo di chiacchiere, forziere da saccheggiare, ma a nessuno viene in mente di farne oggetto di studio di riflessione, di cura affettuosa.

Se è vero (è sempre Leopardi) che “il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci”, è vero anche che gli corrisponde la più cinica delle classi dirigenti che mai si siano viste in Europa. E ciò spiega tante cose.

Da “Il Giornale” 18 gennaio 1980