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Dal populismo giudiziario al populismo penale e politico

From judicial populism to criminal and political populism
Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

«La pazza idea che il giure punitivo debba estirpare i delitti dalla terra

conduce nella scienza penale alla idolatria del terrore»

Francesco Carrara

Abstract

Lo scritto analizza la genesi e la successiva circolazione del populismo dapprima nell’ambito giudiziario penale e di seguito in quello politico e legislativo e ne stigmatizza gli effetti corrosivi sulla cultura dei diritti e delle garanzie.

The paper analyzes the genesis and subsequent circulation of populism, first in the criminal judicial sphere and subsequently in the political and legislative one, and stigmatizes its corrosive effects on the culture of rights and guarantees.

 

Sommario

1. Introduzione

2. Il laboratorio “Italia”

3. La democrazia giudiziaria

4. Tangentopoli

5. Il complesso accusatorio

6. Dalla fattispecie al fenomeno

8. L’epitome del populismo penale italiano: la “lotta” alla corruzione

9. Antipolitica e antimafia

10. Conclusioni

 

Summary

1. Introduction

2. The "Italy" laboratory

3. Judicial democracy

4. Tangentopoli

5. The accusatory complex

6. From the case to the phenomenon

8. The epitome of Italian criminal populism: the "fight" against corruption

9. Anti-politics and anti-mafia

10. Conclusions

 

1. Introduzione

Da tempo si parla di populismo penale in rapporto all’idea di un uso politico dei temi legati alla criminalità e alla giustizia penale secondo logiche dettate più dalla ricerca di consenso popolare che da reali esigenze di intervento [1].

Le prime formulazioni del concetto appartengono a Anthony Edward Bottoms che, con l’espressione “populist punitiveness” ha inteso descrivere l’atteggiamento del sistema politico che tende a dare precedenza agli obiettivi di immediato consenso elettorale piuttosto che all’efficacia delle politiche criminali, attraverso un uso simbolico del diritto penale come strumento di rassicurazione dell’opinione pubbli­ca e di legittimazione del potere politico [2].

Di recente si è evidenziato come il mondo sembri essere entrato nell’“era del castigo”, un fenomeno caratterizzato da un aumento vertiginoso della severità punitiva, sebbene questa tendenza non sia correlata ad un effettivo incremento della criminalità[3].

Il mostrarsi tough on crime rappresenta l’atteggiamento “utile”, la formula vincente per qualsiasi candidato in cerca del suffragio popolare. Il diritto penale appare invero uno strumento di agevole gestione politica, «maneggevole vessillo nella strategia degli annunci, e­spressione di forte carica simbolica stigmatizzante» [4].

Limitando lo sguardo alla nostra esperienza nazionale, suona sempre più attuale l’osservazione secondo cui le innovazioni legislative vengono presentate e reclamizzate come un’operazione di marketing, destinata a soddisfare molteplici bisogni (veri o supposti) e ansie del pubblico dei consumatori-destinatari [5]. La produzione del penale è quindi sempre più compulsiva, con la conseguenza che il diritto penale è in crisi ma in salute [6].

È in crisi rispetto a tutti i principi garantistici, perché si sviluppa fuori da qualunque disegno razionale. È in salute, perché si è fortificato: è sempre più “muscolare”, “massimo” [7]. Non interviene più in via sussidiaria, bensì è la prima, se non l’unica, ratio degli interventi normativi.

In generale, il tema della dimensione funzionale della pena è quello in cui si manifesta più scopertamente il volto feroce della giustizia populista con la sua vocazione a coltivare la pratica della vendetta [8]. Qui il paradigma della «certezza della pena» si risolve nell’imperativo della massima severità e nella finalità di neutralizzazione e segregazione del colpevole a scapito della proporzione della risposta punitiva e della funzione risocializzante.

Quali sono le cause della marcata “fascinazione” per un diritto penale sempre più ossessivamente concentrato sulla tutela della sicurezza pubblica (bene “onnivoro”) e su istanze di de-secolarizzazione/rieticizzazione? [9]

 

2. Il “laboratorio Italia”

È «quasi un luogo comune dire che i contesti politico-istituzionali e i loro mutamenti incidono in modo rilevante sulla fisionomia del sistema penale»[10]: le questioni che riguardano la politica criminale, fino a quelle che coinvolgono il ruolo della giustizia passando per il processo, la funzione dei magistrati, i diritti dei cittadini, la salvaguardia della legalità, implicano in primo luogo opzioni politiche, culturali e di civiltà[11].

Da un secolo a questa parte l’Italia è il laboratorio di tutte le correnti che hanno attraversato la società europea. «Da quando le masse hanno fatto il loro ingresso nell’arena pubblica, all’indomani della prima guerra mondiale, il paese ha vissuto in presa diretta tutte le grandi fratture internazionali, anticipandone e riflettendone le forme come nessun altro luogo»[12].

Dopo la “caduta” della c.d. Prima Repubblica, in particolare, è stata inaugurata la lunga stagione della fuga dalla politica, nel corso della quale si sperimenteranno praticamente tutte le forme di post-democrazia possibili: dalla democrazia giudiziaria alla democrazia del leader, dalla tecnocrazia al populismo.

 

3. La democrazia giudiziaria

In ogni democrazia liberale possono essere individuati regimi “ibridi” che mischiano democrazia e autoritarismo. Due tipi possibili (fra i tanti) sono la “democrazia giudiziaria” e la “democrazia illiberale”.

