Il processo sportivo alla Juventus per il “caso plusvalenze”: eliminata di fatto l’efficacia esimente dei modelli organizzativi?

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Il processo sportivo alla Juventus per il “caso plusvalenze”: eliminata di fatto l’efficacia esimente dei modelli organizzativi?

 

Introduzione

Sono state recentemente depositate le motivazioni della decisione n. 110/2023 delle Sezioni Unite della Corte Federale d’Appello, in merito alla vicenda giudiziaria[1] che ha coinvolto la società calcistica Juventus F.C. S.p.A. e ha avuto ad oggetto una serie di trasferimenti di calciatori generanti plusvalenze, posti in essere nelle stagioni sportive 2018-2019, 2019-2020 e 2020-2021. La sentenza citata ha irrogato alla Società la sanzione della penalizzazione di punti 10 in classifica, da scontarsi nella stagione sportiva 2022/2023.

Si tratta di un provvedimento complesso che, nel merito, ha trattato numerose tematiche.

Tra le diverse motivazioni addotte dalla Corte nella propria decisione, alcune riflessioni hanno riguardato anche il modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001 adottato dalla società calcistica, circostanza introdotta e sostenuta dalla difesa per poter beneficiare dell’efficacia esimente o, quanto meno, attenuante dello stesso. Tuttavia, la Corte ha rigettato il motivo riguardante il modello organizzativo, così argomentando: “Irrilevanza della questione tenuto conto che, la vicenda è emersa in tutta la sua rilevanza, non in forza del contributo fornito dagli organi di vigilanza, ma in forza dell’apporto di soggetti esterni (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, Consob e Covisoc)[2].

La pronuncia citata ha fatto seguito alla decisione del Collegio di Garanzia del CONI, il quale, dopo aver accolto i ricorsi della società calcistica, aveva rinviato la questione alla Corte Federale d’Appello per la determinazione della sanzione da applicare alla società.

Il Collegio di Garanzia[3], in parziale accoglimento dei ricorsi presentati (tra i quali spicca anche quello di Juventus F.C. S.p.A.) con rinvio per una nuova valutazione alla Corte Federale d’Appello, aveva già esaminato le argomentazioni sollevate dalla difesa concernenti il modello organizzativo (“Omessa valutazione (art. 54 CGS CONI) circa la presenza del modello di organizzazione, gestione e controllo della Società, rilevante come scriminante o almeno attenuante, ai sensi degli artt. 6 e 7, nonché insufficiente motivazione sulla asserita assenza di documenti e procedure interne volti a tracciare i criteri per la valutazione dei calciatori”).

Secondo i ricorrenti, dunque, la prima pronuncia della Corte Federale d’Appello (decisione n. 63/2023) non aveva fornito adeguata motivazione sulle ragioni che avevano portato a ritenere il modello organizzativo non idoneo ad escludere o attenuare la responsabilità della società nei fatti contestati.

Secondo l’opinione del Collegio di Garanzia, invece, la Società si sarebbe limitata ad allegare la presenza del modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001, conforme ai requisiti prescritti dall’art. 7, comma 5, dello Statuto della FIGC, senza però spiegare in concreto come tale modello sarebbe stato realmente efficace, tenendo conto, ad esempio, della struttura e delle dimensioni dell’organizzazione, della sua complessità, del suo fatturato o del numero di dipendenti.

Il Collegio, sul punto, riteneva però di non considerare il modello organizzativo come esimente esprimendo una valutazione di carattere assorbente: “Peraltro, la questione diventa irrilevante tenuto conto che sono stati soggetti esterni alla società (la Procura della Repubblica, la Consob, la CO.VI.SO.C.), e non gli organi di vigilanza interna, a far emergere la vicenda nella sua rilevanza.”

Si tratta di una valutazione ambigua e (potenzialmente) dirompente.
 

