L’attuale evoluzione delle misure di tutela degli incapaci a seguito dell’introduzione dell’amministrazione di sostegno.
Il problema delle persone bisognose di tutela è sempre stato oggetto di ampie discussioni, sia dottrinali che giurisprudenziali, in relazione non solo alla casistica giuridicamente rilevante, ma soprattutto alle modalità con cui la legge si deve rapportare ad essa.
In sostanza, si è sempre dovuto affrontare un duplice problema, e cioè in primo luogo di definire i casi in cui un soggetto bisognoso, in quanto affetto da disturbi psichici o fisici, debba essere tutelato tramite un intervento legalizzato di soggetti terzi nominati da un tribunale, poi quello di creare degli istituti appositi che meglio si adattino alla molteplicità di casi pratici a cui l’esperienza può mettere di fronte.
Sino dagli albori del nostro Codice Civile, pertanto, sono stati previsti i due istituti dell’interdizione, e dell’inabilitazione, la cui differenza, come vedremo in seguito, è ravvisabile nella maggiore gravità del vitium da cui è affetto il soggetto disabile.
In questo contesto, oggi, si è inserita la Legge n. 6/2004, introduttiva dell’istituto del c.d. amministratore di sostegno, la quale ha la dichiarata finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. Come ha sottolineato la più attenta dottrina, infatti, la ratio di un siffatto intervento è sostanzialmente quella che ha ispirato le leggi europee che l’hanno preceduta, ossia introdurre uno strumento duttile e massimamente flessibile per far fronte alla varietà delle situazioni di debolezza e fragilità; in pratica, una sorta di vestito su misura tagliato per rispondere alle esigenze individuali, le più variegate possibili, di cura ed assistenza della persona e del patrimonio del bisognoso.
Tale regime di protezione, creato per comprimere al minimo diritti, poteri e facoltà della persona disabile, e tale da offrire tutti gli strumenti di assistenza o di sostituzione che possano occorrere di volta in volta per colmare i momenti più o meno lunghi di crisi, di inerzia, di inettitudine del disabile stesso, è strutturato in modo profondamente differente rispetto agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, originariamente previsti dal Codice del 1942 a protezione dei disabili ed i quali erano fondati esclusivamente sulla tecnica dell’incapacità legale, creativa di un vero e proprio status, e sulla nomina di un tutore; la persona, perciò, veniva conseguentemente esclusa dal traffico giuridico e sostituita dal rappresentante legale.
La prospettiva, rispetto al passato, è perciò completamente rovesciata in quanto il soggetto in difficoltà non viene protetto con una limitazione frutto di una previsione astratta e generica, cioè l’incapacità legale, ma valorizzando direttamente la sua personalità e le manifestazioni di essa (“…con la minore limitazione possibile della capacità di agire…”; articolo 1 della Legge n. 6/2004) che possono esplicarsi direttamente, anche se con alcune parziali limitazioni di volta in volta specificamente individuate, nonché conservando ad esso la capacità di compiere quegli atti che “non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore di sostegno” (articolo 409 del Codice Civile). Con il provvedimento di nomina, infatti, si individua caso per caso l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, come previsto dall’articolo 405, comma 5 n. 3 del Codice Civile, con la precisazione che la scelta di quest’ultimo deve avvenire, ai sensi dall’articolo 408, comma 1, del Codice Civile, con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona tutelata (norme queste che vanno lette anche alla luce della disposizione transitoria posta all’articolo 44, ultima parte, così come novellato dall’articolo 12 della Legge n. 6/2004, che assegna al Giudice tutelare il potere-dovere di impartire le “istruzioni inerenti agli interessi morali e patrimoniali del minore o del beneficiario”).
Secondo la Suprema Corte, l’amministrazione di sostegno avrebbe la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione (non soppressi, ma solo modificati attraverso la novellazione degli articoli 414 e 417 del Codice Civile). Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno andrebbe individuata con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilita di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (v. Cass. Civ., sez. I, 26 ottobre 2011, n. 22332; Cass. Civ., sez. I, 22 aprile 2009, n. 9628).
Apparterrebbe dunque all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie.
Fatte queste premesse di carattere generale, occorre ora analizzare l’evoluzione di tale istituto in relazione a quelli preesistenti quali la tutela degli interdetti (articolo 414 del Codice Civile) e la curatela degli inabilitati (articolo 415 del Codice Civile), onde meglio comprendere gli spazi lasciati a questi ultimi successivamente all’introduzione dell’amministrazione di sostegno.
2. L’inabilitazione: un istituto ormai in disuso.
L’articolo 415 del Codice Civile prevede che per soggetti, in situazioni di incapacità relativamente meno gravi rispetto a quanto previsto dall’articolo 414 del Codice Civile, possa essere nominato un c.d. curatore che, per determinate attività, possa intervenire onde coadiuvare la persona inabilitata, in particolar modo dal punto di vista patrimoniale, in quanto sua funzione è appunto quella di assisterla e non di rappresentarla.
I casi in cui è prevista tale forma di tutela sono poi espressamente indicati dal medesimo articolo che li circoscrive al vitium mentale non tanto grave da far luogo all’interdizione (articolo 414, comma 1, del Codice Civile), alla prodigalità o all’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti tali da esporre sé e la propria famiglia a gravi pregiudizi economici (articolo 414, comma 2, del Codice Civile), o, infine, ai casi di cecità e sordomutismo dalla nascita, in carenza di opportuna educazione (articolo 414, comma 3, del Codice Civile ).
Il problema fondamentale, però, è quello di capire se nel nostro ordinamento siffatta forma di protezione degli incapaci mantenga ancora degli spazi d’azione nonostante l’introduzione appunto dell’amministrazione di sostegno.
Per dare una risposta sensata a tale quesito, è opportuno analizzare alcune pronunce tanto di merito quanto di legittimità proprio per capire, in casi concreti, come si siano orientati i giudici che si sono trovati a decidere su determinate situazione così dette di confine.
Per esempio, recentemente, il Tribunale di Varese, ha concesso l’amministrazione di sostegno ad una donna poco più che quarantenne in quanto, secondo le risultanze, sarebbe stata affetta dalla sindrome da c.d. “shopping compulsivo” (Trib. Varese, decreto del 3 ottobre 2012); in base a quanto emerso dall’istruttoria, documentale e testimoniale, la donna avrebbe rassegnato le proprie dimissioni per incassare il trattamento di fine rapporto ed investendolo in abbigliamento, oggetti futili e comunque beni non necessari al reale bisogno e alle esigenze della propria vita, contraendo debiti, mediante società finanziarie, per circa cinquanta mila euro e manifestando così una totale incapacità di gestire il denaro.
Altro caso, per esempio, potrebbe essere quello su cui si basa la meno recente pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia, il quale perveniva alla nomina di un amministratore di sostegno, ritenendo tale istituto il più idoneo onde garantire l’assistenza della persona, per una ragazza affetta da “lieve ritardo cognitivo” e “fragilità psicologica di fondo” che la rendevano parzialmente incapace di provvedere ai propri interessi (v. Trib. Reggio Emilia, sez. II, 25 maggio 2006; v. anche Trib. Modena, 22 luglio 2008 e Trib. Modena, 20 febbraio 2008). Quest’ultima, pur frequenta regolarmente la scuola superiore ed essendo impegnata nel volontariato, non veniva considerata pienamente in grado di provvedere ai propri interessi, necessitando così di una figura che la potesse assistere negli atti di natura patrimoniale e, soprattutto, potesse costituire per lei una guida, in grado sostenerla nel processo di maturazione ed avviarla al mondo del lavoro.
Non solo, ma l’amministrazione di sostegno è stata pure disposta a favore di soggetti affetti da Alzheimer, in quanto ritenuto un mezzo più idoneo ad un progetto di vita teso a sostenere i loro bisogni (v. Trib. Trani, sez. dist. di Ruvo di Puglia, 24 aprile 2010; Trib. Bari, sez. dist. Rutigliano, 6 maggio 2010; Trib. Foggia, 22 luglio 2010), nonché ad anziani fisicamente gravato da infermità fisiche ma in pieno possesso delle facoltà mentali (v. Trb. Varese, 18 giugno 2010).
