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Bancarotta fraudolenta e durata delle pene accessorie: un dibattito ormai superato?

1. In relazione alla disciplina sanzionatoria dei reati fallimentari, assume particolare rilevo la questione della commisurazione delle pene accessorie previste per la fattispecie di bancarotta fraudolenta.

La norma di riferimento è costituita dall’ultimo comma dell’articolo 216 Legge fallimentare, il quale prevede che - salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale - la condanna per bancarotta fraudolentacomporta l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale, nonché l’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni; durata che secondo il tenore della norma sembra determinata in maniera fissa e inderogabile.

In tal senso, in effetti, è orientata la giurisprudenza prevalente[1]. Non mancano, tuttavia, pronunce volte a mitigare il rigore delle conseguenze sanzionatorie appena indicate. Cosicché, secondo talune decisioni della Cassazione, il dato letterale dell’articolo 216, ultimo comma, dovrebbe intendersi riferito alla durata massima della pena accessoria.

Diverse sono, però, le conclusioni che vengono tratte in ordine ai poteri del giudice. Secondo alcune sentenze, infatti, «un’interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata porta alla lettura della norma in questione nei termini che la durata della pena accessoria deve essere fissata dal giudice, indipendentemente da ogni automatismo, in misura proporzionale, e non necessariamente identica, a quella della pena principale, in applicazione dei criteri di giudizio di cui all’articolo 133 del codice penale»[2].

In altra decisione si è invece stabilito che «la durata della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale ed all’incapacità ad esercitare uffici direttivi di cui all’articolo 216, ultimo comma, Legge fallimentare, deve essere determinata in misura uguale a quella della pena principale inflitta»[3].

Secondo tale lettura, la sanzione in esame non si sottrarrebbe alla disciplina generale di cui all’articolo 37 del codice penale, secondo cui la pena accessoria ha uguale durata della pena principale inflitta quando essa non sia predeterminata.

2. In virtù della “rigidità” del dettato normativo dell’articolo 216, ultimo comma, Legge fallimentare, da ultimo ne è stata posta in dubbio la costituzionalità, ma la questione è stata dichiarata inammissibile in considerazione del petitum formulato dai remittenti.

Invero, nel prospettare la violazione del principio di eguaglianza e del principio della finalità rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione), si chiedeva alla Corte Costituzionale di aggiungere le parole «fino a» alla disposizione citata, allo scopo di rendere applicabile l’articolo 37 del codice penale (secondo il quale «quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato»). 

In tal modo, tuttavia, precisa la Corte, «la soluzione prospettata è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva. Risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Pertanto deve farsi applicazione del principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni costituzionali relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato»[4].

3. Alla luce di tale pronuncia sono ancora prospettabili interpretazioni costituzionalmente orientate dell’articolo 216, ultimo comma, Legge fallimentare?

Come è stato osservato, il silenzio della Corte sul punto appare eloquente: se essa avesse ritenuto percorribile l’interpretazione conforme avrebbe potuto focalizzare la pronuncia di inammissibilità proprio su tale profilo[5]. Il messaggio, allora, appare chiaro: la Consulta vede con sfavore a interpretazioni correttive troppo disinvolte.

Ed infatti una recente pronuncia della Cassazione precisa come la Corte Costituzionale abbia «implicitamente confermato» l’interpretazione secondo cui la pena accessoria è prevista in misura fissa[6]. La ratio della scelta legislativa, prosegue la Suprema Corte, «è evidentemente special-preventiva»: nella bancarotta fraudolenta «si è voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha danno e “disordine” per il (considerevole) lasso di tempo di due lustri»; diversamente, nella bancarotta semplice, «l’inabilitazione e l’incapacità hanno un tetto molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all’apprezzamento del giudice».

Tale pronuncia, precisa la Suprema Corte in altra recente decisione, avrebbe «dato atto di un dibattito pregresso, sostanzialmente superato dopo la Sentenza 134/2012 della Corte costituzionale, significativamente anch’essa concludendo per la conferma di quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la pena accessoria che consegue alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta è indicata in maniera fissa e inderogabile dal legislatore nella durata di dieci anni»[7].

Di certo, come ha sottolineato la stessa Corte Costituzionale nella pronuncia n. 134/2012, si rende evidente «l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie» in materia di bancarotta fraudolenta, «che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolar modo con l’articolo 27, terzo comma».