L’obbligo per le società di dimostrare in concreto l’efficacia del Modello

La graduale introduzione dei modelli organizzativi ha avuto un impatto sulle forme di responsabilità delle società calcistiche, vigenti nell’ambito della giustizia sportiva.

Nell’attuale versione dell’art. 6 del Codice di Giustizia Sportiva la responsabilità viene distinta secondo tre tipologie:

  • diretta (I comma), la società risponde direttamente dell’operato di chi la rappresenta ai sensi delle norme federali;
  • presunta (V comma), la responsabilità per i fatti compiuti da soggetti diversi da quelli precedentemente elencati e che non hanno alcun rapporto con la società viene presunta e può essere esclusa quando risulti o vi sia un ragionevole dubbio che la società non abbia partecipato all’illecito;
  • oggettiva (II, III e IV comma), la società è chiamata a rispondere anche per gli illeciti compiuti anche da soggetti “interni” o “esterni” alla propria struttura/organizzazione, a prescindere dall’elemento soggettivo.

La responsabilità oggettiva, in particolare, comporta che la società sia chiamata a rispondere a prescindere dalla colpa o dal dolo, per il solo fatto che l’illecito sia stato compiuto dai suoi dirigenti, dai tesserati, dai soci e non soci, dai dipendenti, da altre persone comunque addette a servizi della società o anche dai propri sostenitori. La responsabilità oggettiva, inoltre, opera anche nell’ipotesi in cui dall’illecito derivi uno svantaggio per la società.

Per contrastare il rigorismo del principio di responsabilità oggettiva, è stata data la possibilità alle società calcistiche - poi diventata un obbligo per poter partecipare a campionati nazionali - di adottare dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, che possano avere, in caso di contestazione, una funzione scriminante o attenuante della responsabilità.

Nello specifico, l’art. 7, comma 5, dello Statuto della FIGC prevede che i modelli adottati debbano prevedere:

  • misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività sportiva nel rispetto della legge e dell’ordinamento sportivo, nonché a rilevare tempestivamente situazioni di rischio;
  • l’adozione di un codice etico, di specifiche procedure per le fasi decisionali sia di tipo amministrativo che di tipo tecnico-sportivo, nonché di adeguati meccanismi di controllo;
  • l’adozione di un incisivo sistema disciplinare interno idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello;
  • la nomina di un organismo di garanzia, composto di persone di massima indipendenza e professionalità e dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo, incaricato di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento”.

L’idoneità e il corretto funzionamento del modello organizzativo, al fine di scriminare o attenuare la responsabilità della società, devono essere valutati dal giudice sportivo, secondo quanto previsto dall’art. 7 del Codice di Giustizia Sportiva (CGS). Tuttavia, pur non essendoci in tal senso un espresso riferimento normativo, gli organi di giustizia sportiva già da alcuni anni sostengono che sia preciso onere della società incolpata quello di dimostrare concretamente nel procedimento davanti al giudice sportivo l’efficacia del modello.

Questo orientamento è stato di recente anche confermato da una pronuncia (Decisione n. 58/2022[4]) delle Sezioni Unite della Corte Federale d’Appello, che ha chiarito quale sia il legame tra responsabilità oggettiva e modello di organizzazione, gestione e controllo e spiegato come il secondo, se concretamente funzionante ed efficace, sia in grado di comprimere la prima (“In altri termini, la mancata adozione del modello organizzativo da parte della società, qualifica la sua responsabilità quale oggettiva in senso stretto, mentre laddove viene adottato se ne verifica un suo affievolimento, demandandosi agli organi di giustizia sportiva la verifica in concreto se il modello adottato e le relative cautele prese possano costituire un’esimente o un’attenuazione della responsabilità ex art. 7 CGS. Ove tale accertamento risulti negativo, riespande anche in tal caso la responsabilità di tipo oggettivo. Si tratta di un modello di responsabilità (che ha riscontri anche nell’ordinamento civile ex artt. 2047 e 2048 c.c. al pari della responsabilità della PA per atto illegittimo) in cui si presume la sussistenza dell’elemento soggettivo fino a prova contraria fornita dalla società.

