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Il “Regionalismo Differenziato”

un nuovo spunto per l’istituzione di un Senato delle regioni
Parlamento italiano
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Abstract

L'articolo 116, comma 3, della Costituzione prevede che la legge ordinaria possa attribuire alle regioni "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" sulla base di un'intesa fra lo Stato e la regione interessata. La disposizione sino ad oggi non ha trovato piena attuazione nonostante sia stata introdotta nell'ambito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Nella parte conclusiva della XVII legislatura si sono registrate le iniziative di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto e l'avvio di un negoziato con il Governo che ha condotto alla sottoscrizione, per il momento, di tre distinti accordi "preliminari" o “pre-intese” (si intende rispetto alle intese che eventualmente potranno essere sottoscritte in un secondo momento). Ciascun accordo, sottoscritto dal rappresentante del Governo[1] e dal Presidente della Regione interessata, intende dare rilievo al percorso intrapreso e alla condivisione raggiunta riguardo ai principi generali, alla metodologia e a un (primo) elenco di materie in vista della definizione dell'intesa per l'attribuzione di autonomia differenziata. Dopo aver tracciato le possibili ragioni poste alla base dell’attivazione di tale procedimento, l’indagine analizzerà il tema del bicameralismo. Il progetto di riformare il Senato della Repubblica in una camera rappresentativa degli interessi territoriali, attraverso il metodo delle Commissioni bicamerali prima e dei progetti di revisione organica della Costituzione dopo, potrebbe costituire la soluzione ai rischi degenerativi della differenziazione ed attuare un reale federalismo in armonia con l’unicità e inviolabilità della Repubblica.

 

Indice:

1. Le ragioni dell’attivazione del procedimento ex articolo 116, co. 3 Cost

2.La scelta del bicameralismo paritario in sede di Assemblea Costituente

3.La questione regionalistica nel progetto del bicameralismo “differenziato”: dalle Commissioni bicamerali ai progetti di revisione organica della Costituzione

4.Ipotesi per il superamento dell’attuale bicameralismo paritario in una prospettiva comparata

5.Conclusioni

 

 

1.Le ragioni dell’attivazione del procedimento per l’autonomia regionale  ex articolo 116, co. 3 Della Costituzione

 

“Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.” (comma 3, articolo 116, Titolo V, Parte II, della Costituzione)

L’attivazione del procedimento di cui all’articolo 116, comma 3 della Costituzione da parte della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna e l’approvazione dell’o.d.g. sul “regionalismo differenziato” da parte del Consiglio regionale della Campania in ordine al suddetto procedimento constatano, prepotentemente, che l'esigenza di dotarsi di una maggiore autonomia è oggi avvertita da tutte, o quasi, le Regioni italiane, a prescindere dalla storia, dalla configurazione geografica, dall'identità culturale. Riflette un forte bisogno di uscire in fretta dal “culto per l'uniformità”[2], che ha caratterizzato così a lungo la vicenda del regionalismo italiano. La riforma del Titolo V della Costituzione[3] ha posto in essere un rafforzamento del ruolo del Presidente della Giunta[4] ma, al contempo, ha determinato l’esigenza di una maggiore autonomia regionale, motivata sia dall’ introduzione della legislazione concorrente di cui al co. 3 articolo 117 Della Costituzione, dove non si delinea un confine preciso tra la competenza statale e quella regionale, con contenziosi costituzionali tra Stato e Regioni, sia dall’autonomia finanziaria di entrata e di spesa di cui all’articolo 119 Della Costituzione:

  • Le materie oggetto del contenzioso costituzionale nel 2016. 

Nel 2016 si conferma la centralità delle materie finanziarie.

Tra le materie di competenza concorrente è risultato fortemente prevalente il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (33 sentenze), seguito dal «governo del territorio» (21 sentenze), dalla «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (15 sentenze), dalla «tutela della salute» (13 sentenze) e dalla «valorizzazione dei beni culturali e ambientali»

(11 sentenze)

L’autonomia finanziaria di spesa rappresenta uno dei tratti cruciali dell’assetto di finanza pubblica. Soprattutto in tempi recenti, infatti, in presenza della nota congiuntura economica e delle difficoltà in cui versa il bilancio pubblico e, soprattutto, per esigenze di riduzione del debito pubblico, il legislatore statale è intervenuto a ridurre fortemente e unilateralmente, pur sotto la vigenza dell’articolo 119 Della Costituzione, le risorse a disposizione delle Regioni e degli enti locali. Ciò ha portato il Veneto, la Lombardia e, in seguito, l’Emilia-Romagna (che insieme producono il 40% del Pil nazionale) a ricorrere all’attivazione del procedimento ex articolo 116; attivazione preceduta nelle prime due Regioni dall’indizione di un referendum consultivo “per l’autonomia”, approvato dal corpo elettorale. In particolare in Veneto, dove si richiederebbe la competenza esclusiva su tutte le materie oggetto di legislazione concorrente, la questione dell’autonomia è fortemente sentita in virtù del principio del residuo fiscale[5] e della richiesta di trattenere il 90% delle tasse nella regione. Occorre, inoltre, approfondire l’argomento del fondo perequativo. Come recita l’articolo 119 Della Costituzione “ La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Esso rappresenta uno strumento che mira a mitigare le diseguaglianze tra Regioni i cui abitanti presentano differenti capacità fiscale, al fine di garantire gli stessi standard di prestazione nell’erogazione dei servizi di competenza, nonostante gli squilibri economico-sociali. Il fondo perequativo può essere sia orizzontale o sia verticale (destinato direttamente dallo Stato).  Con il regionalismo differenziato le Regioni con scarsa capacità fiscale rischierebbero di non beneficiare più della solidarietà interregionale[6] (perequazione orizzontale). Dinanzi a questo scenario che, al di là dei pericoli in termini di garanzia dei principi di unità e indivisibilità, di solidarietà e “eguaglianza territoriale”, può comportare dinamiche accentuative delle differenze regionali nel riparto delle competenze, si dovrebbe, anzi si deve riaprire il dibattito sul bicameralismo.

