x

x

Ancora qualche riflessione ermeneutica quantomeno di buon senso sull’abnorme potere discrezionale della P.A. procedente in tema di interdittive antimafia

Mafia
Mafia

Già oltre due anni orsono mi sono occupato del tema odierno con uno scritto(1) con il quale ho espresso a chiare note il mio pensiero in ordine ad una tematica di così rilevante portata fenomenologica. Altrettanto ho fatto in ognuna e tutte (e non sono obiettivamente poche) le occasioni di studio in cui sono stato invitato ad intervenire e nelle quali ho sempre avvertito la necessità di premettere, ed anche qui non posso esimermi dal ribadirlo, l’esigenza mia culturale di non collocarmi nel solco dell’agiografia ermeneutica tipica del politically correct che sta progressivamente avvilendo la libertà di espressione propria del pensiero giuridico immiserendo e, per certi versi, destabilizzando il ruolo dello stesso di ambito privilegiato del confronto delle idee.

Sant’Agostino in un passo del De Civitate Dei, ancora oggi di vibrante attualità, ha affermato che “uno Stato senza diritto è una banda di briganti”, identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. Non è infatti la legge che fonda la verità, bensì è la verità che dà fondamento alla legge. Ne consegue che l’esigenza di garanzia dei valori si pone quale fondamento essenziale per un concetto di democrazia che non sia soltanto di stampo formale. E ciò perché, per dirla con Giovanni Paolo II(2), una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto.

Da qui l’esigenza dello Stato di essere sì inflessibile e severo nei confronti della criminalità organizzata, senza le ineleganti scorciatoie ormai proprie del tempo attuale, ma piuttosto attraverso l’ausilio di una legislazione che, nei suoi contenuti, non si ponga quale frutto di astratta legalità di maniera, bensì quale momento regolatore profondamente rispettoso del sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto.

Una moderna democrazia trova fondamento e connotazione nel fatto obiettivo di essere un sistema che si preoccupa di garantire la libertà e il pieno rispetto dei diritti della persona nonché lo sviluppo di tutto quello che si incarna nell’accezione Stato di diritto, il cui pilastro portante è rappresentato dalla Carta costituzionale nel cui alveo trovano esaustivo e compiuto albergo il diritto, la legge, la legalità, il funzionamento della vita civile ed il significato della battaglia politica in senso nobile; tutti elementi questi che vanno indiscutibilmente condotti agli indirizzi paradigmatici ed al valore della Costituzione.

Necesse est che le leggi siano frutto della coscienza di un popolo e non già espressioni impositivamente definite dall’alto. Il popolo, infatti, rispetta le leggi perché le sente come sue, perché ne è partecipe e ne è coscientemente orgoglioso.

Alla luce delle superiori considerazioni, invero, appare assolutamente improprio, pensare di affrontare l’impegno serissimo di combattere la criminalità mafiosa con regole che non siano quelle proprie del diritto nella sua più qualificata accezione. Invero, occorre avere il coraggio civile di riportare lo Stato alla sua naturale e nobile funzione di fonte produttiva di equità e di sicurezza sociale per evitare che lo stesso appaia ai consociati come soggetto che riflette espressioni di ingiustificata prepotenza, di distorta incertezza e di instabilità.

In buona sostanza occorre avere il coraggio e la forza di riattribuire prestigio e valenza allo Stato di diritto la cui esaltazione non significa inibire o attenuare forma alcuna di contrasto alle pulsioni malavitose, bensì assicurare che i diritti di tutti i cittadini non vengano sistematicamente calpestati senza garanzie.

La sospensione del diritto purtroppo tanto cara al non esaltante legislatore dei nostri giorni nonché l’introduzione di strumenti dell’emergenza, quali quelli oggi in esame, possono avere una loro utilità soltanto se usati in casi rarissimi ed in situazioni assolutamente circoscritte e per di più vanno adoperati con assoluto, estremo rigore per prevenire il sostanziarsi di prevaricazioni ed ingiustizie.

Non a caso, infatti, i padri fondatori del nostro Stato hanno sempre considerato la prevenzione come attività lesiva della libertà personale perché opera senza la garanzia di un processo e sulla base di un mero sospetto.