Si verifica, quindi, un’inversione dell’onere della prova, atteso che non è l’organo inquirente a dover provare la colpa della società, ma è quest’ultima, che per andare esente da responsabilità deve provare l’assenza di colpa. Se la colpa non sussiste, ma la società non riesce a fornire la prova della sua insussistenza, la responsabilità si configura comunque”)

In ambito sportivo, quindi, l’onere di provare l’adozione e l’efficace attuazione del modello organizzativo sembrerebbe impartito alle società, diversamente da quanto accade in ambito ordinario ai sensi del d.lgs. 231/01, nel quale tale onere si differenzia a seconda della qualifica soggettiva della persona fisica autrice del reato[5].

Lo stesso filone interpretativo è stato seguito anche dalla giurisprudenza successiva della Corte Federale d’Appello (Decisioni nn. 82/2022[6] e 91/2023[7] che ribadiscono come l’onere della prova sia proprio in capo alla società incolpata).

In epoca più risalente, invece, e prima che l’adozione del modello organizzativo fosse un obbligo per le società calcistiche, la Corte di Giustizia Federale[8] (allora così chiamata prima della riforma della giustizia sportiva del 2014) aveva affermato che “la mera adozione di modelli organizzativi atti a prevenire la commissione di illeciti sportivi, se come rilevato dalla Procura Federale, non vale a costituire esimente posto che, comunque, è onere della società assicurare la effettiva attuazione dei modelli stessi, non può non avere conseguenza alcuna”.

I giudici sportivi avevano sostenuto che, pur in presenza del principio di responsabilità oggettiva (necessario al fine di “assicurare il pacifico e regolare svolgimento dell’attività sportiva”), l’organo giudicante continuava ad avere il potere di graduare la pena in base al coinvolgimento della società negli illeciti commessi, ad esempio, dai tesserati, caso in cui la stessa non partecipa o risulta, addirittura, danneggiata. E infatti, la società calcistica, in quel caso, aveva beneficiato di una netta riduzione della sanzione, poiché era stata particolarmente apprezzata la sua diligenza, anche in mancanza di un obbligo in tal senso, nell’adoperarsi per adottare un modello di organizzazione, gestione e controllo, un Codice Etico, un Codice antifrode e per conseguire la certificazione di qualità 9001:2008 come prima società calcistica in Italia.

Svolte tali considerazioni, ad avviso di chi scrive, vista la rilevanza delle pronunce (adottate a sezioni unite) le corti sportive avrebbero forse potuto esprimere qualche considerazione in più su cosa significhi effettivamente dimostrare che il modello sia “idoneo in concreto a prevenire i comportamenti quali quelli verificatisi e contestati”.

Diverse considerazioni sono state fatte in ambito ordinario sulle caratteristiche che il modello deve possedere al fine di avere efficacia esimente. La Cassazione, con la sentenza n. 23401/2021 (nota anche come sentenza Impregilo), ha elaborato una vera e propria guida sull’attività di accertamento che il giudice è chiamato a compiere sul modello organizzativo. In particolare, precisa anzitutto che l’art. 6 del d.lgs. 231/01 non abbia in alcun modo invertito l’onere della prova e che spetti all’accusa dimostrare la colpa di organizzazione in cui è incorso l’ente e che la commissione del reato non può essere un elemento sufficiente a dimostrare la sua responsabilità. Inoltre, la Cassazione suggerisce che, per la valutazione in concreto del modello, il giudice debba condurre un giudizio di prognosi postuma, ovvero “collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato adottato il modello “virtuoso”.