 

2.La scelta del bicameralismo paritario in sede di Assemblea Costituente

 

Il bicameralismo italiano, attualmente, è un bicameralismo eguale in cui il potere legislativo è articolato tra due Camere[7] poiché risponde – nelle intenzioni dichiarate dai padri costituenti - all’esigenza di ottenere una maggiore ponderazione nell’elaborazione delle leggi e un più efficace esercizio di talune funzioni di controllo (gestione finanziaria, relazioni internazionali ecc.) in capo al Parlamento: in tal senso, il Senato si sarebbe configurato come “Camera di riflessione[8]”.

La seconda Camera rappresentava, dunque,  l’esigenza, da tutti avvertita, di integrare i processi di rappresentanza politica espressi nella prima Camera con ulteriori canali di rappresentanza delle “forze vive del Paese” interpretati da alcuni con riferimento agli interessi regionali e da altri in relazione alle categorie produttive e professionali: in ogni caso, l’intento era quello di assicurare una rappresentanza differenziata rispetto a quella sintetizzata nella prima camera, così da concretizzare il senso della scelta bicamerale.

Seguendo la prima impostazione, il Senato - ancorato a solide basi regionali - si sarebbe atteggiato come l’organo deputato alla “tutela degli specifici interessi delle Regioni costituite in enti autonomi”. Sul tema del regionalismo va registrato che nella pubblicistica dei partiti la contesa ebbe più ampio respiro: sebbene i progetti di alcuni partiti fossero orientati verso il c.d. regionalismo politico, il cui elemento connotante si specificava nell’attribuzione alle Regioni anche di un vero e proprio potere legislativo esclusivo garantito da disposizioni costituzionali[9], successivamente venne adottato un sistema ibrido tra un modello di centralismo statale “alla francese” e tendenze autonomistiche[10] e risultante così prevalente l’idea di ridimensionare l’incidenza della Regione, in quanto causa di frammentazione del potere amministrativo, sulla forma di Stato attraverso la semplice suddivisione di competenze tra centro e periferia (legislazione concorrente), in modo da spezzare il precedente accentramento.

 

3.La questione regionalistica nel progetto del bicameralismo “differenziato”: dalle Commissioni bicamerali ai progetti di revisione organica della Costituzione

 

Con l’o.d.g. Nitti[11] si affermò il principio dell’elezione del Senato “con suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale”, facendo tramontare la possibilità che il Senato, pur avendo poteri univoci con la prima Camera, assumesse una composizione differenziata e diventasse una Camera rappresentante delle autonomie. L’assenza di una posizione condivisa tra le varie forze politiche e la superficialità con cui si analizzò la questione regionalistica in seno alla Costituente, spiega una prima fase di assenza di dibattito in quanto la questione regionale e la problematica della rappresentanza degli enti territoriali in Parlamento non era infatti avvertita, soprattutto a livello politico[12], come centrale. In questo periodo costituì un’eccezione la proposta della Commissione “Bozzi”[13] che prefigurava l'integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni affidando a tale organo funzioni consultive in ordine a progetti di legge riguardanti le materie di cui all'articolo 117 Della Costituzione o materie concernenti le strutture e il funzionamento delle Regioni e degli enti territoriali[14]. Il progetto, poi fallito, della Commissione “Bozzi” pose in essere una nuova questione: valorizzare il ruolo e i compiti delle autonomie all’interno del panorama politico nazionale. Infatti, proprio tale questione è stata uno degli aspetti più controversi e problematici della proposta della Commissione "D'Alema"[15]. Svincolandolo dal rapporto fiduciario con il Governo, la Commissione proponeva che il Senato, divenendo “camera delle garanzie di interessi e valori permanenti”,  sarebbe stato coadiuvato da una sorta di terza Camera, il c.d. Senato in sessione speciale, integrato da 200 consiglieri comunali, provinciali o regionali, eletti da appositi collegi elettorali in ciascuna regione, in numero pari ai rispettivi senatori, con una competenza circoscritta alle materie espressamente annoverate a carattere strettamente locale, quali la legislazione elettorale e l’ordinamento degli enti locali, la tutela degli interessi nazionali nelle materie di competenza legislativa regionale, il federalismo fiscale.

Ed è qui che viene alla luce il vero paradosso della riforma del Parlamento i cui ripetuti fallimenti, incluso il progetto della Bicamerale “D’Alema”, pur dovuti a proposte di riforma sicuramente discutibili, hanno perpetuato il modello vigente caratterizzato, come scrive il professore Enzo Cheli “da criticità tanto sui tempi e la qualità della legislazione, quanto sulla compattezza e la stabilità dei governi”[16]. Paradosso che si rinnova anche nei due progetti di revisione organica della Costituzione (del 2005 e del 2016), le c.d. riforme approvate “a colpi di maggioranza”, ispirate ad una cultura politica fondata sull’equivalenza tra principio democratico e principio maggioritario e bocciate dal corpo elettorale con il referendum costituzionale di cui all’articolo 138 Della Costituzione La particolarità delle proposte risiedeva nel “criterio di contestualità”. Infatti nel tentativo di conferire al Senato una connotazione federale e cementare un collegamento con i livelli decentrati di Governo, i suoi componenti sarebbero stati eletti a suffragio universale e diretto (come previsto nel progetto del 2005) o eletti in secondo grado (come nel progetto del 2016) in ogni Regione contestualmente all’elezione dei Consigli regionali. La durata del mandato dei senatori sarebbe coincisa con quella dei Consigli regionali da cui sarebbero stati eletti; inoltre, i senatori sarebbero decaduti se fosse cessata la loro carica elettiva regionale o locale. Il Senato sarebbe diventato quindi un organo a rinnovo parziale continuo, non sottoposto a scioglimento, modificando la normativa che prevede un Senato eletto nella sua interezza ogni 5 anni, salvo scioglimento anticipato delle Camere. Tuttavia, il nuovo Senato venne concepito non come un’assemblea espressione delle rappresentanze locali, ma come organo di mera concertazione[17], introducendo un criterio di contestualità che non avrebbe prodotto una nuova sinergia tra Senato e istanze regionali ovvero a connotare il Senato in senso federalista, dal momento che i rappresentanti locali – avendo soltanto un ruolo consultivo e di mera partecipazione all’attività del Senato – avrebbero solo marginalmente condizionato il consesso. Sul “criterio di contestualità” e sull’elezione di secondo grado il dibattito in dottrina si inasprì ulteriormente[18]: al di là delle distorsioni ideologiche, l'elezione indiretta rappresenta lo strumento attraverso cui connotare di concretezza l'auspicata integrazione della rappresentanza[19], sottraendo la seconda Camera alle dinamiche partitiche nel portare in primo piano l'esigenza del raccordo con i territori. Parlare di rappresentanza territoriale implica la necessità di un elemento di controllo che assicuri l'effettivo svolgimento del raccordo centro-autonomie, controllo di cui l'operato dei senatori post-riforma risultava sprovvisto[20] ed in questo modo si sarebbe realizzata una forma di rappresentanza politica  che avrebbe determinato il rischio - date le tendenze partitocratiche analizzate - di realizzare una nuova forma di cooptazione, collegata tra partito personale regionale e partito personale nazionale.