Se invece, come spessissimo oggi accade, detti strumenti si appalesano esclusivamente come momenti di cruda ed irrazionale espressione del potere dell’autorità - peraltro, spesso e volentieri depressa per i suoi insuccessi contro il crimine organizzato - si corre il rischio di ottenere l’esatto contrario dell’obiettivo serio che si vuol raggiungere perché sono proprio i prefati strumenti a concorrere, con il loro connotato di scriteriata discrezionalità, arroganza ed ingiustizia, al rigoglio di quell’humus e di quella condizione sociale e psicologica di compromissione nella quale il fenomeno mafioso trova linfa vitale nonché concreto sostentamento all’illegittimo ed illecito sussistere e proliferare del fenomeno criminale.

Purtroppo è sotto gli occhi di tutti che gli istituti oggetto dell’odierno esame vanno in direzione giustapposta rispetto ai connotati propri dello Stato di Diritto, e si caratterizzano, in realtà quali istituti che non esito definire se non proprio contra legem, quantomeno praeter legem.

Nel tentativo astrattamente lodevole di istituire una nuova frontiera contro le c.d. infiltrazioni mafiose e di determinare una anticipazione della soglia della difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività e nei confronti dei patrimoni della criminalità organizzata, il non illuminato legislatore di questi tempi, (ahinoi!) non propriamente giuridicamente prestigiosi, ha creato, per dirla con il dr. Nordio “un mostro di inciviltà giuridica”, un obbrobio giudiziario che, calpestando il principio della presunzione di innocenza, ha causato un esiziale vulnus, fondato sul sospetto e sulla presunzione di colpevolezza, che mina alla radice il principio cardine di ogni società civile, rappresentato dalla certezza dei diritti. In buona sostanza un disastro per lo Stato di Diritto in cui le libertà di ciascun cittadino restano affidate e senza garanzie agli organi della P.A. procedente e, con il nuovo codice antimafia ad una sola parte del processo, ossia l’accusa, addirittura in tempo anteatto allo svolgimento dello stesso.

Il sistema delle interdittive rafforzato ed implementato dal nuovo Codice antimafia è teleologicamente preordinato ad un solo distorto obiettivo: punire prima del giudizio.

Riprova ne è l’articolo 89 bis del più volte richiamato Codice antimafia che estende il raggio di azione di detto sistema anche ai settori della contrattualistica pubblica e delle autorizzazioni; effetto espansivo che comunque non può di certo ritenersi bilanciato dall’introduzione del c.d. controllo giudiziario delle aziende affidato al G.O. (articolo 34 bis), il cui coordinamento con il processo amministrativo in materia di informative appare obiettivamente di difficile correlazione ed armonizzazione.

La normativa in parola ha aperto, purtroppo senza riflessione alcuna di tipo dogmatico, la porta a quella cultura del sospetto che simboleggia l’esatto contrario di quella che dovrebbe essere la regola di ogni democrazia liberale che, fra l’altro, confligge in maniera più che evidente con i principi di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di presunzione di innocenza consacrati dalla Carta Costituzionale nonché con il diritto della proprietà privata che, come è noto, può essere sacrificato e limitato soltanto mediante giusto indennizzo.

Con riferimento ai provvedimenti in questione ed al quadro di qualificazione della loro sussistenza ad oggi la giurisprudenza del G.A. ha, per vero in termini dogmaticamente poco convincenti, affermato:

1) che essi costituiscono una misura preventiva atta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la P.A.;

2) che tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del GA solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;

3) che essendo il potere esercitato espressione del criterio, peraltro non meglio ed esaustivamente definito, di anticipazione della soglia di difesa sociale finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, le misure de quibus non devono necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo sull’esistenza della congruità dell’impresa o degli organi elettivi con organizzazioni malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa o dei consigli comunali o provinciali, ma può essere sorretta da elementi sintomatici ed indiziari da cui si evinca il pericolo di ingerenza della criminalità organizzata nell’attività economica e sociale;

4) che occorre individuare ed indicare idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la P.A. o il perdurare in carica degli organi elettivi, ma non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo le ricordate misure fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico anche se risalenti nel tempo;

5) che di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti risultanti appartenenti alla criminalità organizzata (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell’impresa) ma occorre che le misure antimafia indichino (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa o l’organo elettivo esercitati da loro congiunti;

6) che gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata;

7) che viceversa va ritenuta illegittima l’informativa antimafia emessa dalla Prefettura, qualora dalle informazioni delle Forze dell’Ordine non emerga alcun elemento idoneo a prefigurare alcun genere oggettivo di rischio di infiltrazione della criminalità organizzata nell’impresa interessata o nei consigli comunali e provinciali, ma il provvedimento interdittivo risulti motivato solo da rapporti di parentela o di amicizia individuale fra l’imprenditore o l’organo elettivo interessato e persone a loro volta sospettate di collegamenti o infiltrazioni mafiosi senza accertamento effettivo di circostanze concrete.

