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Il prefetto D’Amato e la strage di Bologna: un teorema oltre i limiti della credibilità

Strage di Bologna
Strage di Bologna

Venerdì 1° agosto 1980. Roma. Palazzo del Viminale.

Quando quel giorno, intorno all’ora di pranzo, le telescriventi dell’Ucigos e della Polizia di Frontiera iniziarono a battere sulla carta a moduli continui del ministero dell’Interno il testo del telegramma 1095 con il quale il dirigente dell’Ufficio Sicurezza di Chiasso-Frontiera, commissario capo Emanuele Marotta, segnalava l’ingresso in Italia di un sospetto terrorista tedesco, per il prefetto Federico Umberto D’Amato poteva essere un appuntamento con il destino.

Quella clamorosa notizia poteva valere più della vincita di un super jackpot.

D’Amato, 61 anni compiuti il precedente 4 giugno, da anni dirigeva la Polizia di Frontiera italiana, per alcuni il «grande chef del Viminale», per altri «l’anima nera del ministero dell’Interno», e in quella veste – in quei giorni di inizi agosto 1980 – fu di certo fra i primi a venire a conoscenza non solo del fermo e della perquisizione di Thomas Kram al valico di frontiera di Chiasso, ma soprattutto della presenza del terrorista tedesco a Bologna il giorno dopo, quando un ordigno trasportato in una valigia farà saltare in aria la sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria.

La notizia dell’arrivo in Italia di Thomas Kram il giorno prima della strage – facendo la storia con i se e con i ma e correndo dietro a temerarie e inaudite ipotesi criminali ai limiti della credibilità – avrebbe potuto rappresentare per il prefetto D’Amato qualcosa di più di un colpo grosso alla roulette.

Il direttore della Polizia di Frontiera non solo sarebbe stato coinvolto nei preparativi del piano eversivo di Gelli fin dal 1979, ma addirittura 24 ore prima dell’attentato avrebbe avuto un clamoroso colpo di fortuna, intercettando il nome del terrorista tedesco legato al gruppo Carlos che poi si ritroverà a Bologna con singolare sincronismo rispetto all’attentato.

Carlos

Se vogliamo dare credito, infatti, al teorema che la Procura Generale di Bologna ha portato all’esame della Corte d’Assise, il prefetto D’Amato, insieme all’allora direttore del settimanale “Il Borghese”, Mario Tedeschi, sarebbe stato destinatario di ingenti somme di denaro distratte dal Banco Ambrosiano per il tramite di Licio Gelli e Umberto Ortolani e che una parte di questi fondi sarebbero serviti non solo per finanziare la cellula eversiva incaricata di compiere l’attentato, ma soprattutto per depistare le indagini attraverso una misteriosa e fantomatica campagna stampa orchestrata – secondo l’accusa – proprio sulle pagine del settimanale diretto dall’ex senatore missino, poi fondatore della corrente moderata denominata Democrazia Nazionale.

«La tesi della Procura Generale di Bologna – sottolinea Giacomo Pacini, biografo di Federico Umberto D’Amato, nel suo saggio “La spia intoccabile” (Einaudi, 2021) – vorrebbe un D’Amato che fin dal 1979 si sarebbe incaricato di dare il via all’operazione che un anno e mezzo dopo avrebbe portato alla strage del 2 agosto 1980. Il tutto attraverso la distribuzione di consistenti somme di denaro distratte dai conti del Banco Ambrosiano, finite nelle banche di Umberto Ortolani e da qui, per il tramite di Licio Gelli e dello stesso D’Amato, alle cellule eversive neofasciste responsabili della strage».

Non solo.

Come abbiamo già accennato, «parallelamente, sempre secondo l’ipotesi accusatoria – prosegue Pacini – una parte dei soldi che, stando al “Documento Bologna” giunsero a “Zaff” [secondo l’accusa nome in codice di D’Amato, perché grande appassionato di cucina e amante dello zafferano, nda], sarebbero finiti anche al direttore del “Borghese” Mario Tedeschi, a sua volta chiamato in causa per aver “coadiuvato D’Amato nella gestione mediatica dell’evento [la strage del 2 agosto 1980] preparatoria e successiva allo stesso, nonché nell’attività di depistaggio delle indagini”», addirittura prefabbricando – sempre secondo le teorie cospiratorie della Procura Generale di Bologna – la cosiddetta pista palestinese e cioè lo scenario che vede coinvolto il terrorismo palestinese e il gruppo Carlos.