 

[1]La Suprema Corte ha infatti precisato che «In tema di pene accessorie per il delitto di bancarotta, dal raffronto letterale tra il comma 4 dell'art. 216 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 e il comma 3 dell'art. 217 dello stesso r.d. emerge la netta differenza voluta dal legislatore rispettivamente per la bancarotta fraudolenta e per quella semplice. Infatti, nel primo caso, la condanna importa "per la durata di dieci anni" l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa; nel secondo caso, è previsto che la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa "fino a due anni". Quindi, nell'ipotesi più grave della bancarotta fraudolenta, il legislatore ha voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha creato danno e "disordine" per il (considerevole) lasso di tempo di dieci anni; nell'ipotesi meno grave della bancarotta semplice, l'inabilitazione e l'incapacità hanno un "tetto" molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all'apprezzamento del giudice: nel primo caso, la proibizione dura ininterrottamente per una decade, nel secondo, invece, non può superare il biennio ma può quindi anche coprire un più ridotto arco temporale» (Cass., Sez. V, 30 maggio 2012, n. 30341, in Guida al diritto 2012, 40, 61; v. anche Cass., 30 maggio 2012, n. 30341, in Guida al dir., 2012, 40, 61 Cass., Sez. V, 31 gennaio 2013, n. 11257, in CED Cass. pen. 2013).

[2]Cass., Sez. V, 31 marzo 2010, n. 23720, in Guida al dir., 2010, 29, 67

[3]Cass., Sez. V, 22 gennaio 2010, n. 9672, in Ced Cass. pen. 2010.

[4]Corte Cost., 21-31 maggio 2012, n. 134, in Guida al dir., 2012, 27, 62 s., con nota di Manes, L’intervento richiesto eccede i poteri della Consulta e implica scelte discrezionali riservate al legislatore

[5]Manes, op. cit., 71

[6] Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2013-10 gennaio 2014, n. 628, in Quotidiano del diritto, 20 agosto 2014.

[7]Cass. pen., Sezione feriale, 29 luglio-19 agosto 2014, n. 35920, in Quotidiano del diritto, 20 agosto 2014

1. In relazione alla disciplina sanzionatoria dei reati fallimentari, assume particolare rilevo la questione della commisurazione delle pene accessorie previste per la fattispecie di bancarotta fraudolenta.

La norma di riferimento è costituita dall’ultimo comma dell’articolo 216 Legge fallimentare, il quale prevede che - salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale - la condanna per bancarotta fraudolentacomporta l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale, nonché l’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni; durata che secondo il tenore della norma sembra determinata in maniera fissa e inderogabile.

In tal senso, in effetti, è orientata la giurisprudenza prevalente[1]. Non mancano, tuttavia, pronunce volte a mitigare il rigore delle conseguenze sanzionatorie appena indicate. Cosicché, secondo talune decisioni della Cassazione, il dato letterale dell’articolo 216, ultimo comma, dovrebbe intendersi riferito alla durata massima della pena accessoria.

Diverse sono, però, le conclusioni che vengono tratte in ordine ai poteri del giudice. Secondo alcune sentenze, infatti, «un’interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata porta alla lettura della norma in questione nei termini che la durata della pena accessoria deve essere fissata dal giudice, indipendentemente da ogni automatismo, in misura proporzionale, e non necessariamente identica, a quella della pena principale, in applicazione dei criteri di giudizio di cui all’articolo 133 del codice penale»[2].

In altra decisione si è invece stabilito che «la durata della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale ed all’incapacità ad esercitare uffici direttivi di cui all’articolo 216, ultimo comma, Legge fallimentare, deve essere determinata in misura uguale a quella della pena principale inflitta»[3].

Secondo tale lettura, la sanzione in esame non si sottrarrebbe alla disciplina generale di cui all’articolo 37 del codice penale, secondo cui la pena accessoria ha uguale durata della pena principale inflitta quando essa non sia predeterminata.

2. In virtù della “rigidità” del dettato normativo dell’articolo 216, ultimo comma, Legge fallimentare, da ultimo ne è stata posta in dubbio la costituzionalità, ma la questione è stata dichiarata inammissibile in considerazione del petitum formulato dai remittenti.