Nella prima «il governo è solo formalmente al comando. Nei fatti, la discrezionalità politica di cui esso gode è quasi nulla. Non c’è decisione politica possibile se essa non ottiene il placet, quanto meno tacito, delle magistrature» [13]. In questo contesto ci collochiamo nel cam­po del diritto libero, nel quale si erge la figura del giudice creatore di diritto.

Nella “democrazia illiberale”, invece, vige il panpoliticismo: «il governo controlla, almeno in linea di principio, tutto e tutti. Anche i giu­dici dipendono dal governo. Qui la politica non deve sottostare a vincoli giuridici» [14].

In linea generale, le democrazie contemporanee vedono un intervento sempre più marcato della magistratura nel processo politico [15]. Il quadro istituzionale nel quale oggi agisce il giudice gli offre un potere molto ampio: il legame con la legge si è indebolito e i grandi principi del diritto non sono sempre in grado di fornire la soluzione ai problemi che deve affrontare [16].

Chi, «meglio della magistratura, soprattutto quella di procura, può dare colpi rapidi, risposte immediate alla domanda di giustizia e al riconoscimento di sempre nuovi diritti?» [17].

Juristocracy”, “Giurisdizionalizzazione della politica”, “politicizzazione delle giurisdizioni”, “società penalizzate” o “politica penalizzata”, sono tutte etichette che rimandano al fenomeno – comune a molti paesi democratici – della forte crescita del potere giudiziario [18].

Tuttavia, mentre altrove questo fenomeno non ha inciso sulle caratteristiche delle forme di governo, in Italia, per effetto di alcune specificità, il giudiziario è diventato «una componente decisiva del si­stema di governo e, insieme, un polo di attrazione per una parte dello stesso mondo dei partiti, dei mezzi di comunicazione e della società civile» [19].

Oramai da tempo, nella nostra esperienza nazionale, si assiste ad un ribaltamento dei rapporti di forza tra potere politico e potere giudiziario (ciò che la Costituzione chiama «ordine» ma, di fatto, divenuto un potere) [20]. E in ambito europeo proprio l’Italia ha rappresentato un esempio paradigmatico di democrazia giudiziaria, «dove la crescita del potere dei giudici nel campo politico è accelerata dal­l’incapacità del sistema politico a regolamentarsi da sé e a rispondere alle aspettative della società» [21].

La progressiva dilatazione della sfera di applicazione del diritto penale – e la conseguente erosione delle garanzie individuali – è la causa e, allo stesso tempo, la conseguenza del ribaltamento dei rapporti di forza tra potere politico-rappresentativo e potere giudiziario.

Con sempre maggiore frequenza le opzioni di politica criminale, apparentemente più efficaci e meno dispendiose nel breve periodo, sono di fatto preferite a politiche sociali o economiche più dispendiose, più complesse e con effetti visibili solo nel lungo periodo [22].

Punire “costa” ed impegna assai meno del provvedere, e il ricorso alla sanzione criminale contribuisce a dare l’impressione di una “risposta” e di un impegno legislativi di particolare consistenza [23].

In Italia le strategie in tema di sicurezza dirette a ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura per la criminalità con un uso congiunturale del diritto penale hanno rappresentato una costante delle politiche criminali [24].

Fino agli anni Settanta gli interventi sul sistema penale sono stati limitati [25]. Anzi, in senso contrario alla odierna tendenza repressiva, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, si registra un atteggiamento garantista. Nel 1974, per esempio, nell’ottica di attenuare l’intollerabile rigore sanzionatorio del codice penale, si intervenne sulla parte generale modificando diversi istituti (regime delle circostanze, concorso di reati, reato continuato, recidiva, sospensione condizionale della pena) con esiti rilevanti sulla «sinistra coerenza repressiva del Codice Rocco» [26].

A partire dalla legge Reale del 1975, tuttavia, e cioè con la messa a punto di una macchina penale allo stesso tempo efficientista e simbolica, motivata come risposta alla sfida del terrorismo, la “perenne emergenza” [27] è sopravvissuta negli anni di piombo e si è riprodotta in ragione di sempre nuove emergenze: dalla droga alla mafia, fino a Tangentopoli [28].

Se inizialmente il nuovo “arcipelago normativo” [29] aveva lasciando indenne il nucleo del diritto penale del codice, l’esperienza più recente dell’emergenza ha condotto a una espansione generalizzata delle logiche dell’eccezione [30], e ha visto affermarsi, accanto alla tradizionale nozione di ordine pubblico, il concetto di sicurezza; e alle disparate domande di sicurezza, le agenzie politiche rispondono con soluzioni penalistiche [31].

Proprio il pretesto della specialità è stata la facile breccia, attraverso la quale la logica dell’emergenza e il simbolismo efficentista hanno pervaso l’intero sistema stabilizzandosi come la “normalità” della congiuntura in cui esso si trova ormai da tempo, stravolgendo ogni volta il corso delle riforme che hanno attraversato, «come brevi stagioni», la legislazione penitenziaria (si pen­si alla legge n. 354 del 1975 e poi alla legge “Gozzini”) e quella processuale, con il codice del 1988 [32].

Qualche istanza garantista è sopravvissuta, per la verità, fino agli anni Novanta, e più precisamente alla vicenda giudiziaria di Tangentopoli. Fino a questo momento, infatti, erano stati adottati diversi prov­vedimenti di clemenza, con successione ogni tre/quattro anni. C’era, in sostanza, «una sorta di intervento di mitigazione sul diritto penale, che si accompagnava ad altri interventi di natura repressiva» [33].

A partire da Tangentopoli, invece, la logica dell’emergenza e il simbolismo efficentista hanno iniziato a pervadere l’intero sistema, stabilizzandosi come la “normalità” della congiuntura in cui esso si trova.

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