 

4.Ipotesi per il superamento dell’attuale bicameralismo paritario in una prospettiva comparata

 

L’analisi della struttura parlamentare delle principali democrazie contemporanee porta a rilevare non solo l’inesistenza di un unico modello di bicameralismo, ma anche l’impossibilità di rintracciare un modello prevalente di seconda camera, la quale – tanto nella struttura quanto nelle funzioni attribuite - risente più della prima dell’evoluzione storica e sociale dell’ordinamento nel quale si innesta. Da questo punto di vista, mentre la Camera bassa – in quanto ontologicamente rappresentativa dell’intera collettività - è sufficientemente omogenea in tutte le sue applicazioni, la Camera alta nella eterogeneità delle singole istituzioni esistenti esige una riflessione comparativa che non può prescindere dall’analisi storica, così da poter seguire i diversi adattamenti del bicameralismo attraverso l’esame delle modalità elettive di una camera rispetto all’altra, dei poteri e del tipo di rapporto con l’Esecutivo, nonché della rilevanza politica generale della camera alta rispetto alla Camera bassa[21].

A fronte dell’acquisita prevalenza della Camera bassa quale cuore propulsivo dell’istituzione parlamentare in quasi tutti gli ordinamenti contemporanei, si rileva tuttavia la tendenza verso un graduale rafforzamento delle Camere alte, in virtù della predominanza di due caratteristiche comuni che nel tempo si sono corroborate e ne hanno rinvigorito la funzionalità nel sistema istituzionale: da un lato, il raccordo con le autonomie e dall’altro la funzione di “garanzia” svolta dalle camere alte, specialmente nel procedimento legislativo.

Queste caratteristiche condivise possono essere variamente distribuite su una scala che viene definita ricorrendo a due direttrici, cioè valutando il livello più o meno diretto di rappresentatività e misurando il grado di omogeneità delle funzioni tra le due camere.

La seconda Camera è oggi una costante negli Stati federali e il raccordo con le comunità territoriali ha ispirato più o meno profondamente anche gli Stati decentrati o regionali[22]. Se infatti i sistemi elettivi delle Camere alte variano, tutti – con l’eccezione della Camera dei Lord inglese e della Camera alta irlandese[23], la prima non eletta e la seconda in parte nominata ed in parte selezionata su base socio-professionale – incorporano un raccordo con il sistema delle autonomie. Il dato si manifesta con maggiore evidenza nel gruppo dei paesi federali tradizionali (Germania e Stati Uniti), la cui struttura è riflessa nella genesi delle camere quale caratteristica principale ed identitaria. È singolare rilevare che questi Stati esprimono le camere federali con modalità tra loro differenti: la Germania indirettamente attraverso la nomina da parte dei governi regionali; gli Stati Uniti direttamente attraverso un numero ristrettissimo di eletti uguale per ogni stato. Anche l’Austria, che ha una forma di Stato a carattere marcatamente regionale[24], designa i membri della Camera alta indirettamente, attraverso l’elezione da parte dei parlamenti regionali. In altri paesi, le camere alte sono elette con un sistema misto, in parte indiretto – attraverso il sistema delle autonomie – ed in parte diretto, attingendo immediatamente alla fonte della legittimità popolare. E’ il caso del Belgio.

Le modalità elettive del Senato belga (nel rinnovato quadro istituzionale conseguente alla riforma del 1993), strettamente legate alla composizione territoriale e linguistica della federazione a prescindere dai confini strettamente materiali di ciascuna regione, traducono una forma di “federalismo dissociativo”, in cui la complessa territorializzazione della Camera alta non è data dalla somma delle singole entità federate secondo il classico modello ascendente, ma si basa su una divisione che segue un modello discendente.

La Francia[25]  (che non è uno Stato federale) ed i Paesi bassi[26]  (che non ha alcuna connotazione federale) infine adottano un sistema elettorale totalmente indiretto. I Senati eletti dagli organi rappresentativi di ciascun sistema di autonomie tendono a rimanere privi di legami strutturalmente significativi con le entità territoriali in quanto tali. Tuttavia, nel Senato francese traspare una forte sensibilità verso i valori extraurbani e rurali del localismo, esaltato dalla rilevanza della dimensione territoriale del meccanismo elettorale rispetto a quella puramente popolare (dell’Assemblea nazionale). In questo scenario è evidente la particolarità del Senato italiano dove la previsione costituzionale dell’elezione su base regionale non ha mai radicato un particolare collegamento tra Camera alta e sistema delle autonomie.

La seconda ricorrenza comune delle Camere alte è rappresentata dalla funzione di garanzia che le stesse esercitano - persino nelle formulazioni più deboli – in particolare nello svolgimento del procedimento legislativo. In questo senso, il bicameralismo starebbe alla legge come il doppio grado di giurisdizione sta alla sentenza: un meccanismo istituzionale certamente di duplicazione, che non sempre è attivato e non necessariamente implica modifiche, ma che risulta indispensabile laddove rende possibili emendamenti ritenuti indispensabili.