Infine, si veda anche quanto detto dalla Suprema Corte nel caso di un soggetto affetto dalla sindrome di Down (v. Cass. Civ., sez. I, 26 ottobre 2011, n. 22332), secondo cui, oltre a quanto già affermato sopra, soltanto nell’ipotesi in cui non si ravvisino interventi di sostegno adeguati a rispondere alle esigenze di protezione il giudice potrà ricorrere alle più invasive misure dell’inabilitazione ovvero dell’interdizione, alla quale si ricorre come extrema ratio.
Fatti questi esempi, devono ora farsi alcune considerazioni.
Nonostante la Suprema Corte ritenga che le misure di tutela dell’interdizione e dell’inabilitazione siano più invasive rispetto a quella dell’amministrazione di sostegno, e che quindi esse non sarebbero state implicitamente abrogate da quest’ultima, in realtà sembra proprio che le cose stiano diversamente.
Per esempio, per quale motivo sarebbe stata disposta l’amministrazione di sostegno per una persona affetta da sindrome da shopping compulsivo, come nella pronuncia del Tribunale di Varese, quando l’articolo 415 del Codice Civile prevede espressamente l’inabilitazione per prodigalità? E ancora, perché tale istituto sarebbe da ritenere quello più adeguato onde tutelare soggetti con lievi ritardi cognitivi o affetti dal morbo di Alzheimer o dalla sindrome di Down quando l’inabilitazione è proprio prevista per casi in cui vi è un vitium mentale non tanto grave da far luogo all’interdizione?
Secondo quanto può leggersi dalle motivazioni addotte dalla Suprema Corte, la differenza tra tali istituti non starebbe tanto nel grado di infermità da cui è affetto il soggetto poi sottoposto a tutela, quanto nella maggiore flessibilità dello strumento dell’amministrazione di sostegno nell’adeguamento delle misure alle effettive necessità del soggetto.
In realtà, tale principio non porta che ad un’unica ed imprescindibile conclusione, e cioè che l’istituto dell’inabilitazione sia stato appunto soppresso tacitamente da quello dell’amministrazione di sostegno.
Infatti, non solo quest’ultimo sarebbe utilizzabile negli stessi casi, intesi come situazioni di infermità concrete, previsti anche dall’articolo 415 del Codice Civile, ma sarebbe addirittura migliore visto che meglio si adatta alle molteplici situazione a cui la realtà ci pone di fronte; in sostanza, sarebbe uno strumento che non solo avrebbe un’estensione maggiore rispetto ai confini delimitati dall’inabilitazione, ma sarebbe meglio adattabile ai casi concreti.
Ad ulteriore conferma di quanto detto sino ad ora, possono leggersi delle ulteriori pronunce, come, per esempio, quella del Tribunale di Cagliari nella quale si ammette la possibilità che l’amministratore di sostegno proponga il ricorso per la separazione personale dell’amministrato riuscendo ad evitare il lungo iter della nomina prima di un tutore, a seguito del giudizio di interdizione, e poi di un curatore speciale necessario (v. Trib. Cagliari, 15 giugno 2010).
Ed ancora, si veda quanto detto dal Tribunale di Reggio Emilia, secondo cui sarebbe possibile la nomina di un amministratore di sostegno per il giovane affetto da grave perturbamento psichico in quanto l’istituto in questione sarebbe tale da intaccare il meno possibile la sfera di autonomia e di capacità giuridica del soggetto debole (v. Trib. Reggio Emilia, sez. III, 30 novembre 2005).
Addirittura, il Tribunale di Varese è giunto ad affermare che tale misura sarebbe possibile anche nei confronti di un soggetto che, a prescindere da una condizione patologica, non sarebbe in grado di porre in essere, nel proprio interesse, delle scelte di carattere essenziale per la sua vita quotidiana (v. Trib. Varese, 26 maggio 2010), e quindi anche nei confronti di una persona non propriamente in condizioni di inferiorità psichica.
Tutto ciò non fa che avvalorare la tesi secondo cui l’istituto dell’amministrazione di sostegno abbia abrogato in toto quello dell’inabilitazione, essendo proponibile non solo negli stessi casi previsti dall’articolo 415 del Codice Civile, ma anche ad una casistica ben più ampia e, soprattutto, meglio adattandosi lo stesso alle situazioni concrete, predisponendo una tutela mirata e personalizzata del soggetto bisognoso di protezione.
3. L’interdizione: un istituto ormai residuale.
Dopo aver analizzato l’attuale sviluppo dell’istituto dell’inabilitazione, bisogna ora rivolgere l’attenzione a quelli che sono stati gli effetti della Legge n. 6/2004 sull’interdizione.
In particolare, l’articolo 414 del Codice Civile dice che colui il quale si trovi affetto da abituale infermità di mente può essere dichiarato, con provvedimento del giudice, incapace di provvedere ai propri interessi; in sostanza, il nostro legislatore ha previsto che, in casi in cui sussista non solo un grave vitium, cioè un vizio di mente abituale, ma anche un’inettitudine ad attendere ad i propri interessi, allora il soggetto bisognoso di tutela può essere interdetto e, in conseguenza di ciò, affiancato da un tutore che non solo lo rappresenterà dal punto di vista legale, ma potrà anche prendersi cura di lui dal punto di vista personale (tutor datur personae).
Tralasciando altre considerazioni generali su tale istituto, bisogna ora focalizzare l’attenzione sull’attuale sviluppo giurisprudenziale attinente ad esso onde meglio comprendere gli effetti prodotti dall’introduzione dell’amministrazione di sostegno e, soprattutto, i limiti di applicazione di entrambi.
Come già anticipato, in base a quanto previsto dal più recente orientamento della Suprema Corte, per individuare l’ambito di applicazione della amministrazione di sostegno e dell’interdizione, deve tenersi conto, in via prioritaria, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario. In sostanza, se essa corrisponde ad un’attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto, vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione), e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti, allora l’istituto applicabile sarà l’amministrazione di sostegno; mentre si potrà ricorrere all’interdizione quando si tratta di gestire un’attività di una certa complessità, da svolgere in una molteplicità di direzioni, ovvero nei casi in cui appaia necessario impedire al soggetto da tutelare di compiere atti pregiudizievoli per sé, eventualmente anche in considerazione della permanenza di un minimum di vita di relazione che porti detto soggetto ad avere contatti con l’esterno (v. Cass. Civ., sez. I, 26 ottobre 2011, n. 22332; v. anche Cort. Cost. 18 febbraio 2010, n. 51).
In particolare, l’introduzione della Legge n. 6/2004 ha condotto a configurare l’interdizione come un istituto di carattere residuale, perseguendo l’obbiettivo della minor limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente. Ne discende la necessità, prima di pronunziare l’interdizione, di valutare l’eventuale conformità dell’amministrazione di sostegno alle esigenze del destinatario, alla stregua della peculiare flessibilità del nuovo istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa, nonché della complessiva condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie; di contro, non costituisce condizione necessaria all’applicazione di tale misura la circostanza che il beneficiario abbia chiesto, o quantomeno accettato, il sostegno ovvero abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare (v. Cass. Civ., sez. I, 1 marzo 2010, n. 4866).
Da quanto detto emerge chiaramente che l’ambito dell’interdizione rimane limitato, attualmente, solo ai casi di più grave situazione di bisogno, rimanendo l’amministrazione di sostegno una misura preferibile in quanto meno limitativa e, soprattutto, meglio adattabile al soggetto bisognoso.
Anche in questo caso, però, le pronunce dei Tribunali di merito ci possono dare una mano, da un punto di vista pratico, per meglio comprendere l’esatta linea di confine tra questi due istituti anche se, come vedremo, il problema non è di facile soluzione.
Al riguardo, il Tribunale di Bologna è giunto ad affermare che per verificare se sia da applicare la misura di protezione costituita dall’interdizione o, piuttosto, quella della amministrazione di sostegno, non occorre avere riguardo alla gravità o alla natura della infermità psichica del soggetto tutelando. L’articolo 404 del Codice Civile, infatti, prevedrebbe la nomina dell’amministratore di sostegno a favore di “persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”, il che significa che l’impossibilità di provvedere ai propri interessi può essere anche totale e definitiva; l’interdizione, invece, può essere applicata solo se necessaria ad assicurare un’adeguata protezione della persona. Il giudizio di adeguatezza implica, pertanto, una relazione tra misura di protezione e interessi da tutelare nonché bisogni da soddisfare (v. Trib. Bologna, sez. I, 31 gennaio 2008). Nella specie, il Tribunale riteneva di dovere fare applicazione dell’amministrazione di sostegno, rigettando la domanda di interdizione e trasmettendo gli atti al giudice tutelare, poiché la convenuta, per le cure già apprestate dai familiari e dai medici, per le limitazioni gravi di cui soffriva e per la vita che era costretta a condurre, non era ragionevolmente esposta al pericolo che altri potessero approfittare della sua condizione di ampiamente ridotta autonomia; inoltre, godeva di protezione sia sul piano dell’assistenza materiale e sanitaria, tanto che l’interdizione non avrebbe assicurato nulla di più rispetto alla misura meno invasiva dell’amministrazione di sostegno.