Quindi, se le cose andarono esattamente come sostiene l’accusa nell’attuale dibattimento in Corte d’Assise di Bologna sui cosiddetti mandanti (tutti ovviamente morti da anni, quindi non condannabili, ma utili per celebrare un processo postumo a delle sagome di cartone di persone defunte senza alcun diritto di difesa), il direttore della Polizia di Frontiera fin dal 1° agosto 1980 aveva un asso nella manica decisivo e cioè l’informazione cruciale che avrebbe potuto essere impiegata fin dai primi giorni per collocare le indagini sulla strage immediatamente sul binario del terrorismo internazionale, proprio attraverso il nome di Thomas Kram, intercettato a Chiasso proprio da uno degli uomini di D’Amato.

Attraverso Kram, infatti, era possibile – anche grazie alle informazioni trasmesse al ministero dell’Interno dall’antiterrorismo tedesco (BKA), attraverso i canali dell’Interpol e della Criminalpol nei giorni successivi al 2 agosto 1980 – risalire al nome e al ruolo di Johannes Weinrich, braccio destro di Carlos e numero due della sua organizzazione terroristica, anche lui tedesco ricercato nella Repubblica Federale tedesca, già appartenente alle Cellule Rivoluzionarie (RZ) come Kram.

Ma c’è di più.

I vertici del Viminale e quindi anche il prefetto D’Amato erano perfettamente al corrente che – fin da gennaio 1980 – il Fronte Popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) capeggiato da George Habbash minacciava il governo italiano di possibili azioni ritorsive contro obiettivi italiani per la mancata scarcerazione di Abu Anzeh Saleh, il giordano di origini palestinesi responsabile del FPLP in Italia e residente a Bologna (in contatto segretamente con Carlos attraverso la casella postale 904 aperta presso gli uffici postali centrali bolognesi), arrestato il 14 novembre 1979 nell’ambito delle indagini sul traffico dei lanciamissili Sam 7 Strela di Ortona.

Il 15 gennaio 1980, infatti, l’Ucigos trasmetteva un appunto riservato alle Questure di Roma e Bologna in cui venivano riportate le informazioni allarmanti fornite da una «fonte solitamente attendibile da cautelare al massimo» secondo la quale George Habbash, leader del FPLP, contrariato per l’arresto e la mancata scarcerazione di Saleh, «starebbe manovrando “contatti” informali con ambienti diplomatici arabi per far pressioni sul governo italiano al fine di ottenere il rilascio del giordano. Il leader del FPLP non escluderebbe il ricatto terroristico nei confronti dell’Italia pur di far liberare il Saleh, anche perché quest’ultimo conoscerebbe le strutture clandestine del Fronte e i suoi collegamenti politici occulti».

Questa situazione di grave allarme su possibili attacchi terroristici di matrice ritorsiva da parte palestinese era proseguita per mesi, toccando il culmine tra maggio e luglio. Proprio l’11 luglio 1980 (tre settimane prima dell’attentato) sempre l’Ucigos, nella persona del suo direttore, prefetto Gaspare De Francisci, reiterava la minaccia di attentati ritorsivi palestinesi, scrivendo al direttore del Sisde, generale Giulio Grassini, per informarlo delle negative reazioni del FPLP provocate dalla condanna del suo rappresentante in Italia, Abu Anzeh Saleh.

La permanenza in carcere del giordano condannato in primo grado a sette anni di reclusione e l’imminente apertura del processo di appello, con l’ipotesi di un aggravamento delle condanne così come trapelava dall’orientamento del procuratore generale presso la Corte d’Appello de L’Aquila, Vincenzo Basile, costituiva una gravissima minaccia alla sicurezza nazionale e la minaccia – ormai molto concreta – di un possibile attentato di matrice o mandato palestinese contro il nostro Paese veniva registrata sempre più intensamente proprio a Bologna dove era attiva questa fonte protetta dell’Ucigos.

Se il prefetto D’Amato era veramente quella mente spregiudicata e «amorale», quel criminale annidato nei gangli dello Stato disposto addirittura a sacrificare la vita di decine di innocenti per oscuri e sordidi disegni eversivi (in combutta con Licio Gelli, dipinto come il capo della Spectre), come pretende di dimostrare il processo che si sta celebrando davanti alla Corte d’Assise di Bologna, allora tutto questo scenario non poteva non essere conosciuto dal direttore della nostra Polizia di Frontiera, da colui che veniva da alcuni considerato il deus ex machina del ministero dell’Interno.