 La lontananza dal rapporto con il Governo nella maggior parte degli ordinamenti – altra caratteristica prevalente delle camere alte – conferisce la necessaria oggettività che deve presiedere all’esercizio di ogni funzione di garanzia. Ovviamente, anche all’interno di questa caratteristica di fondo, le modalità variano fortemente nelle diverse soluzioni adottate nei differenti paesi e si registra la prevalenza di schemi in cui le camere alte esercitano poteri e funzioni diversi dalle camere basse: dopo la riforma del Senato belga, il bicameralismo perfetto è rimasto un unicum italiano. Ad un esame generale delle esperienze bicamerali delle principali democrazie moderne, risulta che non sono molti i casi in cui si registra una prevalenza della camera bassa. Semmai, l’intervento delle Camere alte è generalmente posposto nei procedimenti legislativi afferenti al bilancio, stante il forte nesso elevato a principio tra rappresentatività e tassazione, in quanto solo i rappresentanti diretti dei contribuenti hanno il pieno potere di redistribuzione delle risorse della collettività nel suo complesso[27]. L’analisi in parallelo delle Camere alte attraverso il filtro dei criteri relativi al raccordo con le autonomie ed alla funzione di garanzia conferma l’estrema difficoltà di determinare in termini univoci l’attuale ruolo delle seconde camere nei sistemi costituzionali dei paesi di democrazia matura, sussistendo un’estrema varietà di soluzioni.

L’assenza di un monolitico modello di riferimento nella fisionomia della Camera alta, come risulta esaminando i rapporti tra le Camere nei diversi Parlamenti o comunque nel quadro delle relazioni tra organi costituzionali centrali, si constata parimenti anche a seguito del confronto tra le camere alte ed il sistema delle autonomie, in cui non è possibile individuare schemi idonei ad assurgere a parametro di normalità, proprio perché il ruolo più o meno accentuato delle camere alte ha ripercussioni di vario tipo in base ai diversi equilibri ed ai differenti orientamenti. È stato osservato, ad esempio, che la preminenza del Bundesrat tedesco si risolve a discapito dello spazio d’influenza dei Parlamenti dei Laender.

D’altra parte, il ruolo del Bundesrat è di primario rilievo, sebbene all’organo non sia neanche riconosciuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale il rango di seconda Camera[28]. In Austria invece il ruolo del Bundesrat appare minore, mentre lo status dei parlamentari della Camera alta – eletti dalle assemblee regionali – e quello dei membri della Camera bassa è analogo tanto per i profili relativi alle prerogative che in relazione al rapporto con il corpo elettorale, non essendo infatti il loro mandato revocabile. Anche i paesi che hanno di recente attraversato processi di revisione delle Camere alte tendono ad un generale potenziamento delle autonomie territoriali e individuano nel Senato l’organo più adeguato – tra le istituzioni costituzionali centrali – per realizzare tale rafforzamento.

La comparazione con i vari modelli di bicameralismo europeo potrebbe costituire un ausilio al legislatore italiano. Nell’immaginare il nuovo Senato bisogna considerare la stretta correlazione tra composizione e funzioni che l’organo sarebbe chiamato a svolgere ed in primis la simmetria di funzione con l’altro ramo del Parlamento[29].

Innanzitutto la seconda Camera dovrà essere sottratta al rapporto fiduciario con il Governo all’interno di una persistente forma di governo parlamentare, spogliandosi della rappresentanza politica per assumere invece le funzioni tipiche della rappresentanza territoriale. Sul piano della funzione legislativa si ritiene che uno dei criteri da potersi seguire sia quello del riparto tra le due Camere in base alla tipologia delle leggi[30] , con l’eventuale distinzione in Costituzione non solo tra leggi monocamerali e leggi bicamerali, ma anche di “leggi a prevalenza della Camera” e “leggi a prevalenza del Senato”, evitando il rischio d’incertezza e conflittualità.

Una questione molto delicata, nel delineare il nuovo Senato, riguarda proprio il piano del riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni, con l’eventuale superamento della competenza concorrente, un qualche rafforzamento della potestà esclusiva dello Stato e il ripensamento della formulazione della competenza residuale. Inoltre, i poteri del nuovo Senato devono essere tali da scongiurare la paralisi del sistema prevedendo ad esempio un numero ragionevolmente ristretto di leggi bicamerali perfette, dove cioè è chiaro e significativo l’interesse territoriale, a favore invece di un procedimento legislativo in cui vi sia la prevalenza della Camera politica, proprio per evitare ogni torsione in termini di indirizzo politico da parte del Senato. Del resto, ciò sarebbe funzionale e organico ad una Camera alta esclusa dal rapporto fiduciario con il Governo nazionale. Dalla definizione delle funzioni del Senato ne consegue la scelta per le modalità di selezione dei senatori, rispetto alla quale è possibile prospettare tanto l’ipotesi dell’elezione diretta, quanto quella indiretta. Sicuramente nel caso dell’elezione diretta sembrerebbe maggiormente salvaguardato il profilo democratico, offrendo la possibilità all’elettorato di scegliere non solo i propri deputati, ma anche i senatori[31].

Una soluzione di questo tipo potrebbe dar luogo a due inconvenienti[32]: da un lato, una forte legittimazione come quella proveniente direttamente dal corpo elettorale potrebbe generare per i senatori un anelito di rappresentanza politica generale, così da indurre gli stessi a interferire sull’indirizzo politico, sottratto invece a una seconda Camera di rappresentanza territoriale, dall’altro, l’elezione diretta potrebbe comportare la prevalenza della logica politico-partitica rispetto agli interessi territoriali, proprio per il collegamento diretto che si andrebbe ad instaurare, in via naturale, tra il corpo elettorale e i senatori[33]. Allora la soluzione si dovrebbe indirizzare verso il sistema di elezione di secondo grado. In questo caso sembrerebbe invero da evitare il cumulo, perché di questo si tratta, delle cariche tra consigliere regionale e senatore[34].

Oltre all’oggettiva difficoltà a far coesistere cariche elettive egualmente gravose, si nota come una soluzione di questo tipo correrebbe il rischio di veicolare nuovamente nella seconda Camera le logiche della rappresentanza politica in forza delle quali il consigliere regionale è stato eletto. In ogni caso i futuri senatori non dovrebbero essere designati con metodo proporzionale in base ad uno stretto collegamento con la consistenza rappresentativa dei gruppi consiliari presenti nell’Assemblea che procede all’elezione, proprio per evitare nuovamente le dinamiche della rappresentanza politica dell’organo territoriale designante.