Allo stesso modo, il Tribunale di Milano ha disposto sempre la misura dell’amministrazione di sostegno, respingendo la richiesta di interdizione, per un caso molto simile a quello di cui sopra (v. Trib. Milano, sez. IX, 4 febbraio 2008, n. 1794).
Di non scarso interesse è poi la pronuncia del Tribunale di Modena, secondo cui qualora un soggetto appaia, oltre ogni ragionevole dubbio, caratterizzato da un’assoluta, frequente, consolidata incapacità di sottrarsi agli stimoli depauperativi esterni provenienti da persone cui il soggetto è legato affettivamente, nonché da una notevole suggestionabilità derivante da una personalità fragile e dipendente dall’altrui volontà, il soggetto così psichicamente menomato va protetto sottoponendolo all’amministrazione di sostegno che, per la sua duttile versatilità appare idonea a tutelare il disabile con riferimento esclusivo alla specifica causa di disabilità, incidendo, al tempo stesso, sulla sua capacità di agire solo entro i limiti dello stretto necessario (v. Trib. Modena, 20 febbraio 2008).
Di grande rilievo, anche perché capace di cogliere l’essenza della riforma apportata dalla Legge n. 6/2004, è sempre una pronuncia del Tribunale di Modena riguardante la richiesta di revoca dell’inabilitazione e la trasmissione degli atti al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno nonostante il progressivo aggravamento delle condizioni di salute dell’inabilitato. In particolare, nella sentenza si legge che l’interdizione non deve oggi essere pronunciata nei confronti dell’infermo di mente, come disponeva l’abrogato testo dell’articolo 414 del Codice Civile, ma soltanto in presenza dell’ineludibile presupposto che il giudice ne ravvisi l’indispensabilità per assicurare all’interessato una adeguata protezione (v. Trib. Modena, sez. II, 27 marzo 2008). Da ciò conseguirebbe la residualità degli arcaici istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, mantenuti ragionevolmente in vita dal legislatore per garantire il più ampio spettro delle possibili tutele con una sorte di delega del potere legislativo a quello giudiziario per l’individuazione di situazioni comportanti, eccezionalmente e nell’amplissima varietà di casi concreti, l’adozione dei desueti strumenti per meglio proteggere la persona.
La stessa Corte d’Appello di Catania, allo stesso modo, ha affermato che ad una attività minima, semplice e poco rischiosa corrisponderà senz’altro la necessità di applicare l’istituto dell’amministrazione di sostegno mentre, laddove vi sia una notevole complessità operativa con conseguente necessità di accorta protezione contro seri e consistenti pregiudizi del soggetto, potrà richiedersi la misura più invasiva dell’interdizione (v. Cort. App. Catania, 1 luglio 2008, n. 1296). In sostanza, l’istituto dell’amministratore di sostegno sarebbe applicabile anche a chi sia affetto da infermità o menomazione totalmente incapacitante o abituale, come a chi soffre di una infermità transitoria o lieve; nel contempo, l’innovata lettera dell’articolo 427 del Codice Civile avrebbe fornito pure l’interdizione e l’inabilitazione di una maggiore flessibilità in quanto è previsto che l’interdetto può essere autorizzato a compiere taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza l’assistenza del curatore.
Seguendo le linee fino ad ora tracciate, per esempio, il Tribunale di Modena ha disposto l’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, piuttosto della più restrittiva interdizione, per una donna psichicamente minorata perché affetta da idrocefalo congenito, da lieve ritardo mentale e da crisi epilettiche ormai generalizzate, ma comunque bene orientata nel tempo e nello spazio nonché capace di svolgere molteplici attività dirette alla cura della propria persona ed al rapporto con terzi (v. Trib. Modena, 22 luglio 2008).
Di contro, è stata ritenuta congrua la misura dell’interdizione per un soggetto in quanto affetto da una così grave forma di Alzheimer da comprometterne persino le capacità di fornire risposte alle domande che gli venivano rivolte, essendo una malattia mentale in forma talmente grave da compromettere definitivamente la capacità di discernimento del soggetto (v. Trib. Potenza, 1 aprile 2009, n. 263), per soggetti affetto da tetraparesi spastica e conseguente grave deficit psichico (v. Trib. Potenza, 9 luglio 2009, n. 512) o da psicosi cronica con deterioramento cognitivo (v. Trib. Novara, 29 novembre 2010, n. 1122).
Da quanto detto sino ad ora, sembra emergere un quadro non molto chiaro della situazione, ma che sicuramente ci può far dire che non esistono precisi confini di demarcazione tra i due istituti.
Prima di tutto bisogna dire, e ciò sarebbe confermato anche dal dato letterale dell’articolo 404 del Codice Civile, che non è la gravità del vitium ad essere determinante onde dirimere la controversia sul’applicabilità dei due istituti.
Infatti, mentre in passato la differenza tra l’interdizione e l’inabilitazione, almeno per quanto riguarda i casi non specifici (prodigalità, sordomutismo, cecità, abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti), risiedeva appunto nella maggiore o minore gravità dello stato patologico, ora la situazione è ben diversa non risultando esso determinante onde decidere se è più opportuna l’applicazione dell’amministrazione di sostegno o della più restrittiva interdizione, nonostante quanto sembri affermare anche un certo orientamento giurisprudenziale di merito (v. Trib. Potenza, 1 aprile 2009, n. 263; Trib. Potenza, 9 luglio 2009, n. 512; Trib. Novara, 29 novembre 2010, n. 1122).
Di contro, elemento focale dal quale desumere l’effettivo discrimen tra le due fattispecie è proprio quello del diverso grado di protezione da assicurare al soggetto disabile e da tutelare.
In sostanza, laddove la disabilità sia talmente grave da rendere necessario un intervento costante di un soggetto nella vita del disabile, tanto da un punto di vista personale quanto materiale, o qualora sia indispensabile fornire una protezione da elementi esterni tale da escludere in maniera quasi totale l’intervento dello stesso in quanto con alta probabilità dannoso ad esso, allora si potrà ricorrere all’istituto residuale dell’interdizione.
Di contro, in tutti gli altri casi, l’istituto dell’amministrazione di sostegno rimane quello più appropriato in quanto più idoneo a permettere al soggetto bisognoso di essere coadiuvato nelle proprie attività senza perdere completamente la propria autonomia.
4) Una sintesi di quanto detto: gli attuali mezzi di tutela dei soggetti “bisognosi”.
Dopo aver analizzato gli istituti di tutela dei soggetti bisognosi, nonché l’attuale atteggiamento dei tribunali nei loro riguardi, bisogna ora cercare di fare una rapida sintesi di quanto detto onde tentare di delimitare, per quanto possibile, gli spazi applicativi degli stessi.
Prima di tutto, come già affermato, l’istituto dell’inabilitazione sembra oggi in disuso, essendosi sovrapposto ad esso quello più duttile e flessibile dell’amministrazione di sostegno.
Non solo, infatti, nella prassi applicativa sembra essere stato preferito il secondo in casi specifici in cui, a rigor di logica, avrebbe dovuto applicarsi l’inabilitazione del soggetto disabile, ma non si comprende per quale motivo dovrebbe applicarsi un istituto più rigido e meno adattabile al caso concreto quando la legge ne predispone un altro, cioè l’amministrazione di sostegno, atto a meglio valorizzare la residua capacità di chi è bisognoso di tutela.
Tutto ciò, come detto prima, non fa che avvalorare la tesi secondo cui l’istituto dell’amministrazione di sostegno abbia abrogato in toto quello dell’inabilitazione, non residuando per esso alcun margine di applicazione.
Di contro, sembra che l’istituto dell’interdizione non sia completamente venuto meno, rimanendo, attualmente, un piccolo ma fondamentale spazio di applicabilità.