Nel caso di specie, peraltro, va rilevato come l’impianto accusatorio avvallato dalle sentenze sembra avere ricercato le proprie fondamenta su condotte molto diverse tra loro, senza però mettere eccessivamente a fuoco quale di esse sia stata decisiva nel determinare la responsabilità della società. Ad avviso di chi scrive, infatti, il combinato disposto delle varie sentenze sportive ha reso piuttosto arduo e problematico per la difesa individuare quali sarebbero stati i comportamenti che le procedure del modello avrebbero dovuto “in concreto” prevenire (la scorretta valutazione in concreto dei calciatori oggetto di trasferimento? L’applicazione dei principi contabili IAS nelle permute? La violazione della clausola di chiusura della “lealtà sportiva”, sulla base delle intercettazioni telefoniche acquisite, asseritamente indicative della volontà di realizzare le plusvalenze come finalità principale delle operazioni?).

 

Obbligo di denuncia dell’Organismo di Vigilanza?

Il Collegio di Garanzia e la Corte Federale d’Appello, oltre ad esprimere alcune generali argomentazioni sulla mancata dimostrazione da parte della difesa dell’efficacia preventiva “in concreto” del modello, hanno comunque considerato in ogni caso inefficace il modello organizzativo, poiché sarebbero stati “soggetti esterni alla società (la Procura della Repubblica, la Consob, la CO.VI.SO.C.), e non gli organi di vigilanza interna, a far emergere la vicenda nella sua rilevanza”.

Tale passaggio, presentato dalla narrativa del provvedimento come di carattere decisivo, avrebbe forse meritato maggiore argomentazione, vista la sua diretta incidenza sulla possibilità per le società di beneficiare dell’esimente rappresentata dal modello.

La formulazione utilizzata dalle corti sportive si presta peraltro ad una duplice interpretazione.

La prima interpretazione, suggerita direttamente dalla formulazione letterale del passaggio, lascia intendere che sussista, in capo all’Organismo di Vigilanza, un dovere di segnalazione o denuncia (ad esempio, all’Autorità Giudiziaria o ad altre Autorità deputate al controllo) di eventuali illeciti commessi dalla società.

Dalla lettura delle norme che disciplinano l’Organismo di Vigilanza, però, non risulta nulla di simile.

L’art. 6 del d.lgs. 231/200 indica i requisiti necessari affinché l’ente non sia chiamato a rispondere dei fatti commessi da un soggetto apicale: tra gli altri elementi, è richiesto – alla lettera b) – che il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli, di curare il loro aggiornamento sia affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo e che – alla lettera d) – non vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di vigilanza.

Lo Statuto della FIGC, all’art. 7, comma 5, parimenti indica le caratteristiche che devono avere i modelli organizzativi di cui le società possono dotarsi e alla lettera d) prevede: “la nomina di un organismo di garanzia, composto di persone di massima indipendenza e professionalità e dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo, incaricato di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento”.

Entrambe le norme citate richiamano i poteri di iniziativa e controllo e il ruolo di vigilanza rispetto al funzionamento e all’osservanza del modello, mentre non fanno in alcun modo riferimento ad un dovere di denuncia o segnalazione.

Di conseguenza, nel caso di illeciti o violazioni rilevati dall’Organismo di Vigilanza, quest’ultimo dovrà informare prontamente l’organo societario competente (es: il CdA, l’Assemblea, l’Organo di Controllo), il quale dovrà, a sua volta, prendere i provvedimenti necessari in base al caso specifico (ad esempio, denunciare irrogare le sanzioni previste dal sistema disciplinare del modello).

Secondo quanto previsto dalle discipline esaminate, all’Organismo di Vigilanza non risultano conferiti né poteri di impedire la commissione degli illeciti, né poteri sostitutivi di quelli invece affidati agli organi societari, né obblighi di denuncia.