Nell’ambito della riflessione sull’elezione indiretta, potrebbe essere introdotto l’istituto del mandato imperativo che potrebbe favorire uno stretto collegamento tra Consiglio regionale e propri senatori designati, in modo da vincolare i rappresentanti in Senato a seguire le indicazioni ricevute dall’Assemblea consiliare[35]. Nella stessa direzione si potrebbe prevedere anche il “voto unitario”, cioè il meccanismo previsto dall’ordinamento tedesco per cui i rappresentanti di una stessa regione sarebbero obbligati a votare in modo eguale, in funzione dell’interesse territoriale e non del pluralismo politico[36]. In conclusione si tratta cioè della previsione di una serie di meccanismi tesi a garantire che il futuro Senato si modelli, per quanto possibile, sulla rappresentanza degli interessi territoriali, pur nella consapevolezza delle difficoltà nel rendere totalmente impermeabile una seconda Camera alle logiche della rappresentanza politica.

 

5.Conclusioni

 

Dinanzi a questo contesto bisogna capire il percorso che il legislatore vorrà intraprendere. Il nuovo Senato diventerebbe un organo pari alla Camera dei Deputati, di reale rappresentanza degli interessi regionali e di controllo sull’azione governativa o una Camera secondaria con limitate competenze amministrative? La vera questione è il mancato “bicameralismo differenziato” conseguente ad un mancato completamento del regionalismo. Questione che dura da settant’anni e che tutt’ora non trova soluzione.

 “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali recita l’articolo 5 Della Costituzione, ma sia in Assemblea Costituente sia successivamente non c’è mai stata una profonda lettura del territorio, adottando un modello centralista dello Stato.  L’Italia, però, è sempre stata caratterizzata da forti realtà territoriali. I Comuni, le Signorie ed infine gli Stati pre-unitari sono stati per secoli i protagonisti delle vicende politiche ed economiche della penisola, plasmando, nel bene e nel male, le molteplici generazioni di italiani che si sono susseguite. E’ un fatto, è la storia.

Nella Costituzione non è menzionata la parola “federale” ma dalle leggi Bassanini[37] in poi vi sono stati interventi (con legge ordinaria o con legge di revisione costituzionale) orientati verso un federalismo amministrativo e fiscale. Il problema, oggi come ai tempi della Costituente, è capire quale indirizzo il legislatore intenda seguire. Finché si manterrà il modello attuale, un ibrido fra centralismo e tendenze autonomistiche, la tensione ed i conflitti, specie nell’ambito della legislazione concorrente, saranno continui. Se si continuerà a vedere la Regione come una circoscrizione dello Stato o “una semplice realtà sovracomunale”, con limitate potestà legislative ed esecutive, non si potrà mai giungere ad una matura differenziazione del bicameralismo e ad un Senato quale contrappeso istituzionale e organo promotore e garante degli interessi regionali. Potrebbe verificarsi il rischio di ricadere nella logica della soppressione tout court dell’attuale Senato o nel copiare modelli di bicameralismo stranieri (francese o tedesco in primis) senza aver preso in considerazione la propria storia geo-politica, unica e complessa nell’attuale panorama delle democrazie parlamentari, in costante tensione tra unità e forte autonomia.

[1] Nella persona del Sottosegretario di Stato agli affari regionali, Gianclaudio Bressa

[2] Cfr. Frosini Tommaso Edoardo, La differenziazione regionale nel regionalismo differenziato, Il nuovo Titolo V,     Dibattiti, Rivista AIC.

[3] La riforma del Titolo V della Costituzione è avvenuta a seguito della l. cost. 22 novembre 1999 n. 1 sulla forma di governo delle regioni ordinarie, della l. cost. 31 gennaio 2001 n.2 sull’elezione diretta dei Presidenti delle regioni a Statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano; successivamente la l. cost.18 ottobre 2001 n. 3 è intervenuta sulla rimanente parte del titolo V. La riforma del 2001 – approvata dalla sola maggioranza di centro-sinistra poco prima dello scadere della legislatura (nonostante l’impianto fosse stato condiviso anche dal centro-destra in sede di Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, con il parere ampiamente favorevole dei Presidenti delle Regioni) – fu sottoposta a referendum confermativo, svoltosi il 7 ottobre 2001, quindi dopo le elezioni politiche, e registrò il favore del 34,1% dei votanti, consentendo l’entrata in vigore il 18 ottobre 2001 della legge costituzionale n. 3 (L. cost. 23 gennaio 2001 n. 1, adeguando  gli artt. 56 e 57 Cost. per consentire la partecipazione al voto degli italiani residenti all’estero).

[4] Ai sensi dell’articolo 121 Cost. “Il Presidente della Giunta rappresenta la Regione; dirige la politica della Giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali”. Inoltre ai sensi dell’articolo 126 della Cost., la decadenza del Presidente della Giunta comporta lo scioglimento del Consiglio regionale e le simultanee dimissioni dei consiglieri.

[5] Introdotto dal premio Nobel James M. Buchanan, nel suo saggio Federalism and fiscal equity, il residuo fiscale è la differenza tra tutte le entrate (fiscali e di altra natura come alienazione di beni patrimoniali pubblici e riscossione di crediti) che le Pubbliche Amministrazioni (sia statali che locali) prelevano da un determinato territorio e le risorse che in quel territorio vengono spese. Nel caso delle regioni il residuo fiscale è calcolato come differenza tra le tasse pagate (al netto di entrate regionali anche non fiscali a seconda di come viene calcolato) e la spesa pubblica complessiva ricevuta, ad esempio sotto forma di trasferimenti o in generali di servizi pubblici. Nel 2015 la CGIA di Mestre ha quantificato di oltre 100 miliardi di euro il residuo fiscale delle regioni del Nord Italia, di cui 53,9 per la sola Lombardia, 18,2 il Veneto, 17,8 per l'Emilia Romagna e 10,5 per il Piemonte. Anche la Toscana, sempre secondo lo studio della CGIA di Mestre, presenta un consistente residuo fiscale pari a 8,3 miliardi di euro.

[6] Si veda la dichiarazione, riportata dal periodico telematico Regioni.it in data 20/02/2019, del Presidente della Giunta della Regione Molise: “con il regionalismo differenziato – spiega Toma - rischiamo una secessione ante litteram e questo non lo vogliamo”. “Quindi il Consiglio regionale del Molise, con un solo voto contrario, ha approvato una mozione sulle pesanti conseguenze che l'effettivo avvio del regionalismo differenziato potrebbero comportare in particolare per le Regioni del Sud. L'atto di indirizzo impegna il presidente della Giunta regionale, Donato Toma, a rivolgersi al Presidente del Consiglio, al Consiglio dei Ministri e alla Conferenza delle Regioni per far sì che il Governo porti avanti un accordo tra le Regioni in cui vi sia almeno: la fissazione e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e la previsione che il trasferimento di risorse sulle materie assegnate alle Regioni sia ancorato esclusivamente a oggettivi fabbisogni territoriali, escludendo ogni riferimento ad indicatori di ricchezza. L'atto prevede inoltre principi di coesione e solidarietà fra le Regioni con la salvaguardia dei trasferimenti finanziari a fini perequativi.”.