Come già detto, però, l’effettiva differenza tra le due fattispecie è proprio quella del diverso grado di protezione da assicurare al soggetto disabile e da tutelare, non essendo fondamentale la maggiore o minore gravità dello stato patologico, come evidenziato dalle varie pronunce al riguardo. Pertanto, si deve promuovere l’interdizione solo quando per la protezione della persona bisognosa e priva di ogni autonomia, è necessaria una sua sostituzione tendenzialmente generale e permanente con un tutore, cioè nelle situazioni più sfortunate e disperate, di particolare gravità e di sicura irrecuperabilità, anche in questo caso dovendo valutare il giudice la possibilità che l’interdetto eserciti personalmente un qualche residuo diritto compatibile con il suo stato.
In tali ipotesi rientra, per esempio, il caso dell’infermo di mente che non possa, in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, perché nell’amministrazione di sostegno deve rimanere comunque tale spazio di libertà per l’amministrato, come si può leggere nell’articolo 409, comma 2, del Codice Civile.
Tutto ciò, però, vale soprattutto da un punto di vista teorico dato che, poi, nella pratica la situazione si complica ulteriormente visto che, a parte le differenze sino ad ora rilevate, non può negarsi l’assoluta preminenza della discrezionalità dell’organo giudicante nella determinazione della misura da applicare.
In sostanza, starà proprio al giudice, dopo un’attenta analisi dei fatti concreti, valutare la misura di protezione che meglio si addice al soggetto bisognoso cercando, per quanto possibile, di garantire ad esso il più ampio spazio di autonomia possibile, laddove ovviamente le circostanze lo permettano.
5) La tutela dei soggetti minorenni e l’amministrazione di sostegno.
Sino ad ora si è parlato della tutela dei soggetti privi in tutto, o solo in parte, della propria autonomia ma non si è fatto alcun cenno nei confronti dei soggetti minorenni.
Al riguardo, il nostro codice ha previsto, parallelamente alle norme sull’interdizione e sull’inabilitazione del soggetto incapace, la possibilità di nomina di un tutore per i minori privi di qualcuno che possa esercitare su di essi la potestà genitoriale, come previsto dagli articoli 343 e ss. del Codice Civile, o del curatore per i minori emancipati, di cui agli articoli 390 e ss. del Codice Civile.
La domanda da porsi, allora, è se l’introduzione dell’amministrazione di sostegno abbia in qualche modo inciso su questa disciplina.
Secondo il dato letterale, l’istituto dell’amministrazione di sostegno sarebbe avulso dalla tutela dei soggetti minori.
Infatti, in ambito di tutela dei minori, il Codice Civile è molto chiaro a definire quali mezzi di protezione la tutela (articoli 343 e ss. del Codice Civile), nei casi di assenza di genitori adeguati ad esercitare le funzioni genitoriali, e la curatela (articoli 334, comma 2, e 390 e ss. del Codice Civile), che è utilizzata per assistere il minore per il compimento di determinati atti, di solito di tipo patrimoniale, in assenza di valide figure genitoriali.
Non solo, ma l’articolo 404 del Codice Civile è chiaro nell’affermare che l’amministrazione di sostegno è applicabile alla persona “che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”, escludendo implicitamente la riconducibilità di tale disciplina al minore non infermo.
Tra l’altro, l’amministrazione di sostegno è stata appunto introdotta al Capo I, Titolo XII del Libro I del Codice Civile, cioè proprio anteriormente all’interdizione ed all’inabilitazione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia, mentre nessuna modifica è stata apportata alla disciplina appositamente stabilita per i minorenni.
In sostanza, non si può che negare l’impossibilità di nomina di un amministratori di sostegno nei confronti di un minorenne anche se, in realtà, ci sono delle eccezioni.
In primo luogo, quando si presume che l’incapacità del minore possa protrarsi anche nella maggiore età, può essere chiesta, nell’ultimo anno di minore età, la nomina di un amministratore di sostegno che avrà effetto al compimento del diciottesimo anno, come previsto dall’articolo 405, comma 2, del Codice Civile; in sostanza, per il minore incapace verrà prima nominato un tutore che, in seguito e laddove le condizioni lo permettano, verrà sostituito da un amministratore di sostegno, onde meglio permettere lo sviluppo della sua personalità e l’esercizio delle sue capacità.
Dell’amministrazione di sostegno, e ciò è desumibile a contrario sempre dall’articolo 405, comma 2, del Codice Civile, potrà usufruire anche il minore emancipato, cioè autorizzato a contrarre matrimonio al compimento del sedicesimo anno di età. In questo caso, il minore, dopo l’emancipazione che può avvenire in seguito all’autorizzazione a contrarre matrimonio ed al compimento dei sedici anni, viene considerato proprio come una persona maggiorenne con dei limiti alla propria capacità di agire, tanto che per esso viene nominato un curatore; ciò non esclude, però, che il caso specifico necessiti di una tutela personalizzata più adeguata ad esse, garantita ovviamente dall’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Si potrebbe obiettare, nel caso di specie, che negli articoli 390 e ss. del Codice Civile non è stata fatta alcuna menzione alla possibilità di nomina di un amministratore di sostegno in sostituzione di un curatore per il minore emancipato, ma a questo dovrebbe sopperire appunto il rinvio implicito dell’articolo 405, comma 2, del Codice Civile.
Unico caso sino ad ora non specificamente analizzato rimarrebbe la questione della tutela dei minorenni non emancipati ma, comunque, fisicamente e psichicamente menomati. In tali situazioni, ovviamente, saranno i genitori a provvedere alla tutela ed alla cura del minore e, in loro mancanza, potrà essere nominato un tutore ai sensi degli articoli 343 e ss. del Codice Civile.
6) Conclusioni.
Dopo questa breve digressione sulle misure di tutela degli incapaci, bisogna ora trarre alcune conclusioni e cercare, per quanto possibile, di capire se il sistema attuale possa essere oggetto di una semplificazione onde evitare ulteriori discussioni sul punto.
Delle tre figure del tutore, del curatore e dell’amministratore di sostegno, a quanto pare, sembra che solo due di esse, attualmente, mantengano una funzione.
Il tutore, infatti, potrà essere nominato non solo in caso di la disabilità talmente grave da rendere necessario un intervento costante di un soggetto nella vita del disabile, o qualora sia indispensabile fornire una protezione da elementi esterni tale da escludere in maniera quasi totale l’intervento dello stesso in quanto con alta probabilità dannoso ad esso (articoli 414 e ss. del Codice Civile), ma anche, al di fuori dei casi di interdizione, per il minore nei casi di assenza di genitori adeguati ad esercitare le funzioni genitoriali (articoli 343 e ss. del Codice Civile).
Di contro, in tutti gli altri casi ed onde ottenere misure di protezione più adeguate al caso concreto, sarà preferibile applicare l’istituto dell’amministrazione di sostegno (articoli 404 e ss. del Codice Civile).
Per quanto riguarda la figura del curatore, attualmente, sembra che l’unica possibile funzione sia individuabile nel caso del minore emancipato anche se, come anticipato, nulla esclude che al posto di questi venga comunque nominato un amministratore di sostegno, lasciando più ampi ed opportuni spazi di autonomia per colui che è un uomo in fieri.
Detto ciò, ci si deve chiedere se, arrivati a questo punto, non sia opportuna una riforma al riguardo.
In particolare, a detta dello scrivente sarebbe preferibile un’abrogazione della figura del curatore, anche se implicitamente non più utilizzata, in quanto attualmente poco utile ed atta probabilmente solo a creare confusione agli operatori del diritto poco avvezzi alla materia.
Di contro, a differenza di quanto affermato da parte della dottrina, è auspicabile mantenere la figura del tutore, riducendone, come sino ad ora è avvenuto, l’applicazione a casi residuali e di estrema necessità, dove l’intervento di un amministratore di sostegno sia comunque riduttivo per la cura del soggetto disabile.
Ovviamente, una precisa e netta linea di demarcazione tra i due istituti, visto la non prevedibilità delle situazioni che la materia può affrontare, non è possibile, ma starà proprio al giudice determinare il mezzo più adeguato al caso concreto.