Anche il Garante per la Protezione dei Dati personali che, esprimendosi nel 2020 con un parere sulla qualificazione soggettiva ai sensi della normativa privacy degli Organismi di Vigilanza ex d.lgs. 231/2001, ha affermato con una sintesi efficace che l’OdV “non è dotato di alcun potere impeditivo nei confronti degli eventuali autori del reato, così che, anche in caso di inerzia dell’OdV, la responsabilità ricade sull’ente che non potrà avvalersi della scriminante prevista dall’art. 6, comma 1, d.lgs. 231/2001. [omissis] Similmente, l’OdV non ha l’obbligo di denuncia all’Autorità giudiziaria in relazione agli illeciti di cui viene a conoscenza a causa e nell’esercizio delle sue funzioni (obbligo che grava invece sull’ente all’uopo informato dall’OdV) né è l’organismo investito di poteri disciplinari nei confronti degli autori degli illeciti, poteri che rimangono in capo all’ente ai cui vertici aziendali l’OdV è tenuto a segnalare le violazioni accertate, proponendo, al contempo, l’adozione delle necessarie sanzioni.” 

E dunque, a rendere inefficace il modello potrà essere l’omessa vigilanza da parte dell’Organismo di Vigilanza, ma non il fatto che quest’ultimo non abbia denunciato o segnalato alle autorità preposte gli illeciti di cui è venuto a conoscenza nello svolgimento del suo incarico.

Se la prima interpretazione venisse seguita in futuro dalle corti sportive, i modelli organizzativi sarebbero sostanzialmente condannati a perdere la loro efficacia, in assenza di una denuncia da parte dell’organismo di vigilanza. Tale interpretazione, svuoterebbe quindi – di fatto – l’efficacia esimente dei modelli organizzativi, relegati a mero onere burocratico, rispandendo l’applicabilità del principio di responsabilità oggettiva (che diverrebbe di applicazione pressoché automatica). Viepiù, il principio caricherebbe l’organismo di vigilanza interno di doveri che potrebbero snaturarne i compiti: da soggetto indipendente e autonomo chiamato a verificare internamente il rispetto dei protocolli e delle procedure che la società ha volontariamente adottato in ottica di diligenza organizzativa, l’organismo riceverebbe l’onere di portare a conoscenza le varie autorità di eventuali illeciti. Diventerebbe, pertanto, una sorta di garante della legalità interna, pur avendo solamente “poteri di iniziativa e controllo” (art. 7, comma 5, Statuto FIGC) e non poteri ispettivi o di indagine.

Secondo una seconda possibile interpretazione, meno evidente dal tenore letterale, il passaggio formulato dalle corti sportive potrebbe essere ritenuto invece una censura in merito al mancato operato dell’organismo interno dal punto di vista del corretto esercizio del potere di vigilanza. Si tratta di considerazioni spesso formulate dalla giurisprudenza in materia di responsabilità da reato degli enti ex d.lgs. 231/01. Proprio in questo senso si era orientato il Tribunale di Milano con la sentenza n. 10748/2021, la quale aveva evidenziato come l’ODV avesse appunto mancato di compiere gli “accertamenti funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati”, assistendo “inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato. Così, purtroppo, non è stato e non resta che rilevare l’omessa (o almeno insufficiente) vigilanza da parte dell’organismo, che fonda la colpa di organizzazione di cui all’art. 6 del Decreto 231”.

Infatti, la colpa in organizzazione dell’ente, che giustifica la sanzione ai sensi del d.lgs. 231/2001, può essere determinata anche dall’omessa vigilanza dell’Organo a ciò deputato.

Anche la sentenza Impregilo si era soffermata sulla questione: secondo la Corte l’omessa vigilanza dell’organismo a ciò deputato si può certamente ricondurre alla colpa di organizzazione dell’ente quando vi sia un nesso causale rispetto all’evento, ovvero alla commissione del reato presupposto. Tuttavia, il controllo dell’Organismo di Vigilanza deve concentrarsi sulle regole cautelari e sulle procedure predisposte nel modello, senza arrivare a svolgere una verifica preventiva sugli atti degli organi societari che altrimenti equivarrebbe all’esercizio di un potere gestorio di fatto non attribuito a tale Organo[9].