Malgrado siffatte considerazioni che ritengo si connotino più che altro come leit-motiv piuttosto che espressione di una seria analisi del fenomeno oggetto di indagine, per ragioni dogmatiche e di giustizia continuo ancor oggi a considerare gli istituti in parola così come allo stato configurati – peraltro il più delle volte assistiti soltanto da stereotipate supposizioni che secondo i normali canoni ermeneutici non sostanziano di certo le necessarie indispensabili motivazioni di cui l’atto deve essere sostenuto - istituti sostanzialmente praeter legem perché il più delle volte trasudanti evidenti vizi della funzione amministrativa che si risolvono in autentici dinieghi di giustizia ed in esiziali pregiudizi economici non soltanto nei confronti delle imprese, ma anche – e questo l’improvvido legislatore e gli attuali non esaltanti decisa della giustizia amministrativa non lo hanno purtroppo minimamente considerato – nei confronti delle persone e della collettività con sensibile levitazione di costi e l’inibizione o comunque il sensibile rallentamento nella esecuzione delle opere, va comunque posto nel giusto risalto che i ricordati provvedimenti antimafia appaiono, ictu oculi, non conformi neppure agli schemi normativi e giustiziali sopra ricordati e riportati, soprattutto avuto riferimento a quei provvedimenti qualificati come interdittive c.d. “generiche”, ossia quelle, per intenderci, delineate con le lettere d) ed e) dell’articolo 84 del Codice Antimafia (d.lgs n° 159/2011) le quali abilitano il Prefetto a presumere e desumere la sussistenza del c.d. “tentativo di infiltrazione mafiosa” addirittura in forza di astratti e del tutto generici (perché obiettivamente non precisati) paradigmi, impropriamente ravvisati negli accertamenti disposti dal Prefetto medesimo, al quale è paradossalmente consentito di avvalersi dei poteri di accesso e di accertamento ad esso delegati dal Ministro (ex lege 12.10.2011), ovvero in quelli di cui all’articolo 93 del ricordato d.lgs n° 159/2011, nonché negli accertamenti effettuati in altra Provincia a cura dei Prefetti competenti su richiesta del Prefetto procedente.

In buona sostanza l’organo amministrativo (Prefetto), per di più in totale assenza di contraddittorio, può decidere l’applicazione della misura interdittiva e, quindi agire contro soggetti ed imprese, evocando, a mo’ di grida manzoniane, il c.d. “odor di mafia” senza la necessità di prove perché sono sufficienti meri indizi e congetture, a sua insindacabile valutazione.

Alla luce di quanto testè ricordato non appare revocabile in dubbio che l’assoluta e non commendevole indeterminatezza della condizioni che consentono al Prefetto di emettere una interdittiva antimafia generica appare veramente quanto di più illiberale ed insostenibile possa immaginarsi per uno stato di diritto, quale è, sino a prova contraria il nostro, che per vocazione naturale ha messo costituzionalmente al bando gli oscuri fantasmi (pene e sospetti) caratteristici degli Stati di polizia che inibiscono qualsiasi sindacato di compatibilità con i principi garantisti propri di un moderno Stato di Diritto.

Da quanto evidenziato non appare revocabile in dubbio che la vigente legislazione, per definire il tentativo di infiltrazione mafiosa, utilizza un’astratta formula di contenuto in realtà più sociologico che giuridico considerando, senza alcuna ragione plausibile, il fenomeno mafioso causa piuttosto che effetto dell’attività criminale, ed attribuisce apoditticamente ai suddetti provvedimenti la precipua finalità di anticipare il momento in cui la P.A. può intervenire in sede di autotutela amministrativa, al fine di evitare le possibili ingerenze della criminalità organizzata nello svolgimento dell’attività di impresa e consiste in una informativa diretta a verificare se l’impresa affidataria o l’organo elettivo possano essere considerati affidabili e ciò a prescindere dai rilievi probatori tipici del processo penale, nonché dalla commissione di un illecito e dalla conseguente condanna. Ne consegue che le informative dei ricordati organi amministrativi, così come concepite, hanno come oggetto sotteso la verifica dell’esistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o delle imprese interessate o dei consigli elettivi da cui si desume che è sufficiente anche la mera eventualità che essi possano, persino per via indiretta, favorire la criminalità.