In sostanza, ciò che ora serve non è sicuramente una modifica dell’attuale sistema, ma una semplificazione dello stesso fatta attraverso la recisione di quelli che ormai possono solo definirsi come rami secchi del precedente regime. 1. In generale: l’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Il problema delle persone bisognose di tutela è sempre stato oggetto di ampie discussioni, sia dottrinali che giurisprudenziali, in relazione non solo alla casistica giuridicamente rilevante, ma soprattutto alle modalità con cui la legge si deve rapportare ad essa.
In sostanza, si è sempre dovuto affrontare un duplice problema, e cioè in primo luogo di definire i casi in cui un soggetto bisognoso, in quanto affetto da disturbi psichici o fisici, debba essere tutelato tramite un intervento legalizzato di soggetti terzi nominati da un tribunale, poi quello di creare degli istituti appositi che meglio si adattino alla molteplicità di casi pratici a cui l’esperienza può mettere di fronte.
Sino dagli albori del nostro Codice Civile, pertanto, sono stati previsti i due istituti dell’interdizione, e dell’inabilitazione, la cui differenza, come vedremo in seguito, è ravvisabile nella maggiore gravità del vitium da cui è affetto il soggetto disabile.
In questo contesto, oggi, si è inserita la Legge n. 6/2004, introduttiva dell’istituto del c.d. amministratore di sostegno, la quale ha la dichiarata finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. Come ha sottolineato la più attenta dottrina, infatti, la ratio di un siffatto intervento è sostanzialmente quella che ha ispirato le leggi europee che l’hanno preceduta, ossia introdurre uno strumento duttile e massimamente flessibile per far fronte alla varietà delle situazioni di debolezza e fragilità; in pratica, una sorta di vestito su misura tagliato per rispondere alle esigenze individuali, le più variegate possibili, di cura ed assistenza della persona e del patrimonio del bisognoso.
Tale regime di protezione, creato per comprimere al minimo diritti, poteri e facoltà della persona disabile, e tale da offrire tutti gli strumenti di assistenza o di sostituzione che possano occorrere di volta in volta per colmare i momenti più o meno lunghi di crisi, di inerzia, di inettitudine del disabile stesso, è strutturato in modo profondamente differente rispetto agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, originariamente previsti dal Codice del 1942 a protezione dei disabili ed i quali erano fondati esclusivamente sulla tecnica dell’incapacità legale, creativa di un vero e proprio status, e sulla nomina di un tutore; la persona, perciò, veniva conseguentemente esclusa dal traffico giuridico e sostituita dal rappresentante legale.
La prospettiva, rispetto al passato, è perciò completamente rovesciata in quanto il soggetto in difficoltà non viene protetto con una limitazione frutto di una previsione astratta e generica, cioè l’incapacità legale, ma valorizzando direttamente la sua personalità e le manifestazioni di essa (“…con la minore limitazione possibile della capacità di agire…”; articolo 1 della Legge n. 6/2004) che possono esplicarsi direttamente, anche se con alcune parziali limitazioni di volta in volta specificamente individuate, nonché conservando ad esso la capacità di compiere quegli atti che “non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore di sostegno” (articolo 409 del Codice Civile). Con il provvedimento di nomina, infatti, si individua caso per caso l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, come previsto dall’articolo 405, comma 5 n. 3 del Codice Civile, con la precisazione che la scelta di quest’ultimo deve avvenire, ai sensi dall’articolo 408, comma 1, del Codice Civile, con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona tutelata (norme queste che vanno lette anche alla luce della disposizione transitoria posta all’articolo 44, ultima parte, così come novellato dall’articolo 12 della Legge n. 6/2004, che assegna al Giudice tutelare il potere-dovere di impartire le “istruzioni inerenti agli interessi morali e patrimoniali del minore o del beneficiario”).
Secondo la Suprema Corte, l’amministrazione di sostegno avrebbe la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione (non soppressi, ma solo modificati attraverso la novellazione degli articoli 414 e 417 del Codice Civile). Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno andrebbe individuata con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilita di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (v. Cass. Civ., sez. I, 26 ottobre 2011, n. 22332; Cass. Civ., sez. I, 22 aprile 2009, n. 9628).
Apparterrebbe dunque all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie.
Fatte queste premesse di carattere generale, occorre ora analizzare l’evoluzione di tale istituto in relazione a quelli preesistenti quali la tutela degli interdetti (articolo 414 del Codice Civile) e la curatela degli inabilitati (articolo 415 del Codice Civile), onde meglio comprendere gli spazi lasciati a questi ultimi successivamente all’introduzione dell’amministrazione di sostegno.
2. L’inabilitazione: un istituto ormai in disuso.
L’articolo 415 del Codice Civile prevede che per soggetti, in situazioni di incapacità relativamente meno gravi rispetto a quanto previsto dall’articolo 414 del Codice Civile, possa essere nominato un c.d. curatore che, per determinate attività, possa intervenire onde coadiuvare la persona inabilitata, in particolar modo dal punto di vista patrimoniale, in quanto sua funzione è appunto quella di assisterla e non di rappresentarla.
I casi in cui è prevista tale forma di tutela sono poi espressamente indicati dal medesimo articolo che li circoscrive al vitium mentale non tanto grave da far luogo all’interdizione (articolo 414, comma 1, del Codice Civile), alla prodigalità o all’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti tali da esporre sé e la propria famiglia a gravi pregiudizi economici (articolo 414, comma 2, del Codice Civile), o, infine, ai casi di cecità e sordomutismo dalla nascita, in carenza di opportuna educazione (articolo 414, comma 3, del Codice Civile ).
Il problema fondamentale, però, è quello di capire se nel nostro ordinamento siffatta forma di protezione degli incapaci mantenga ancora degli spazi d’azione nonostante l’introduzione appunto dell’amministrazione di sostegno.
Per dare una risposta sensata a tale quesito, è opportuno analizzare alcune pronunce tanto di merito quanto di legittimità proprio per capire, in casi concreti, come si siano orientati i giudici che si sono trovati a decidere su determinate situazione così dette di confine.
Per esempio, recentemente, il Tribunale di Varese, ha concesso l’amministrazione di sostegno ad una donna poco più che quarantenne in quanto, secondo le risultanze, sarebbe stata affetta dalla sindrome da c.d. “shopping compulsivo” (Trib. Varese, decreto del 3 ottobre 2012); in base a quanto emerso dall’istruttoria, documentale e testimoniale, la donna avrebbe rassegnato le proprie dimissioni per incassare il trattamento di fine rapporto ed investendolo in abbigliamento, oggetti futili e comunque beni non necessari al reale bisogno e alle esigenze della propria vita, contraendo debiti, mediante società finanziarie, per circa cinquanta mila euro e manifestando così una totale incapacità di gestire il denaro.
Altro caso, per esempio, potrebbe essere quello su cui si basa la meno recente pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia, il quale perveniva alla nomina di un amministratore di sostegno, ritenendo tale istituto il più idoneo onde garantire l’assistenza della persona, per una ragazza affetta da “lieve ritardo cognitivo” e “fragilità psicologica di fondo” che la rendevano parzialmente incapace di provvedere ai propri interessi (v. Trib. Reggio Emilia, sez. II, 25 maggio 2006; v. anche Trib. Modena, 22 luglio 2008 e Trib. Modena, 20 febbraio 2008). Quest’ultima, pur frequenta regolarmente la scuola superiore ed essendo impegnata nel volontariato, non veniva considerata pienamente in grado di provvedere ai propri interessi, necessitando così di una figura che la potesse assistere negli atti di natura patrimoniale e, soprattutto, potesse costituire per lei una guida, in grado sostenerla nel processo di maturazione ed avviarla al mondo del lavoro.
Non solo, ma l’amministrazione di sostegno è stata pure disposta a favore di soggetti affetti da Alzheimer, in quanto ritenuto un mezzo più idoneo ad un progetto di vita teso a sostenere i loro bisogni (v. Trib. Trani, sez. dist. di Ruvo di Puglia, 24 aprile 2010; Trib. Bari, sez. dist. Rutigliano, 6 maggio 2010; Trib. Foggia, 22 luglio 2010), nonché ad anziani fisicamente gravato da infermità fisiche ma in pieno possesso delle facoltà mentali (v. Trb. Varese, 18 giugno 2010).