[7] Il 26 settembre 1946 la Seconda Sottocommissione approvò l’o.d.g. Leone (DC) sulla “parità delle attribuzioni” tra le due Camere.  La Seconda Sottocommissione, costituente una delle tre sottocommissioni della “Commissione dei 75”, era composta da 38 membri e presieduta dall’on. Terracini; iniziò i suoi lavori il 26 luglio 1946. Il tema del bicameralismo fu trattato dalla Sottocommissione nelle sedute che vanno dal 3 settembre 1946 al 4 gennaio 1947 e poi fu ripreso in sede di adunanza plenaria.

[8] Cfr Mortati C., Mozione sulla riforma costituzionale dello Stato, “Politica d’Oggi”, 1946, pag. 13 e ss. In tal senso, Costantino Mortati nella sua relazione sul potere legislativo individuava le tre esigenze giustificative della struttura bicefala del Parlamento, sintetizzandole nella necessità di moderare e controllare l’operato della Camera dei Deputati (il Senato quale “camera di riflessione”), di integrare la rappresentanza “politica” con la rappresentanza “economica e culturale” e di selezionare i più capaci e competenti.

[9] Cfr., De Siervo U., Sturzo e la realizzazione delle Regioni, in “Il politico”, 1989, pag. 56 e ss. Secondo Luigi Sturzo, uno dei “padri” delle teorie regionalistiche, andavano fissati nelle disposizioni costituzionali chiari seppur inediti collegamenti tra le libertà territoriali e sociali e l’autorità unitaria dello Stato sia in ordine alle nuove esigenze di partecipazione democratica, sia in ordine all’assunzione di potestà legislative specifiche (territoriali e nazionali) da parte delle Regioni.

Cfr. Einaudi L., La sovranità è indivisibile?, in “Risorgimento liberale”, 22 giugno 1945. Anche Luigi Einaudi (PLI) al “mito dello Stato sovrano” oppose “l’esigenza delle molteplici sovranità” per far rivivere l’unità nazionale “nella libera consapevole diversità delle vicinanze, dei comuni, dei distretti, delle regioni”. G. Ambrosini (DC) auspicava l’attribuzione della potestà legislativa in capo alle regioni, insistendo nel ritenere che “in democrazia una Camera dei partiti non basta” e sostenendo che senza differenziare la struttura e la composizione delle due Camere i partiti avrebbero assorbito o annullato i legittimi interessi dei territori regionali.

Cfr. Cheli E., La sovranità, la funzione di governo, l’indirizzo politico, in Amato G., Barbera A. (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 297 e ss. Costantino Mortati (DC), sensibile alle istanze del corporativismo cattolico, considerava la regione quale “centro unitario di interessi organizzati”, legittimato ad agire sia a livello locale che in Parlamento nell’ottica di un’integrazione tra rappresentanze politiche e territoriali. Emilio Lussu (gruppo autonomistico) proponeva addirittura la creazione di un “Senato delle Regioni” per valorizzare la connotazione regionale dell’ordinamento italiano. L’opposizione a tali indirizzi radicali in materia regionale fu forte ed emerse da ogni parte degli schieramenti politici: Benedetto Croce (PLI) parlò di una tendenza al “vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento”; Togliatti paventò il rischio di una deriva verso la creazione di tanti piccoli staterelli che avrebbero lottato l’uno con l’altro.

[10] Modello consacrato dall’articolo 5 Cost. che recita “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.

[11] Cfr. Atti dell’Assemblea costituente, op. cit., Camera dei deputati, Roma, 1946.

[12] Viceversa, a livello dottrinale, la prospettiva di trasformazione del Senato in una "Camera delle Regioni" è presente: sul punto, per tutti, si veda Occhiocupo N., La “camera delle regioni”, Milano, Giuffrè, 1975, p. 27.

[13] La prima Commissione bicamerale, insediatasi il 30 novembre del 1983 e presieduta dall’on. Aldo Bozzi (Pli), era composta da venti senatori e venti deputati, con il compito di “formulare proposte di riforme costituzionali e legislative, nel rispetto delle competenze istituzionali delle due Camere, senza interferire nella loro attività legislativa su oggetti maturi ed urgenti, quali la riforma delle autonomie locali, l’ordinamento della presidenza del Consiglio, la nuova procedura dei procedimenti di accusa”. La relazione conclusiva fu approvata solo dai componenti della Commissione appartenenti alla Dc, al Psi, al Pr e al Pli, con astensione dei gruppi comunista e socialdemocratico e con voto contrario dei gruppi Msi-Dn, Sinistra indipendente, Democrazia proletaria e Union Valdotaine.

[14] Interessante a tale proposito la relazione della Commissione nella quale si legge: «Va rilevato che alla situazione di "separatezza" lamentata dalle regioni rispetto agli organi centrali dello Stato si va gradualmente ponendo rimedio: e se la già avviata Conferenza Stato-Regioni dovrà provvedere alla relazione regioni-Governo, secondo moduli flessibili che non sembra opportuno irrigidire in Costituzione, sulla relazione regioni-Parlamento potrà positivamente influire, e in modo rilevante, la nuova funzione qui proposta per la Commissione parlamentare per le questioni regionali [...] che, soprattutto nella composizione integrata da diretti rappresentanti delle regioni, costituirà un'altra fondamentale struttura di raccordo tra le regioni e gli organi centrali dello Stato, con particolare riferimento all'attività legislativa»: Camera dei deputati, Senato della Repubblica, IX legislatura, Relazione della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, doc. XVI-bis, n. 3, p. 61.