Nella considerazione, dunque, che, nelle intenzioni, i provvedimenti antimafia di cui oggi si discute sono istituti preordinati a garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso per la cui configurazione dogmatica è sufficiente la mera sussistenza di un quadro indiziario tale da generare un c.d. ragionevole (si fa per dire) convincimento, di condizionamento mafioso, si giunge senza un vero ed oggettivo perché a ritenere - in ciò suffragato da una poco coraggiosa giurisprudenza amministrativa orientata a non disturbare il manovratore in subiecta materia - che legittimamente gli organi amministrativi a ciò deputati possano adottare i ricordati provvedimenti ostativi sulla base di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è astrattamente possibile dedurre il paventato tentativo di ingerenza, attraverso l’ausilio del paradigma rappresentato dal modello civilistico del “più probabile che non”, peraltro espunto dal suo ambito naturale e riadattato alla bisogna, con la giustificazione che il contrasto al fenomeno mafioso non si possa contrastare con armi impari, omettendo, però, di considerare come non appaia plausibile che si possa chiedere la verifica puntuale e concreta degli elementi costitutivi del provvedimento pretendendo di bilanciare l’applicazione di tale attenuatissima regola causale del “più probabile che non” con la gravità, la precisione e la concordanza degli indizi che il G.A. deve chiedere all’Amministrazione la quale è peraltro comunque tenuta a valutare e mai esprimere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni di tipo probabilistico” che incidono sui soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”.

Invero, siffatta sintomatologia può essere rappresentata, come, peraltro, sopra ricordato, da una condanna penale non irrevocabile, dalla intervenuta adozione di misure cautelari, dal coinvolgimento in una indagine penale, da cointeressenze societarie o da frequentazioni con soggetti malavitosi, che nel loro insieme e, quindi, non in ipotesi atomizzate, appaiano di rilevanza tale da fornire la stura al radicare, in termini di fondatezza, un giudizio di probabilità che l’attività di impresa o degli organi elettivi possa, anche per via indiretta, consentire l’agevolazione delle attività criminali, ovvero dalle stesse risultare tale attività in qualche modo condizionata. In questo quadro di, per vero, manifesta e, peraltro dichiarata, labilità probatoria anche i legami di natura parentale assumono pregnante rilievo qualora emerga un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell’oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare abbiano a porsi come strumento atto a diluire e a travisare aspetti di infiltrazione mafiosa nell’impresa oggetto di attenzione dell’Amministrazione dell’Interno.

In ragione di siffatto invero astratto paradigma l’Amministrazione procedente quasi sempre radica la propria valutazione su un quadro assolutamente indiziario in cui assumono rilievo pregnante i fattori da cui trarre la conclusione che non siano manifestamente infondati i sospetti che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo attraverso cui le organizzazioni criminali hanno la tendenza ad infiltrarsi negli appalti delle P.A e nell’attività gestionale dei Comuni e delle Province.

Alla luce di quanto delineato l’Amministrazione utilizza un margine di accertamento e di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamenti di tipo mafioso.

Secondo la ormai pressoché costante e non coraggiosa giurisprudenza amministrativa - la quale putroppo si è autonomamente ed irrazionalmente determinata, senza scatto di orgoglio alcuno, ad autodefinire e circoscrivere i limiti del proprio sindacato giurisdizionale alle c.d. e metagiuridiche esigenze rappresentate dal totem dell’anticipazione della soglia di difesa sociale i cui elementi rilevatori, fra l’altro, impietosamente si caratterizzano per la loro non commendevole indeterminatezza quantitativa (non sono neppure un numerus clausus) e qualitativa (astratta indicatività del pericolo di “odor di mafia”) -, i provvedimenti antimafia fondano la loro (anomala con riferimento alle garanzie) ragion d’essere su un quadro meramente indiziario il cui obiettivo finalistico si sostanzia nella più precocemente possibile anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo e sostanza fatti e vicende soltanto sintomatici ed indiziari.

Tale lata discrezionalità si presenta talmente monolitica da apparire insuscettiva di essere, in alcun modo e misura, scalfita, viepiù che la stessa viene detto non può essere sindacata nel merito bensì soltanto sotto l’aspetto della legittimità, con particolare riguardo all’eccesso di potere relativo ai profili della insufficiente motivazione, della manifesta illogicità o della erronea e travisata valutazione dei fatti presupposti, avuto particolare riguardo ai caratteri dell’attualità, della obiettiva congruità e della concretezza che gli elementi assunti dalla ricordata Amministrazione devono poter giustificare.