Infine, si veda anche quanto detto dalla Suprema Corte nel caso di un soggetto affetto dalla sindrome di Down (v. Cass. Civ., sez. I, 26 ottobre 2011, n. 22332), secondo cui, oltre a quanto già affermato sopra, soltanto nell’ipotesi in cui non si ravvisino interventi di sostegno adeguati a rispondere alle esigenze di protezione il giudice potrà ricorrere alle più invasive misure dell’inabilitazione ovvero dell’interdizione, alla quale si ricorre come extrema ratio.
Fatti questi esempi, devono ora farsi alcune considerazioni.
Nonostante la Suprema Corte ritenga che le misure di tutela dell’interdizione e dell’inabilitazione siano più invasive rispetto a quella dell’amministrazione di sostegno, e che quindi esse non sarebbero state implicitamente abrogate da quest’ultima, in realtà sembra proprio che le cose stiano diversamente.
Per esempio, per quale motivo sarebbe stata disposta l’amministrazione di sostegno per una persona affetta da sindrome da shopping compulsivo, come nella pronuncia del Tribunale di Varese, quando l’articolo 415 del Codice Civile prevede espressamente l’inabilitazione per prodigalità? E ancora, perché tale istituto sarebbe da ritenere quello più adeguato onde tutelare soggetti con lievi ritardi cognitivi o affetti dal morbo di Alzheimer o dalla sindrome di Down quando l’inabilitazione è proprio prevista per casi in cui vi è un vitium mentale non tanto grave da far luogo all’interdizione?
Secondo quanto può leggersi dalle motivazioni addotte dalla Suprema Corte, la differenza tra tali istituti non starebbe tanto nel grado di infermità da cui è affetto il soggetto poi sottoposto a tutela, quanto nella maggiore flessibilità dello strumento dell’amministrazione di sostegno nell’adeguamento delle misure alle effettive necessità del soggetto.
In realtà, tale principio non porta che ad un’unica ed imprescindibile conclusione, e cioè che l’istituto dell’inabilitazione sia stato appunto soppresso tacitamente da quello dell’amministrazione di sostegno.
Infatti, non solo quest’ultimo sarebbe utilizzabile negli stessi casi, intesi come situazioni di infermità concrete, previsti anche dall’articolo 415 del Codice Civile, ma sarebbe addirittura migliore visto che meglio si adatta alle molteplici situazione a cui la realtà ci pone di fronte; in sostanza, sarebbe uno strumento che non solo avrebbe un’estensione maggiore rispetto ai confini delimitati dall’inabilitazione, ma sarebbe meglio adattabile ai casi concreti.
Ad ulteriore conferma di quanto detto sino ad ora, possono leggersi delle ulteriori pronunce, come, per esempio, quella del Tribunale di Cagliari nella quale si ammette la possibilità che l’amministratore di sostegno proponga il ricorso per la separazione personale dell’amministrato riuscendo ad evitare il lungo iter della nomina prima di un tutore, a seguito del giudizio di interdizione, e poi di un curatore speciale necessario (v. Trib. Cagliari, 15 giugno 2010).
Ed ancora, si veda quanto detto dal Tribunale di Reggio Emilia, secondo cui sarebbe possibile la nomina di un amministratore di sostegno per il giovane affetto da grave perturbamento psichico in quanto l’istituto in questione sarebbe tale da intaccare il meno possibile la sfera di autonomia e di capacità giuridica del soggetto debole (v. Trib. Reggio Emilia, sez. III, 30 novembre 2005).
Addirittura, il Tribunale di Varese è giunto ad affermare che tale misura sarebbe possibile anche nei confronti di un soggetto che, a prescindere da una condizione patologica, non sarebbe in grado di porre in essere, nel proprio interesse, delle scelte di carattere essenziale per la sua vita quotidiana (v. Trib. Varese, 26 maggio 2010), e quindi anche nei confronti di una persona non propriamente in condizioni di inferiorità psichica.
Tutto ciò non fa che avvalorare la tesi secondo cui l’istituto dell’amministrazione di sostegno abbia abrogato in toto quello dell’inabilitazione, essendo proponibile non solo negli stessi casi previsti dall’articolo 415 del Codice Civile, ma anche ad una casistica ben più ampia e, soprattutto, meglio adattandosi lo stesso alle situazioni concrete, predisponendo una tutela mirata e personalizzata del soggetto bisognoso di protezione.
3. L’interdizione: un istituto ormai residuale.
Dopo aver analizzato l’attuale sviluppo dell’istituto dell’inabilitazione, bisogna ora rivolgere l’attenzione a quelli che sono stati gli effetti della Legge n. 6/2004 sull’interdizione.
In particolare, l’articolo 414 del Codice Civile dice che colui il quale si trovi affetto da abituale infermità di mente può essere dichiarato, con provvedimento del giudice, incapace di provvedere ai propri interessi; in sostanza, il nostro legislatore ha previsto che, in casi in cui sussista non solo un grave vitium, cioè un vizio di mente abituale, ma anche un’inettitudine ad attendere ad i propri interessi, allora il soggetto bisognoso di tutela può essere interdetto e, in conseguenza di ciò, affiancato da un tutore che non solo lo rappresenterà dal punto di vista legale, ma potrà anche prendersi cura di lui dal punto di vista personale (tutor datur personae).
Tralasciando altre considerazioni generali su tale istituto, bisogna ora focalizzare l’attenzione sull’attuale sviluppo giurisprudenziale attinente ad esso onde meglio comprendere gli effetti prodotti dall’introduzione dell’amministrazione di sostegno e, soprattutto, i limiti di applicazione di entrambi.
Come già anticipato, in base a quanto previsto dal più recente orientamento della Suprema Corte, per individuare l’ambito di applicazione della amministrazione di sostegno e dell’interdizione, deve tenersi conto, in via prioritaria, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario. In sostanza, se essa corrisponde ad un’attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto, vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione), e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti, allora l’istituto applicabile sarà l’amministrazione di sostegno; mentre si potrà ricorrere all’interdizione quando si tratta di gestire un’attività di una certa complessità, da svolgere in una molteplicità di direzioni, ovvero nei casi in cui appaia necessario impedire al soggetto da tutelare di compiere atti pregiudizievoli per sé, eventualmente anche in considerazione della permanenza di un minimum di vita di relazione che porti detto soggetto ad avere contatti con l’esterno (v. Cass. Civ., sez. I, 26 ottobre 2011, n. 22332; v. anche Cort. Cost. 18 febbraio 2010, n. 51).
In particolare, l’introduzione della Legge n. 6/2004 ha condotto a configurare l’interdizione come un istituto di carattere residuale, perseguendo l’obbiettivo della minor limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente. Ne discende la necessità, prima di pronunziare l’interdizione, di valutare l’eventuale conformità dell’amministrazione di sostegno alle esigenze del destinatario, alla stregua della peculiare flessibilità del nuovo istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa, nonché della complessiva condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie; di contro, non costituisce condizione necessaria all’applicazione di tale misura la circostanza che il beneficiario abbia chiesto, o quantomeno accettato, il sostegno ovvero abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare (v. Cass. Civ., sez. I, 1 marzo 2010, n. 4866).
Da quanto detto emerge chiaramente che l’ambito dell’interdizione rimane limitato, attualmente, solo ai casi di più grave situazione di bisogno, rimanendo l’amministrazione di sostegno una misura preferibile in quanto meno limitativa e, soprattutto, meglio adattabile al soggetto bisognoso.
Anche in questo caso, però, le pronunce dei Tribunali di merito ci possono dare una mano, da un punto di vista pratico, per meglio comprendere l’esatta linea di confine tra questi due istituti anche se, come vedremo, il problema non è di facile soluzione.
Al riguardo, il Tribunale di Bologna è giunto ad affermare che per verificare se sia da applicare la misura di protezione costituita dall’interdizione o, piuttosto, quella della amministrazione di sostegno, non occorre avere riguardo alla gravità o alla natura della infermità psichica del soggetto tutelando. L’articolo 404 del Codice Civile, infatti, prevedrebbe la nomina dell’amministratore di sostegno a favore di “persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”, il che significa che l’impossibilità di provvedere ai propri interessi può essere anche totale e definitiva; l’interdizione, invece, può essere applicata solo se necessaria ad assicurare un’adeguata protezione della persona. Il giudizio di adeguatezza implica, pertanto, una relazione tra misura di protezione e interessi da tutelare nonché bisogni da soddisfare (v. Trib. Bologna, sez. I, 31 gennaio 2008). Nella specie, il Tribunale riteneva di dovere fare applicazione dell’amministrazione di sostegno, rigettando la domanda di interdizione e trasmettendo gli atti al giudice tutelare, poiché la convenuta, per le cure già apprestate dai familiari e dai medici, per le limitazioni gravi di cui soffriva e per la vita che era costretta a condurre, non era ragionevolmente esposta al pericolo che altri potessero approfittare della sua condizione di ampiamente ridotta autonomia; inoltre, godeva di protezione sia sul piano dell’assistenza materiale e sanitaria, tanto che l’interdizione non avrebbe assicurato nulla di più rispetto alla misura meno invasiva dell’amministrazione di sostegno.