Invero, nel prospettare la violazione del principio di eguaglianza e del principio della finalità rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione), si chiedeva alla Corte Costituzionale di aggiungere le parole «fino a» alla disposizione citata, allo scopo di rendere applicabile l’articolo 37 del codice penale (secondo il quale «quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato»). 

In tal modo, tuttavia, precisa la Corte, «la soluzione prospettata è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva. Risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Pertanto deve farsi applicazione del principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni costituzionali relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato»[4].

3. Alla luce di tale pronuncia sono ancora prospettabili interpretazioni costituzionalmente orientate dell’articolo 216, ultimo comma, Legge fallimentare?

Come è stato osservato, il silenzio della Corte sul punto appare eloquente: se essa avesse ritenuto percorribile l’interpretazione conforme avrebbe potuto focalizzare la pronuncia di inammissibilità proprio su tale profilo[5]. Il messaggio, allora, appare chiaro: la Consulta vede con sfavore a interpretazioni correttive troppo disinvolte.

Ed infatti una recente pronuncia della Cassazione precisa come la Corte Costituzionale abbia «implicitamente confermato» l’interpretazione secondo cui la pena accessoria è prevista in misura fissa[6]. La ratio della scelta legislativa, prosegue la Suprema Corte, «è evidentemente special-preventiva»: nella bancarotta fraudolenta «si è voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha danno e “disordine” per il (considerevole) lasso di tempo di due lustri»; diversamente, nella bancarotta semplice, «l’inabilitazione e l’incapacità hanno un tetto molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all’apprezzamento del giudice».

Tale pronuncia, precisa la Suprema Corte in altra recente decisione, avrebbe «dato atto di un dibattito pregresso, sostanzialmente superato dopo la Sentenza 134/2012 della Corte costituzionale, significativamente anch’essa concludendo per la conferma di quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la pena accessoria che consegue alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta è indicata in maniera fissa e inderogabile dal legislatore nella durata di dieci anni»[7].

Di certo, come ha sottolineato la stessa Corte Costituzionale nella pronuncia n. 134/2012, si rende evidente «l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie» in materia di bancarotta fraudolenta, «che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolar modo con l’articolo 27, terzo comma».

 

[1]La Suprema Corte ha infatti precisato che «In tema di pene accessorie per il delitto di bancarotta, dal raffronto letterale tra il comma 4 dell'art. 216 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 e il comma 3 dell'art. 217 dello stesso r.d. emerge la netta differenza voluta dal legislatore rispettivamente per la bancarotta fraudolenta e per quella semplice. Infatti, nel primo caso, la condanna importa "per la durata di dieci anni" l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa; nel secondo caso, è previsto che la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa "fino a due anni". Quindi, nell'ipotesi più grave della bancarotta fraudolenta, il legislatore ha voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha creato danno e "disordine" per il (considerevole) lasso di tempo di dieci anni; nell'ipotesi meno grave della bancarotta semplice, l'inabilitazione e l'incapacità hanno un "tetto" molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all'apprezzamento del giudice: nel primo caso, la proibizione dura ininterrottamente per una decade, nel secondo, invece, non può superare il biennio ma può quindi anche coprire un più ridotto arco temporale» (Cass., Sez. V, 30 maggio 2012, n. 30341, in Guida al diritto 2012, 40, 61; v. anche Cass., 30 maggio 2012, n. 30341, in Guida al dir., 2012, 40, 61 Cass., Sez. V, 31 gennaio 2013, n. 11257, in CED Cass. pen. 2013).

[2]Cass., Sez. V, 31 marzo 2010, n. 23720, in Guida al dir., 2010, 29, 67

[3]Cass., Sez. V, 22 gennaio 2010, n. 9672, in Ced Cass. pen. 2010.

[4]Corte Cost., 21-31 maggio 2012, n. 134, in Guida al dir., 2012, 27, 62 s., con nota di Manes, L’intervento richiesto eccede i poteri della Consulta e implica scelte discrezionali riservate al legislatore

[5]Manes, op. cit., 71

[6] Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2013-10 gennaio 2014, n. 628, in Quotidiano del diritto, 20 agosto 2014.

[7]Cass. pen., Sezione feriale, 29 luglio-19 agosto 2014, n. 35920, in Quotidiano del diritto, 20 agosto 2014