Appare però opportuno evidenziare che la decisione della Corte Federale d’Appello relativa alla vicenda Juventus non fa mai riferimento ad un’ipotesi di omessa vigilanza rispetto all’operato della società calcistica, ma si limita a “rimproverare” l’Organismo di Vigilanza per non aver fatto emergere i fatti dibattuti nel procedimento, che sarebbero venuti a galla solo successivamente e per intervento di soggetti esterni. Anche seguendo tale interpretazione, peraltro, le considerazioni delle corti sportive avrebbero probabilmente meritato maggiori argomentazioni. Ci si chiede, in primo luogo, quali carenze potrebbero essere rimproverate all’Organismo in un caso, come quello in esame, in cui l’impianto accusatorio è principalmente fondato su intercettazioni telefoniche, non avendo l’ODV poteri di indagine in alcun modo paragonabili a quelli della polizia giudiziaria. In secondo luogo, potrebbe crearsi un automatismo piuttosto discutibile: a prescindere dalle iniziative e dai controlli posti in essere dell’organismo, la responsabilità della società sussiste in tutti i casi in cui l’illecito non viene rilevato da questo (ma da soggetti esterni). Tale postulato appare decisamente criticabile, poiché caricherebbe l’organismo di vigilanza di una sorta di obbligo di risultato.

Non resta che attendere gli sviluppi e le future interpretazioni delle corti sportive, per capire se e come le strettissime maglie interpretative poste dal Collegio di Garanzia del CONI e della Corte Federale d’Appello (entrambe pronunciatesi a sezioni unite) consentiranno ancora di beneficiare in futuro dell’esimente prevista per le società calcistiche e costituita dai modelli organizzativi.

 

[1] Nel mese di aprile 2022 la Procura Federale aveva contestato per la prima volta alla Juventus F.C. S.p.A. di aver concluso delle operazioni di mercato “contraddistinte da una sistematica sopravvalutazione del corrispettivo di cessione dei diritti alle prestazioni dei calciatori coinvolti nei trasferimenti nonché dalla altrettanto sistematica sostanziale corrispondenza tra i valori attribuiti dalle società ai diritti scambiati”. Con la decisione n. 128/2022 il Tribunale Federale Nazionale proscioglieva la società dalle accuse a la decisione veniva confermata anche dalla Corte Federale d’Appello con decisione n.89/2022, dopo il reclamo presentata dalla Procura Federale.

Alcuni mesi dopo la Procura Federale proponeva ricorso per revocazione sulla decisione della Corte Federale d’Appello sostenendo di aver ricevuto della documentazione dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino concernente gli illeciti che la società avrebbe commesso. La Corte Federale d’Appello accoglieva il ricorso per revocazione con la decisione n. 63/2023, impugnata poi davanti al Collegio di Garanzia del CONI.

[2] Decisione n. 110/2023, Corte Federale d’Appello, Sezioni Unite.

[3] Decisione n. 40/2023, Collegio di Garanzia del CONI, Sezioni Unite.

[4] In questo procedimento, la Corte Federale d’Appello aveva affrontato il caso relativo ad un tesserato della Società Futsal Polistena, ritenuto responsabile di aver dichiarato falsamente di non essere mai stato tesserato per una Federazione estera. Anche la società calcistica era stata chiamata a rispondere per l’operato del proprio tesserato.