[15] La terza e ultima Commissione bicamerale (costituita da quattro Comitati, rispettivamente competenti in materia di Forma di Stato, Forma di governo, Parlamento e fonti normative, Sistema delle garanzie), presieduta dall’allora segretario del Pds Massimo D’Alema,  composta da trentacinque deputati e trentacinque senatori, generò una vera e propria riscrittura pressoché integrale della seconda parte della Costituzione, nell’ottica dell’affermazione di una forma di governo tendenzialmente semi-presidenziale e del rafforzamento del carattere regionale dell’ordinamento, attraverso una ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni fondata sull’individuazione delle materie di competenza statale e l’attribuzione delle residue alle Regioni. Il Senato avrebbe mantenuto il carattere di diretta investitura popolare e continuava ad essere eletto su base regionale (con l’assegnazione tuttavia a ciascuna regione di un numero fisso di senatori indipendentemente dalla relativa popolazione), ma veniva svincolato dal rapporto di fiducia con il Governo per assumere, alla luce del nuovo sistema elettorale maggioritario, il ruolo prevalente di “camera delle garanzie di interessi e valori permanenti”.

[16] Unità nazionale e prospettiva federale nelle ipotesi di riforma del bicameralismo italiano, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare : il diritto costituzionale come regola e limite al potere., Napoli, Jovene, 2009. - Vol. 2, Dell'organizzazione costituzionale, p. 527-538.

[17] Su questo punto si veda Bonfiglio S., Il Senato in Italia. Riforma del bicameralismo e modelli di rappresentanza, Laterza ed., Roma-Bari, 2006.

[18] Si veda Cfr. Zagrebelsky G., Contro la dittatura del presidente. Perché è necessario un discorso sui fini, Roma-Bari, 2014, p.12.

[19]   Cfr. in questo senso Ciolli I., Nuovi e vecchi profili della rappresentanza territoriale. Il futuro del Senato italiano, in Diritto pubblico, n. 3/2007, pp. 912 e 913 dove osserva come la rappresentanza territoriale della seconda Camera “potrebbe contribuire alla ricostruzione dell'identità degli elettori e degli eletti partendo dalla loro collocazione territoriale e geografica” in quanto “la crisi della rappresentanza politica porta paradossalmente ad una nuova e crescente domanda di rappresentanza e di partecipazione. Perciò riconoscere una naturale necessità di rappresentare anche il territorio nel quale si vive può contribuire a soddisfare questa esigenza”.

[20] Cfr. l'audizione di S. Niccolai in Prima Commissione Affari Costituzionali del Senato, seduta

del 28 luglio 2015.

[21] Cfr. Marcelli F. (a cura di), Le camere alte. Aspetti del bicameralismo nei paesi

dell’Unione europea e negli Stati Uniti d’America, in Quaderni di documentazione, Servizio studi del

Senato della Repubblica, Roma, 1997, pag. 17 e ss.

[22] Cfr. Bilancia P., Stato unitario, accentrato, decentrato, federale: dalle diverse origini storiche alla

confluenza dei modelli, in Scritti in memoria di L. Paladin, Jovene, Napoli, 2004, pag. 270 e ss.

[23] Cfr. Maresca A., La rappresentanza degli interessi e la seconda camera in Irlanda, in www.forumcostituzionale.it, 2007. Il Parlamento irlandese è composto da due camere: la Camera dei deputati (Dail Eireann) e il Senato (Seanad Eireann). La Camera è composta da 166 membri eletti in 41 circoscrizioni elettorali con una forma di sistema proporzionale basata sul voto singolo trasferibile (possibilità per l’elettorale di indicare più preferenze, numerandole, all’interno della lista votata). Il Senato ha una composizione mista che risente di una triplice ispirazione, considerato che annovera sia senatori di nomina governativa, sia senatori eletti in rappresentanza di categorie socio-professionali, sia infine senatori eletti tra coloro che sono in possesso di una ben precisa laurea. In particolare, il Senato irlandese è comprende 60 membri, 11 dei quali nominati direttamente dal Primo ministro, 6 eletti dalle Università (cioè dai diplomati al Collegio di Trinity a Dublino a tradizione protestante e dell’Università Nazionale d’Irlanda a tradizione agricoltura e pesca; lavoro; industria e commercio; amministrazione pubblica e servizi sociali) ove vengono stilate apposite liste di candidati meritevoli, proposti dai membri del Parlamento o indicati dalle organizzazioni e associazioni sociali, professionali, sindacali e culturali. Il sistema elettorale al Senato è unico plurinominale ad un turno, secondo il sistema del voto unico trasferibile: i seggi vengono distribuiti in maniera proporzionale, destinando – secondo il dettato costituzionale – i voti non utilizzati per l’elezione del candidato agli altri nell’ordine di preferenza indicato dall’elettore. Il bicameralismo irlandese è quindi imperfetto quanto a composizione, contemplando una camera sostanzialmente corporativa, ma è altresì asimmetrico nelle funzioni, spettando alla sola camera bassa - oltre che il rapporto di fiducia con il Governo - il potere di deliberare il testo definitivo di una legge, seppur contro gli emendamenti approvati dal Senato.

[24] Cfr. Palermo F., Il Bundesrat in Germania e Austria, in Bonfiglio S. (a cura di), Composizione e

funzioni delle seconde camere. Un’analisi comparativa, Cedam, 2008, pag.85 e ss. Il Bundesrat austriaco è composto da 64 membri, eletti con metodo proporzionale dai parlamenti dei Laender sulla base di liste di partito per un periodo di 5 o 6 anni. Ad ognuno dei 9 Laender è attribuito un numero di seggi variabile da 3 a 12 in proporzione alla popolazione. I Presidenti dei Laender possono partecipare alle sedute del Bundesrat e hanno diritto di essere ascoltati. Sul piano politico la camera alta austriaca è del tutto estromessa dal circuito fiduciario, ma anche sul piano delle competenze, pur godendo di poteri formali piuttosto ampi, risulta in sostanza piuttosto debole. Complessivamente, il Bundesrat è titolare dell’iniziativa legislativa e del potere di veto sospensivo sulle leggi approvate dalla camera bassa; inoltre, può esercitare un veto assoluto sulle modifiche della Costituzione (è necessario il suo consenso espresso a maggioranza dei 2/3 su ogni revisione costituzionale) e può promuovere l’indizione del referendum sulle stesse modifiche (non può invece promuovere il referendum per i progetti di legge ordinaria); infine, 1/3 dei suoi membri può impugnare le leggi federali dinanzi alla Corte costituzionale federale. Tuttavia, dal 1945 al 2000 su 4779 leggi approvate il Bundesrat ha espresso veto sospensivo solo 111 volte e solo in 12 casi il veto ha condotto a modifiche del testo di legge. In sostanza, il Bundesrat non svolge quel ruolo di coordinamento tra i diversi livelli di governo tipico della camera alta in un sistema federale, che invece in Austria è affidato ad una Conferenza dei Presidenti dei Laender, politicamente molto influente e costituzionalizzata col nome di Conferenza per l’integrazione dei Laender.