E, ancora, se Federico Umberto D’Amato, nel suo inverosimile ruolo di stragista di Stato, aveva anche il compito (insieme a Mario Tedeschi) di predisporre la cosiddetta gestione mediatica dell’evento per depistare le indagini sull’attentato che avrebbe contribuito a organizzare insieme al capo della Loggia P2, dalla sua posizione privilegiata ai vertici del Viminale, deve aver certamente attinto a tutte queste informazioni per poi ostacolare l’attività dei magistrati bolognesi. Giusto?

Stando alla prospettiva accusatoria, il prefetto D’Amato non poteva non sapere che – già dal 7 agosto 1980 – la Digos di Bologna, incrociando i dati sulle presenze nelle strutture ricettive di Bologna e provincia con le informazioni d’archivio già in loro possesso, era stata in grado di scovare il nome di Thomas Kram fra coloro che avevano dormito in città la notte prima della strage e che – nel volgere di pochi giorni – il questore di Bologna, Italo Ferrante, aveva ottenuto proprio dal Viminale la conferma della pericolosità di Kram come sospetto terrorista tedesco delle RZ, in stretto collegamento con Johannes Weinrich.

E negli ambienti dell’antiterrorismo era noto (fin dal marzo del 1975) che Weinrich fosse il braccio destro del super terrorista Carlos, colui che assalterà la sede dell’Opec a Vienna il 21 dicembre del 1975 su mandato di Wadi Hahhad (alias Abu Hani), l’allora capo delle operazioni speciali del FPLP.

Quindi, dando per scontato il ruolo del prefetto D’Amato così come viene prefigurato nell’atto d’accusa della Procura Generale di Bologna, e tenuto conto delle informazioni che il direttore della Polizia di Frontiera poteva aver raccolto su Kram sui suoi contatti e sulle minacce palestinesi seguite all’arresto di Abu Anzeh Saleh, ci si aspetta che «l’anima nera del ministero dell’Interno» abbia fin dalle prime battute agevolato Gelli nel suo folle disegno eversivo, mettendo a disposizione del capo della P2 questo straordinario bagaglio informativo e fornendo al suo presunto complice Mario Tedeschi tutte le notizie in suo possesso per scatenare il grande depistaggio sulla cosiddetta pista palestinese.

E poi, anche nell’ipotesi che avesse realmente utilizzato le informazioni in suo possesso sul possibile coinvolgimento del gruppo Carlos, partendo proprio dalla presenza del terrorista tedesco sul luogo della strage, il prefetto D’Amato non avrebbe fatto altro che svelare la verità sostanziale dei fatti. E quindi, anche in quel caso, non avrebbe compiuto alcun depistaggio. Da qualsiasi angolazione lo si osservi, il presunto complotto attribuito al prefetto D’Amato non ha alcun riscontro nella realtà. Tutto ciò ha i contorni di un imbroglio molto simile a una imponente fake news.

Tedeschi, dal canto suo, come giornalista e direttore de “Il Borghese” non avrebbe esitato un minuto nel mandare in stampa un numero monografico straordinario del suo settimanale con lo scoop della presenza di un uomo di Carlos a Bologna il giorno della strage e delle gravissime minacce di attentato contro l’Italia da parte del FPLP registrate dai nostri apparati antiterrorismo del ministero dell’Interno fin dal mese di gennaio 1980.

Se il teorema bolognese ha un qualche fondamento, dobbiamo trovare la conferma a tutte queste accuse proprio sulle pagine del “Borghese” con la pubblicazione del nome di Thomas Kram il quale – lo ricordiamo – era stato fermato e perquisito a Chiasso il 1° agosto 1980 proprio da un uomo del prefetto D’Amato. Tedeschi, se l’accusa è fondata, avrebbe anche intascato somme di denaro da D’Amato per pubblicare questa clamorosa notizia.

Purtroppo per la Procura Generale e i suoi teoremi, non c’è alcuna traccia di tutto questo. Tedeschi non ha mai pubblicato nessuno scoop con il nome di Thomas Kram né altro sull’ipotesi che l’attentato del 2 agosto 1980 sia stato compiuto dagli uomini del gruppo Carlos su richiesta palestinese come ritorsione per la mancata scarcerazione di Abu Anzeh Saleh.

“Il Borghese” non ha mai messo in relazione la strage di Bologna con la vicenda dei missili di Ortona né ha mai pubblicato nulla sui ripetuti allarmi che il ministero dell’Interno (Ucigos) aveva raccolto circa le minacce di attentato da parte del FPLP. Peraltro, giova ricordarlo, queste minacce erano partite proprio dalla città di Bologna dove era operativa la fonte dietro quegli allarmi e dove era residente lo stesso Abu Anzeh Saleh.