[5] Il d.lgs. 231/01 distingue l’ipotesi in cui il reato presupposto sia stato commesso da un soggetto apicale da quella in cui, invece, il reato venga posto in essere da un soggetto sottoposto, richiedendo alla società un onere probatorio più gravoso nel primo caso. Infatti, nel primo caso, proprio in virtù della posizione di vertice del soggetto che commette il reato, l’ente è chiamato a dimostrare, oltre all’adozione e concreta attuazione del modello organizzativo, anche l’elusione fraudolenta dello stesso da parte dell’apicale. Nel caso del sottoposto, invece, l’ente sarà responsabile quando la commissione del reato sia stata resa possibile dalla mancata direzione e vigilanza sul sottoposto, mancanza che può essere arginata proprio dall’adozione e dalla concreta attuazione del modello organizzativo.

[6]L’art. 6, commi da 2 a 4 del CGS in vigore, applicabile (comma 2) al caso di specie, configura quindi un sistema basato su una forma di attribuzione della responsabilità meno rigida, ancorata alla c.d. “colpa organizzativa”. È quindi compito del giudice sportivo verificare se vi sia stata un’incapacità della società nel prevenire l’illecito che si è verificato, per cui l’accertamento circa un eventuale deficit organizzativo rispetto ad un “modello di diligenza esigibile” configurerà quella rimproverabilità posta a fondamento della fattispecie sanzionatoria. A differenza di quanto sostenuto dalla reclamante, è la mancata adozione del modello organizzativo da parte della società che qualifica la sua responsabilità quale oggettiva in senso stretto, mentre laddove viene adottato se ne verifica un suo affievolimento, demandandosi agli organi di giustizia sportiva la verifica in concreto se il modello adottato e le relative cautele prese possano costituire un esimente o un’attenuazione della responsabilità ex art. 7 CGS. Ove tale accertamento risulti negativo, riespande anche in tal caso la responsabilità di tipo oggettivo.” Corte Federale d’Appello, III sezione, decisione n. 82/2022

[7] "Orbene, non vale per la Olimpus invocare l'art. 7 CGS (in relazione all'art. 7, comma 5, Statuto FIGC) ed il codice etico adottato dalla stessa: condivisibili sono le argomentazioni svolte in proposito dal giudice di prime cure allorché ha rilevato, contrariamente alla tesi difensiva, come il codice della Olimpus non fosse 'certamente' a conoscenza dei tesserati (se ne parlò genericamente ad una riunione, per come precisato dal Fonseca) e rimanesse affidato al controllo di persone peraltro non indicate, per venire poi 'corretto' solo dopo i fatti. La norma citata stabilisce invero – come sopra detto - che "Al fine di escludere o attenuare la responsabilità della società di cui all'art. 6, così come anche prevista e richiamata nel Codice, il giudice valuta la adozione, l'idoneità, l'efficacia e l'effettivo funzionamento del modello di organizzazione, gestione e controllo di cui all'art. 7, comma 5 dello Statuto". Ma proprio efficacia ed effettivo funzionamento del suddetto codice etico non sono ravvisabili nel caso di specie, non avendo la Olimpus fornito la prova che il modello adottato sia stato attuato 'efficacemente' prima del fatto.” Corte Federale d’Appello, Sezioni Unite, decisione n. 91/2023

[8] Decisione n. 29/2012 della Corte di Giustizia Federale, Sezioni Unite.

[9] Cassazione penale, sez. VI, sentenza n. 23401/2021: “Un modello organizzativo che rendesse obbligatorio un preventivo controllo di qualsiasi atto del presidente o dell’amministratore delegato di una società, senza distinzione di contenuti e/o di rilevanza, sarebbe difficilmente conciliabile con il potere di rappresentanza, d’indirizzo e di gestione dell’ente, che la legge riconosce a quegli organi. Diversamente, l’organismo di vigilanza finirebbe per trasformarsi in una specie di supervisore dell’attività degli organi direttivi e d’indirizzo della società, inserendosi, di fatto, nella gestione di quest’ultima ma, in tal modo, esorbitando dal compito affidatogli dall’art. 6, lett b), d.lgs. 231/01, che è solamente quello di individuare e segnalare le criticità del modello e della sua attuazione, senza alcuna responsabilità di gestione.”