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Intellettuali o competenti?

Intellettuali
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Intellettuali o competenti?

In questi giorni ricorre il centenario di Leonardo Sciascia, ritenuto dai più, e talvolta abusando di tale appellativo, un “intellettuale impegnato”.

Ma cosa significa essere effettivamente un intellettuale?

L’enciclopedia Treccani in relazione a tale aggettivo lo definisce:

“Colto, amante degli studi e del sapere che ha il gusto del bello e dell’arte, o che si dedica attivamente alla produzione letteraria o artistica…Nell’uso contemporaneo ha spesso valore ironico o limitativo per indicare ostentazione di gusti, costumi raffinati o superiorità culturale e spirituale, non di rado solo immaginaria…”.

L’ultima proposizione citata è quella che più si addice al contesto post-moderno, in cui più che intellettuali, si è effettivamente “tuttologi”, termine utilizzato e riutilizzato da pseudo-intellettuali, a torto o a ragione, a chi disquisisce del più e del meno di una determinata materia o settore pur non avendo i mezzi o una certificazione specialistica.

Ma come si diventa intellettuali in una realtà bombardata di notizie, avvenimenti, etc…? Deve forse l’intellettuale commentarne solo alcuni o deve limitarsi essenzialmente a fare ciò solo ed esclusivamente al proprio settore e non turbare la già ferita coscienza collettiva?

Sciascia insieme ad altri, come ad esempio Norberto Bobbio, venivano definiti nel secondo dopoguerra “intellettuali impegnati” in contrapposizione al “semplice” intellettuale, che risulta per antonomasia altezzoso, distaccato, pieno di sé, che sfoggia la sua erudizione tradizionalista, disincantata e non competente alla risoluzione pratica e pacifica dei conflitti, delle crisi, un non-mediatore, ma super partes, la propria parte.

Egli, insieme ad altri, inaugurava la stagione degli intellettuali impegnati in Italia( in Francia infatti i promotori di tale “corrente” erano Sartre, Simone de Beauvoir ed in parte Albert Camus etc…) che alla sola attività da scrivania, ex cathedra, affiancavano l’attività civile, quell’attività per l’appunto impegnata negli affari sociali, intrisa di rapporti e relazioni umane, che  diventa talvolta   “corruptio optimi pessima”, vale a dire in una delle sue traduzioni “Ciò che era ottimo, una volta corrotto, è pessimo”( Gregorio Magno).

Ovviamente non che questi soggetti fossero scevri dalle critiche del popolo dei censori, ma cercavano comunque una sorta di mediazione tra il popolo (standardizzato) democratico e l’élites intellettuale, due poli che apparivano per loro natura apparentemente inconciliabili.

Fabrizio De Andrè a conferma di questa visione affermava: “Sciascia diceva che la canzone, per essere utile deve essere scritta da un uomo di cultura che sappia, però, esprimersi in maniera popolare”.

Molte persone riterranno per certi versi più facile essere un intellettuale a tuttotondo oggi, nell’era in cui basta ad esempio aprire Facebook, scrivere un post e “postarlo”, e se non ci si vuole fermare alla condivisione su un social network basta riportare lo stesso contenuto su una piattaforma diversa.

Ma quanto costa tutto ciò in termini di ricerca e studio in un ambiente che si connota per la facile reperibilità delle informazioni e che in un batter d’occhio tale informazione può passare dalla popolarità al dimenticatoio?

Essere intellettuali oggi significa anche essere competenti in svariati ambiti, qualità che da un lato in un dato spazio e in un dato arco temporale possono diventare un binomio inscindibile, dall’altro appaiono contrastanti.

L’intellettuale è colui che ricerca nell’attività dello spirito l’epistème (verità) e rifiuta la dóxa (opinione), risultando dunque come distaccato, privo di quella sensibilità e da quella appartenenza all’esperienza giudicata di grado inferiore, ma che al tempo stesso coltiva il gusto del bello, dell’arte.

Il competente invece è colui che è pienamente attaccato alla realtà materiale, che ricerca la verità in essa e per essa, che risulta dunque privo del gusto e del bello e predilige invece l’efficienza, la pronta-consegna di soluzioni immediate, adatte ed adattabili alla realtà.

Queste due visioni appaiono paradossalmente inconciliabili, ma legate al tempo stesso da un sottile filo comune, lo stare al mondo ricercando la conoscenza e il progresso, sia esso materiale o spirituale.

Dunque c’è ancora posto per gli intellettuali nel XXI secolo o si ha bisogno di soli competenti? Ed ancora devono essere essi pienamente allineati ai benpensanti del politicamente corretto o si da loro la possibilità di avere una licenza, come quella poetica, del politicamente scorretto? E se la risposta sarà affermativa, in che misura?

D’altronde chiunque può scegliere di essere un intellettuale nella vita di tutti i giorni con il giusto compromesso, sosteneva uno dei più grandi intellettuali italiano del ‘900, Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”:<<Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a se stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire; ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, di volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da essere pronti, secondo la necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato >>.