Allo stesso modo, il Tribunale di Milano ha disposto sempre la misura dell’amministrazione di sostegno, respingendo la richiesta di interdizione, per un caso molto simile a quello di cui sopra (v. Trib. Milano, sez. IX, 4 febbraio 2008, n. 1794).
Di non scarso interesse è poi la pronuncia del Tribunale di Modena, secondo cui qualora un soggetto appaia, oltre ogni ragionevole dubbio, caratterizzato da un’assoluta, frequente, consolidata incapacità di sottrarsi agli stimoli depauperativi esterni provenienti da persone cui il soggetto è legato affettivamente, nonché da una notevole suggestionabilità derivante da una personalità fragile e dipendente dall’altrui volontà, il soggetto così psichicamente menomato va protetto sottoponendolo all’amministrazione di sostegno che, per la sua duttile versatilità appare idonea a tutelare il disabile con riferimento esclusivo alla specifica causa di disabilità, incidendo, al tempo stesso, sulla sua capacità di agire solo entro i limiti dello stretto necessario (v. Trib. Modena, 20 febbraio 2008).
Di grande rilievo, anche perché capace di cogliere l’essenza della riforma apportata dalla Legge n. 6/2004, è sempre una pronuncia del Tribunale di Modena riguardante la richiesta di revoca dell’inabilitazione e la trasmissione degli atti al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno nonostante il progressivo aggravamento delle condizioni di salute dell’inabilitato. In particolare, nella sentenza si legge che l’interdizione non deve oggi essere pronunciata nei confronti dell’infermo di mente, come disponeva l’abrogato testo dell’articolo 414 del Codice Civile, ma soltanto in presenza dell’ineludibile presupposto che il giudice ne ravvisi l’indispensabilità per assicurare all’interessato una adeguata protezione (v. Trib. Modena, sez. II, 27 marzo 2008). Da ciò conseguirebbe la residualità degli arcaici istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, mantenuti ragionevolmente in vita dal legislatore per garantire il più ampio spettro delle possibili tutele con una sorte di delega del potere legislativo a quello giudiziario per l’individuazione di situazioni comportanti, eccezionalmente e nell’amplissima varietà di casi concreti, l’adozione dei desueti strumenti per meglio proteggere la persona.
La stessa Corte d’Appello di Catania, allo stesso modo, ha affermato che ad una attività minima, semplice e poco rischiosa corrisponderà senz’altro la necessità di applicare l’istituto dell’amministrazione di sostegno mentre, laddove vi sia una notevole complessità operativa con conseguente necessità di accorta protezione contro seri e consistenti pregiudizi del soggetto, potrà richiedersi la misura più invasiva dell’interdizione (v. Cort. App. Catania, 1 luglio 2008, n. 1296). In sostanza, l’istituto dell’amministratore di sostegno sarebbe applicabile anche a chi sia affetto da infermità o menomazione totalmente incapacitante o abituale, come a chi soffre di una infermità transitoria o lieve; nel contempo, l’innovata lettera dell’articolo 427 del Codice Civile avrebbe fornito pure l’interdizione e l’inabilitazione di una maggiore flessibilità in quanto è previsto che l’interdetto può essere autorizzato a compiere taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza l’assistenza del curatore.
Seguendo le linee fino ad ora tracciate, per esempio, il Tribunale di Modena ha disposto l’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, piuttosto della più restrittiva interdizione, per una donna psichicamente minorata perché affetta da idrocefalo congenito, da lieve ritardo mentale e da crisi epilettiche ormai generalizzate, ma comunque bene orientata nel tempo e nello spazio nonché capace di svolgere molteplici attività dirette alla cura della propria persona ed al rapporto con terzi (v. Trib. Modena, 22 luglio 2008).
Di contro, è stata ritenuta congrua la misura dell’interdizione per un soggetto in quanto affetto da una così grave forma di Alzheimer da comprometterne persino le capacità di fornire risposte alle domande che gli venivano rivolte, essendo una malattia mentale in forma talmente grave da compromettere definitivamente la capacità di discernimento del soggetto (v. Trib. Potenza, 1 aprile 2009, n. 263), per soggetti affetto da tetraparesi spastica e conseguente grave deficit psichico (v. Trib. Potenza, 9 luglio 2009, n. 512) o da psicosi cronica con deterioramento cognitivo (v. Trib. Novara, 29 novembre 2010, n. 1122).
Da quanto detto sino ad ora, sembra emergere un quadro non molto chiaro della situazione, ma che sicuramente ci può far dire che non esistono precisi confini di demarcazione tra i due istituti.
Prima di tutto bisogna dire, e ciò sarebbe confermato anche dal dato letterale dell’articolo 404 del Codice Civile, che non è la gravità del vitium ad essere determinante onde dirimere la controversia sul’applicabilità dei due istituti.
Infatti, mentre in passato la differenza tra l’interdizione e l’inabilitazione, almeno per quanto riguarda i casi non specifici (prodigalità, sordomutismo, cecità, abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti), risiedeva appunto nella maggiore o minore gravità dello stato patologico, ora la situazione è ben diversa non risultando esso determinante onde decidere se è più opportuna l’applicazione dell’amministrazione di sostegno o della più restrittiva interdizione, nonostante quanto sembri affermare anche un certo orientamento giurisprudenziale di merito (v. Trib. Potenza, 1 aprile 2009, n. 263; Trib. Potenza, 9 luglio 2009, n. 512; Trib. Novara, 29 novembre 2010, n. 1122).
Di contro, elemento focale dal quale desumere l’effettivo discrimen tra le due fattispecie è proprio quello del diverso grado di protezione da assicurare al soggetto disabile e da tutelare.
In sostanza, laddove la disabilità sia talmente grave da rendere necessario un intervento costante di un soggetto nella vita del disabile, tanto da un punto di vista personale quanto materiale, o qualora sia indispensabile fornire una protezione da elementi esterni tale da escludere in maniera quasi totale l’intervento dello stesso in quanto con alta probabilità dannoso ad esso, allora si potrà ricorrere all’istituto residuale dell’interdizione.
Di contro, in tutti gli altri casi, l’istituto dell’amministrazione di sostegno rimane quello più appropriato in quanto più idoneo a permettere al soggetto bisognoso di essere coadiuvato nelle proprie attività senza perdere completamente la propria autonomia.
4) Una sintesi di quanto detto: gli attuali mezzi di tutela dei soggetti “bisognosi”.
Dopo aver analizzato gli istituti di tutela dei soggetti bisognosi, nonché l’attuale atteggiamento dei tribunali nei loro riguardi, bisogna ora cercare di fare una rapida sintesi di quanto detto onde tentare di delimitare, per quanto possibile, gli spazi applicativi degli stessi.
Prima di tutto, come già affermato, l’istituto dell’inabilitazione sembra oggi in disuso, essendosi sovrapposto ad esso quello più duttile e flessibile dell’amministrazione di sostegno.
Non solo, infatti, nella prassi applicativa sembra essere stato preferito il secondo in casi specifici in cui, a rigor di logica, avrebbe dovuto applicarsi l’inabilitazione del soggetto disabile, ma non si comprende per quale motivo dovrebbe applicarsi un istituto più rigido e meno adattabile al caso concreto quando la legge ne predispone un altro, cioè l’amministrazione di sostegno, atto a meglio valorizzare la residua capacità di chi è bisognoso di tutela.
Tutto ciò, come detto prima, non fa che avvalorare la tesi secondo cui l’istituto dell’amministrazione di sostegno abbia abrogato in toto quello dell’inabilitazione, non residuando per esso alcun margine di applicazione.
Di contro, sembra che l’istituto dell’interdizione non sia completamente venuto meno, rimanendo, attualmente, un piccolo ma fondamentale spazio di applicabilità.