In 25 anni, il nome di Thomas Kram è rimasto sepolto negli atti d’archivio della Questura di Bologna e della Polizia di Frontiera. Poi, durante i lavori dell’allora Commissione parlamentare d’inchiesta sul cosiddetto Dossier Mitrokhin, presieduta da Paolo Guzzanti, uno dei due autori di questo articolo – in veste di consulente dell’organismo bicamerale – ha scoperto la verità su Kram, sulla sua presenza a Bologna il giorno della strage e sui suoi reali collegamenti con il gruppo Carlos, fin dalla metà del 1979.

Era il 25 luglio 2005. Solo dopo questa data la verità dei fatti venne a galla, conosciuta e pubblicata su fonti aperte. Il prefetto D’Amato, la «spia intoccabile» era morto già da nove anni (si spense all’età di 77 anni nel letto nel suo appartamento romano di via Cimarosa ai Parioli che divideva con la sua assistente-badante Antonella Gallo, ex segretaria di redazione del settimanale “l’Espresso”, nominata sua erede universale).

Lui, «il grande chef del Viminale», l’ex capo dell’Ufficio Affari Riservati, «depositario di segreti inconfessabili, di informazioni particolarissime», in tanti anni, pur avendo potuto, non ha mai rotto il suo vincolo di riservatezza con lo Stato, non ha mai fatto trapelare nulla sull’arrivo di Thomas Kram in Italia la mattina del 1° agosto 1980 né sulla sua inspiegabile presenza a Bologna il giorno dell’attentato. Il prefetto D’Amato non ha mai passato alcuna informazione al suo presunto complice Mario Tedeschi e costui non ha mai potuto pubblicare nulla sulla cosiddetta pista palestinese.

Non un articolo. Non un trafiletto. Nulla di nulla. Seppur a conoscenza di tutte le informazioni riservate relative all’arresto di Abu Anzeh Saleh, delle minacce al governo italiano da parte del FPLP di George Habbash e, soprattutto, della presenza a Bologna del terrorista tedesco collegato al braccio destro di Carlos, il prefetto D’Amato non ha mai detto una parola. Non ha mai fatto un’allusione. Mai passato alcuna informazione per avvalorare la tesi del coinvolgimento del gruppo Carlos nell’attentato del 2 agosto 1980.

Il direttore della Polizia di Frontiera, pur conoscendo bene come fossero andate realmente le cose, non ha mai voluto utilizzare queste informazioni per organizzare alcuna campagna mediatica. Né, peraltro, ha mai fornito queste notizie al suo presunto dante causa, Licio Gelli, il quale per D’Amato era poco più che un fesso.

Peraltro, se Gelli, dipinto come capo della Spectre, voleva realmente depistare le indagini attraverso una massiccia «campagna mediatica» coadiuvato da D’Amato (come sostiene la Procura Generale di Bologna), perché avrebbe dovuto utilizzare il traballante settimanale diretto da Mario Tedeschi, in quel periodo in serie difficoltà economiche e con scarse vendite in edicola, invece di utilizzare un quotidiano potente e influente come il “Corriere della Sera”, diretto dal piduista Franco Di Bella (tessera 1887)?

Non dobbiamo dimenticare che Andrea, il padre di Angelo Rizzoli (anche lui piduista, tessera 532), acquisì il quotidiano di via Solferino nel 1974 (il cui gruppo da allora assume il nome di Rizzoli-Corriere della Sera), realizzando così il suo sogno di imprenditore nel campo dell’editoria. Acquistò il 100 per cento delle quote detenute da Gianni Agnelli, Angelo Moratti e Giulia Maria Crespi al prezzo di 50 miliardi di lire.

Ben presto, però, Andrea Rizzoli inizia a fare i conti con un enorme indebitamento: il quotidiano perde cinque miliardi di lire l’anno. Angelo subentra al padre alla presidenza del gruppo, ereditando però anche l’enorme indebitamento con le banche del “Corriere della Sera”.

Il gruppo rischiava il fallimento. Fu così che entrò in scena Licio Gelli, con la benedizione (leggi spartizione) di PSI, DC e PCI. Il 20 luglio 1977, ci fu la scalata della P2 al gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Gelli e Ortolani riuscirono nell’impresa, concludendo l’enorme manovra finanziaria che portò nelle casse depauperate del gruppo editoriale di Rizzoli oltre 25 miliardi di vecchie lire per evitare il default. L’aumento di capitale deliberato (proprio grazie alle trame di Gelli, Ortolani e Roberto Calvi del Banco Ambrosiano) fu da 5,1 a 25,5 miliardi di lire

Dopo la ricapitalizzazione dell’estate 1977, nell’autunno dello stesso anno si dimise il direttore Piero Ottone e al suo posto subentrò alla direzione del “Corriere della Sera” il piduista Franco Di Bella, padre di Antonio Di Bella, già direttore del TG3 e poi di Rai News.