Così paradigmati i provvedimenti antimafia, nelle intenzioni del nostro, peraltro, del tutto isolato, in Europa, legislatore, costituiscono un istituto di frontiera volto a colpire categorie di soggetti che si presume, per vero il più delle volte apoditticamente, assumano relazioni qualificate con la criminalità mafiosa, nell’ottica di realizzare un efficace contrasto alle plurime forme di penetrazione della criminalità organizzata nelle attività economiche.

È da rilevare, giusta quanto sopra evidenziato, che molto spesso il G.A. risulta essere molto indulgente con la P.A, tanto da sacrificare – e ciò non è commendevole – l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una astratta lotta alle infiltrazioni mafiose e sulla scorta di un volutamente esasperato e strumentale clima allarmistico di stampo prettamente metagiuridico che si è diffuso nel Paese.

Soltanto di recente una lineare ed ecomiabile sentenza del CGA della Regione Sicilia (n°247 del 29.7.2016 ) a cui è seguito un non meno rilevante decisum della I Sezione del TAR Palermo (n°1147 di data 26.4.2017), nonché l’innegabile forza propulsiva di indirizzo rappresentata della sentenza della CEDU De Tommaso(3), la quale nel consentire dogmaticamente di estendere all’attiguo campo delle interdittive i suoi non secondari effetti giudiziali, ha irrefutabilmente definito come indiscutibilmente contrastanti, con l’articolo 2, protocollo 4 add. CEDU, le c.d. fattispecie di pericolosità generica in ragione della loro assoluta indeterminatezza. Tutti insieme i su richiamati decisa contribuiscono ad incrinare l’irrazionale monolite che l’ordinamento interno ha surrettiziamente costruito e costituiscono un prezioso saggio di cultura giuridica liberale, atteso che mettono nel giusto risalto che la lotta alla mafia può ben essere coscienziosamente condotta salvaguardando i fondamenti propri dello Sato di diritto.

Nel quadro così determinato, caratterizzato da un esageratamente ampio e per certi versi incontrollato ed incontrollabile potere discrezionale conferito all’autorità di amministrazione attiva, il solo, anche se pur vero per certi versi labile – considerata la utilizzazione concreta che di esso si è, putroppo spesso fatta, proprio da parte del G.A. – baluardo, è rappresentato dalla figura dell’eccesso di potere che mi permetto di definire il cuore antico del corretto sentire amministrativo, l’unico vero contraltare di garanzia nel complesso ambito della discrezionalità amministrativa che nella specie è tanto forte da assumere per certi versi connotati così pregnanti da giungere a trasmodare i limiti di una effettiva garanzia ordinamentale volta a stigmatizzare la non sufficienza delle mere ipotesi congetturali ed a valorizzare l’esigenza della sussistenza del fatto concreto e materiale da poter essere accertato nella sua essenza, consistenza e rilevanza ai fini della concreta verificazione dell’infiltrazione mafiosa. Per questo suo caratteristico imprinting, a mio avviso, l’eccesso di potere continua, se correttamente utilizzato (cosa che putroppo sin qui non è stata fatta e non soltanto in sede giudiziale), ad avere anche in prospettiva un futuro di sicuro rilievo con riferimento peculiare agli istituti oggi in esame, proprio perché, vizio di legittimità che, nella sua essenza, mira a contrastare l’aspetto patologico dell’attività provvedimentale discrezionale non correttamente esercitata alla luce dei parametri di logicità e di congruità a cui devono essere obiettivamente informati gli atti discrezionali della P.A.

In buona sostanza occorre poter opporre alla sbandierata necessità di assicurare il massimo livello di protezione nei confronti di fenomeni di particolare pericolosità ed aggressività per la vita sociale, una seria e meditata azione di controllo del potere discrezionale attribuito agli organi di amministrazione attiva che possono assumere i provvedimenti di cui qui si discute, perché la sia pur lodevole intenzione di anticipazione della soglia di difesa sociale, non si risolva in un rimedio peggiore del male, viepiù che l’ecceso di potere, il cui paradigma strutturale, così come oggi più che mai, abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, si estende ben oltre la sfera della “discrezionalità” in senso proprio perché esso si connota, senza se e senza ma, quale elemento fondante, parte integrante della legalità amministrativa visto e considerato che esso istituto costituisce lo strumento indiscutibilmente più forte e significativo per controllare la funzione amministrativa e porre rimedio all’operato non sempre fisiologico dell’attività dell’Amministrazione in funzione dell’osservanza della legalità.