 

[25] Cfr. Calamo Specchia M., Il Senato in Belgio e in Francia, in Bonfiglio S. (a cura di), Composizione funzioni delle seconde camere. Un’analisi comparativa, Cedam, 2008, pag. 64 e ss.. Cfr.  Pinna M.E., Il Senato francese nel parlamentarismo contemporaneo, 16 maggio 2007, in www.federalismi.it, n. 10, 2007.

[26] Cfr. Colucci F., Paesi bassi, in Marcelli F. (a cura di), Le camere alte. Aspetti del bicameralismo nei paesi dell’Unione europea e negli Stati Uniti d’America, Quaderni di documentazione, Servizio studi del Senato della Repubblica, Roma, 1997, pag. 123 e ss. Il Parlamento olandese (i c.d. Stati generali) si articola in due camere: la Camera bassa (Tweede Kamer) è composta di 150 membri eletti con sistema proporzionale e a suffragio universale diretto per un mandato di 4 anni; la Camera alta (Eerste Kamer) è composta di 75 membri eletti con metodo proporzionale per un mandato di 4 anni dalle 12 assemblee legislative delle province nelle quali è suddiviso il territorio nazionale. La Camera alta non può proporre od emendare la legislazione, ma può solo confermare (o respingere in toto) le leggi approvate dalla camera bassa, per cui ha una ridotta capacità di influenzare la legislazione. Inoltre, il Senato olandese non può sfiduciare il governo. Si tratta di un’ipotesi di bicameralismo imperfetto.

[27] In tal senso, è di particolare interesse l’analisi comparata svolta in Bassanini F., Merlini S. (a cura di), Crisi fiscale e indirizzo politico, Il Mulino, Bologna, 1995. In particolare, cfr. Zanardi A., Organi, atti e procedure del bilancio federale degli Stati Uniti, pag. 59 e ss., dove si evidenzia che il soggetto politico di riferimento è l’intero Congresso. Cfr. altresì nella stessa opera Lotito P.F., Il processo di bilancio in Francia, pag. 311 e ss., dove si afferma che il ruolo svolto dal Senato francese è solo apparentemente minore, risultando in sostanza analogo a quello dell’Assemblea nazionale. Anche in Spagna la legge di bilancio è approvata secondo una procedura bicamerale; non così in Belgio.

[28] Infatti i membri di questa assemblea sono revocabili dai governi dei Laender (cui spetta la nomina), devono votare in modo unitario, non fruiscono della disciplina dell’immunità parlamentare e del diritto all’indennità ed il loro status è incompatibile (a differenza dei membri del Bundestag) con l’assunzione di cariche nel governo federale.

[29] Cfr. Palermo F., Nicolini M., Il Bicameralismo – Pluralismo e limiti della rappresentanza in prospettiva comparata, Napoli, 2013, 144 ss.

[30] Tale soluzione è stata formulata, ad esempio, da M. Luciani nel corso dei lavori della Commissione per le riforme costituzionali nominata nella precedente XVII Legislatura. Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri (a cura), Per una democrazia migliore, Roma, 2013, in particolare Luciani M., 109 s. Diversamente, cfr. Salerno G. M., Il progetto di riforma costituzionale del Governo Renzi: qualche osservazione preliminare, in Federalismi.it, n. 8/2014, 4 s.

[31] Cfr. De Fiores C., Rappresentanza politica e sistemi elettorali, in Id. (a cura), Rappresentanza politica e legge elettorale, Torino, 2007, 11 ss.

[32] Cfr. Luciani M., La riforma del bicameralismo, oggi, in Rivista Aic.it, n. 2, 2014, 10; così v. anche Puccini G., La riforma del bicameralismo in Italia nella XVII legislatura: dalla relazione dei “Saggi” alla proposta Renzi, in Astrid Rassegna (http://www.astrid-online.it/rassegna), n. 9, 2014, 24.

[33] Questa tesi è stata sostenuta – in occasione dei lavori, nell’ultima legislatura, della Commissione per le riforme costituzionali – da Onida V., in Presidenza del Consiglio dei Ministri (a cura), Per una democrazia migliore, cit., 122, laddove afferma: “L’elezione diretta dei senatori (anche se collegata temporalmente con l’elezione degli organi regionali) comporta inevitabilmente la prevalenza della logica dei partiti e degli schieramenti politici nazionali, e mal giustifica la differenziazione di funzioni fra le due Camere…”. Tuttavia, riserve sull’elezione indiretta sono espresse anche da Ferrara G., La democrazia dimezzata, in il Manifesto, 2 aprile 2014, e da Villone M., Un Senato tutto sbagliato, in costituzionalismo.it-/notizie, 7 giugno 2014.

[34] Cfr. De Vergottini G., Sulla riforma radicale del Senato, in federalismi.it, n. 8/2014, 1 s., e Sgrò F., Riforma del Senato e contrappesi democratici, in www.rivistaaic.it, n. 2/2014, 3, i quali esprimono critiche sulla possibilità di cumulo dei mandati.

[35] In senso favorevole al vincolo di mandato cfr., tra gli altri, Pezzini B., La riforma del bicameralismo, in www.rivistaaic.it, n. 2/2014, 8 e Lanchester F., Un progetto squilibrato, in Federalismi.it, n. 8/2014, 3 s.

[36] Cfr, Bifulco R., Le proposte della Commissione per le riforme costituzionali sulla riforma del bicameralismo e la ‘scorciatoia’ monocamerale, in Rivista AIC, n. 1/2014, 5, il voto unitario è lo strumento con cui “si riuscirebbe a recuperare una caratterizzazione territoriale del Senato”.

[37] Legge 15 marzo 1997, n. 59, recante Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa; Legge 15 maggio 1997, n. 127 (Bassanini bis).