Come già detto, però, l’effettiva differenza tra le due fattispecie è proprio quella del diverso grado di protezione da assicurare al soggetto disabile e da tutelare, non essendo fondamentale la maggiore o minore gravità dello stato patologico, come evidenziato dalle varie pronunce al riguardo. Pertanto, si deve promuovere l’interdizione solo quando per la protezione della persona bisognosa e priva di ogni autonomia, è necessaria una sua sostituzione tendenzialmente generale e permanente con un tutore, cioè nelle situazioni più sfortunate e disperate, di particolare gravità e di sicura irrecuperabilità, anche in questo caso dovendo valutare il giudice la possibilità che l’interdetto eserciti personalmente un qualche residuo diritto compatibile con il suo stato.
In tali ipotesi rientra, per esempio, il caso dell’infermo di mente che non possa, in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, perché nell’amministrazione di sostegno deve rimanere comunque tale spazio di libertà per l’amministrato, come si può leggere nell’articolo 409, comma 2, del Codice Civile.
Tutto ciò, però, vale soprattutto da un punto di vista teorico dato che, poi, nella pratica la situazione si complica ulteriormente visto che, a parte le differenze sino ad ora rilevate, non può negarsi l’assoluta preminenza della discrezionalità dell’organo giudicante nella determinazione della misura da applicare.
In sostanza, starà proprio al giudice, dopo un’attenta analisi dei fatti concreti, valutare la misura di protezione che meglio si addice al soggetto bisognoso cercando, per quanto possibile, di garantire ad esso il più ampio spazio di autonomia possibile, laddove ovviamente le circostanze lo permettano.
5) La tutela dei soggetti minorenni e l’amministrazione di sostegno.
Sino ad ora si è parlato della tutela dei soggetti privi in tutto, o solo in parte, della propria autonomia ma non si è fatto alcun cenno nei confronti dei soggetti minorenni.
Al riguardo, il nostro codice ha previsto, parallelamente alle norme sull’interdizione e sull’inabilitazione del soggetto incapace, la possibilità di nomina di un tutore per i minori privi di qualcuno che possa esercitare su di essi la potestà genitoriale, come previsto dagli articoli 343 e ss. del Codice Civile, o del curatore per i minori emancipati, di cui agli articoli 390 e ss. del Codice Civile.
La domanda da porsi, allora, è se l’introduzione dell’amministrazione di sostegno abbia in qualche modo inciso su questa disciplina.
Secondo il dato letterale, l’istituto dell’amministrazione di sostegno sarebbe avulso dalla tutela dei soggetti minori.
Infatti, in ambito di tutela dei minori, il Codice Civile è molto chiaro a definire quali mezzi di protezione la tutela (articoli 343 e ss. del Codice Civile), nei casi di assenza di genitori adeguati ad esercitare le funzioni genitoriali, e la curatela (articoli 334, comma 2, e 390 e ss. del Codice Civile), che è utilizzata per assistere il minore per il compimento di determinati atti, di solito di tipo patrimoniale, in assenza di valide figure genitoriali.
Non solo, ma l’articolo 404 del Codice Civile è chiaro nell’affermare che l’amministrazione di sostegno è applicabile alla persona “che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”, escludendo implicitamente la riconducibilità di tale disciplina al minore non infermo.
Tra l’altro, l’amministrazione di sostegno è stata appunto introdotta al Capo I, Titolo XII del Libro I del Codice Civile, cioè proprio anteriormente all’interdizione ed all’inabilitazione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia, mentre nessuna modifica è stata apportata alla disciplina appositamente stabilita per i minorenni.
In sostanza, non si può che negare l’impossibilità di nomina di un amministratori di sostegno nei confronti di un minorenne anche se, in realtà, ci sono delle eccezioni.
In primo luogo, quando si presume che l’incapacità del minore possa protrarsi anche nella maggiore età, può essere chiesta, nell’ultimo anno di minore età, la nomina di un amministratore di sostegno che avrà effetto al compimento del diciottesimo anno, come previsto dall’articolo 405, comma 2, del Codice Civile; in sostanza, per il minore incapace verrà prima nominato un tutore che, in seguito e laddove le condizioni lo permettano, verrà sostituito da un amministratore di sostegno, onde meglio permettere lo sviluppo della sua personalità e l’esercizio delle sue capacità.
Dell’amministrazione di sostegno, e ciò è desumibile a contrario sempre dall’articolo 405, comma 2, del Codice Civile, potrà usufruire anche il minore emancipato, cioè autorizzato a contrarre matrimonio al compimento del sedicesimo anno di età. In questo caso, il minore, dopo l’emancipazione che può avvenire in seguito all’autorizzazione a contrarre matrimonio ed al compimento dei sedici anni, viene considerato proprio come una persona maggiorenne con dei limiti alla propria capacità di agire, tanto che per esso viene nominato un curatore; ciò non esclude, però, che il caso specifico necessiti di una tutela personalizzata più adeguata ad esse, garantita ovviamente dall’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Si potrebbe obiettare, nel caso di specie, che negli articoli 390 e ss. del Codice Civile non è stata fatta alcuna menzione alla possibilità di nomina di un amministratore di sostegno in sostituzione di un curatore per il minore emancipato, ma a questo dovrebbe sopperire appunto il rinvio implicito dell’articolo 405, comma 2, del Codice Civile.
Unico caso sino ad ora non specificamente analizzato rimarrebbe la questione della tutela dei minorenni non emancipati ma, comunque, fisicamente e psichicamente menomati. In tali situazioni, ovviamente, saranno i genitori a provvedere alla tutela ed alla cura del minore e, in loro mancanza, potrà essere nominato un tutore ai sensi degli articoli 343 e ss. del Codice Civile.
6) Conclusioni.
Dopo questa breve digressione sulle misure di tutela degli incapaci, bisogna ora trarre alcune conclusioni e cercare, per quanto possibile, di capire se il sistema attuale possa essere oggetto di una semplificazione onde evitare ulteriori discussioni sul punto.
Delle tre figure del tutore, del curatore e dell’amministratore di sostegno, a quanto pare, sembra che solo due di esse, attualmente, mantengano una funzione.
Il tutore, infatti, potrà essere nominato non solo in caso di la disabilità talmente grave da rendere necessario un intervento costante di un soggetto nella vita del disabile, o qualora sia indispensabile fornire una protezione da elementi esterni tale da escludere in maniera quasi totale l’intervento dello stesso in quanto con alta probabilità dannoso ad esso (articoli 414 e ss. del Codice Civile), ma anche, al di fuori dei casi di interdizione, per il minore nei casi di assenza di genitori adeguati ad esercitare le funzioni genitoriali (articoli 343 e ss. del Codice Civile).
Di contro, in tutti gli altri casi ed onde ottenere misure di protezione più adeguate al caso concreto, sarà preferibile applicare l’istituto dell’amministrazione di sostegno (articoli 404 e ss. del Codice Civile).
Per quanto riguarda la figura del curatore, attualmente, sembra che l’unica possibile funzione sia individuabile nel caso del minore emancipato anche se, come anticipato, nulla esclude che al posto di questi venga comunque nominato un amministratore di sostegno, lasciando più ampi ed opportuni spazi di autonomia per colui che è un uomo in fieri.
Detto ciò, ci si deve chiedere se, arrivati a questo punto, non sia opportuna una riforma al riguardo.
In particolare, a detta dello scrivente sarebbe preferibile un’abrogazione della figura del curatore, anche se implicitamente non più utilizzata, in quanto attualmente poco utile ed atta probabilmente solo a creare confusione agli operatori del diritto poco avvezzi alla materia.
Di contro, a differenza di quanto affermato da parte della dottrina, è auspicabile mantenere la figura del tutore, riducendone, come sino ad ora è avvenuto, l’applicazione a casi residuali e di estrema necessità, dove l’intervento di un amministratore di sostegno sia comunque riduttivo per la cura del soggetto disabile.
Ovviamente, una precisa e netta linea di demarcazione tra i due istituti, visto la non prevedibilità delle situazioni che la materia può affrontare, non è possibile, ma starà proprio al giudice determinare il mezzo più adeguato al caso concreto.
In sostanza, ciò che ora serve non è sicuramente una modifica dell’attuale sistema, ma una semplificazione dello stesso fatta attraverso la recisione di quelli che ormai possono solo definirsi come rami secchi del precedente regime.