Da quel momento, il quotidiano milanese fu sotto il controllo della P2. Dunque, se Gelli e Ortolani disponevano del più importante quotidiano italiano perché mai avrebbero dovuto rivolgersi al “Borghese” di Mario Tedeschi, per orchestrare la fantomatica campagna mediatica finalizzata a depistare le indagini sulla strage di Bologna?

Perché fino al 2005, né il potente “Corriere della Sera” né il modesto settimanale di Mario Tedeschi non hanno mai pubblicato il nome di Thomas Kram collegato alla strage di Bologna, pur avendo a disposizione – come immagina l’accusa – le informazioni del prefetto D’Amato?

Perché costui, nella sua veste di «spia intoccabile», di alto funzionario del ministero dell’Interno non ha mai utilizzato il suo patrimonio di informazioni e conoscenze per far trapelare il nome del terrorista tedesco collegato al gruppo Carlos, presente a Bologna il giorno della strage?

Se, come sostiene la Procura Generale, il prefetto D’Amato si è reso disponibile all’improbabile progetto stragista di Gelli e per questo avrebbe anche percepito ingenti somme di denaro anche per depistare le indagini, perché non ha mai – in nessuna occasione, in nessun modo, in nessun caso – passato queste notizie al suo presunto complice Mario Tedeschi?

Perché lo stesso Licio Gelli, in tanti anni, non ha mai fatto alcun cenno alla vicenda di Abu Anzeh Saleh, alle minacce del FPLP e alla presenza di un uomo del gruppo Carlos a Bologna il giorno dell’attentato?

Vedete, se il teorema elaborato dalla Procura Generale sulla base dell’esposto dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage, ha un qualche fondamento, si dovrebbero trovare questi riscontri, poiché è insuperabile il ruolo del prefetto D’Amato come direttore della Polizia di Frontiera italiana il giorno in cui Thomas Kram ha varcato il confine di Stato alla vigilia della strage. Invece, di tutto questo non c’è nessuna traccia. Nulla. Questo riscontro, che in un teorema così ambizioso assume le dimensioni di una prova regina, semplicemente non esiste. Tutte le congetture accusatorie si scontrano con questo semplice e devastante dato oggettivo: il prefetto D’Amato non ha mai utilizzato le informazioni di cui era in possesso per orchestrare insieme a Mario Tedeschi alcun depistaggio.

Non ci fu nessuna campagna mediatica. Non ci fu nessun tentativo di deviare le indagini utilizzando la pista palestinese. Il nome di Thomas Kram venne tenuto segreto per un quarto di secolo. Nessuno ne ha mai saputo nulla, finché non è stato ritrovato il suo fascicolo con tutti i riscontri negli archivi di polizia nel luglio del 2005. Le panzane elevate a teorema crollano, una ad una, di fronte alla totale assenza di riscontri. Il prefetto D’Amato non solo non ha depistato nulla, ma soprattutto ha mantenuto fede al suo vincolo di riservatezza con le istituzioni dello Stato. Non ha passato alcuna informazione né a Mario Tedeschi né a Licio Gelli, per il quale aveva una pessima opinione. E conoscendo il carattere sospettoso di D’Amato, come avrebbe mai potuto prestarsi a fare da complice stragista di qualcuno per il quale nutriva un malcelato disprezzo?

La conferma di questo dato catastrofico per l’inopinato teorema accusatorio è emersa proprio in dibattimento in Corte d’Assise di Bologna, durante l’udienza del 28 maggio 2021, quando è stato ascoltato, in veste di testimone d’accusa contro il defunto D’Amato, Claudio Gallo, fratello minore di Antonella Gallo deceduta nel 2009, l’assistente tuttofare del prefetto fino alla sua morte, il 1° luglio del 1996. Gallo riferisce di episodi che ha vissuto direttamente o indirettamente tra il 1989 e il 1994. Al termine della sua audizione, al teste d’accusa viene posta un’ultima domanda e cioè se avesse mai sentito fare il nome di Licio Gelli da parte del prefetto D’Amato. E Gallo risponde testualmente: «Beh, veramente una volta glielo domandammo noi che ne pensava… che ne pensasse e lui ci disse che per lui era un cretino».

In un Paese normale, un processo come questo sarebbe finito seduta stante.