È di tutta realità, invero, che l’irrazionalità di una scelta a seguito di un criterio irragionevolmente utilizzato dagli organi di amministrazione attiva che possono avvalersi degli strumenti antimafia dimostra, a chiare note, come la decisione adottata non può connotarsi – e questo deve far molto riflettere – che come illegittima a monte, atteso che nelle fattispecie considerate non sussistono altre scelte legittime di cui evidentemente si sia potuta valutare l’opportunità di adozione.

A questo aggiungasi, senza tema di smentita o di ermeneusi di segno contrario, che il portato fisiologico della ragionevolezza è proiezione dei principi costituzionali di imparzialità e di eguaglianza, oltre che di quello del buon andamento, ed assurge a canone generale dell’azione amministrativa le cui scelte, ivi comprese quelle degli organi dell’Autorità procedente, hanno l’obbligo di rivelarsi del tutto coerenti e congrue rispetto alle premesse di fatto e di diritto poste a fondamento delle decisioni assunte.

La legittimità degli atti in questione, infatti, discende dalla razionalità dell’inferenza a cointeressenze economiche fra soggetti, che devono apparire tali da indurre il sospetto che il condizionamento mafioso possa estendersi nel maggior ambito rappresentato dai collegamenti societari, di guisa che è da assumersi come dato paradigmatico assodato che chi interviene, in sede di sindacato giustiziale, sulla legittimità del provvedimento antimafia, non si produce in una compiuta analisi della fattispecie dedotta, non va a comparare il fatto di ciascuno dei singoli elementi con lo schema normativo, ma deduce l’esistenza del vizio dalla constatazione di talune carenze individuali di logica e di congruità o di queste in collegamento con i principi dell’attività amministrativa quali la manifesta ingiustizia e la disparità di trattamento.

In buona sostanza il sindacato del G.A. deve sempre estendersi, pleno titulo, all’esame della ragionevolezza ed alla logicità del ragionamento effettuato dalla P.A. procedente avendo come paradigma di riferimento la realità del quadro istruttorio posto a fondamento dei fatti oggetto dei provvedimenti interdittivi.

Alla luce di quanto sin qui considerato il vizio non presuppone la mancanza o l’erroneità di questo o quel motivo, bensì esso viene ad essere percepibile e configurabile dal complesso dei motivi. L’accertamento del vizio, infatti, non è il risultato di un giudizio di tipo meccanicistico, bensì la risultanza di un giudizio valutativo, talora sintetico, talora sintomatico.  

In buona sostanza l’eccesso di potere ravvisabile nel provvedimento di interdittiva può essere, con un poco più di amor proprio e di buona volontà da parte del G.A., probabilmente e più efficacemente individuato in un eccesso della funzione intesa come attività teleologicamente preordinata all’esercizio della potestà che non è stata esercitata in conformità allo schema normativo.

Correttamente inteso l’eccesso di potere si pone quale unico e significativo argine allo scorretto uso del potere discrezionale perché esso non è riconoscibile come vizio risultante dall’esame dell’atto, bensì quale percezione di un ragionamento, di un’analisi che riesce a dimostrare che le argomentazioni fatte proprie dalla P.A. procedente per sostenere il suo operato appaiono del tutto illogiche, incoerenti ed irragionevoli.

Il giudizio del suo accertamento rimane, in subiecta materia, comunque nell’ambito del giudizio di legittimità – anche se l’indagine medesima si pone al confine con il criterio di opportunità - perché attraverso tale attività di controllo non si procede a verificare la valutazione dei vari interessi effettuata dall’Amministrazione, ma si va ad esaminare attraverso il giudizio medesimo la sussistenza dei prefati interessi in fatto e, nel contempo, si ha cura di riscontrare e di valutare che non si siano determinate omissioni o sostituzioni importanti, nonché l’obiettivo riscontro che dalla valutazione medesima emerga una evidente coerenza logica e la concreta verifica che siano stati osservati i principi istituzionali della giustizia e dell’uguaglianza giacché l’eccesso di potere analizzato sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza si sostanzia quale principio cardine dell’azione amministrativa e, quindi, quale indiscutibile baluardo al cattivo esercizio della stessa. E ciò perché nelle ipotesi concreta del verificarsi dell’eccesso di potere si determina un vero e proprio decampare dai confini della norma viepiù che la stessa nella sua attuale formulazione non ha indiscutibilmente né la funzione logico-giuridica, né la forza, né l’effetto di estendere all’Amministrazione procedente poteri extra ordinem.

Quanto detto sta ancora a significare che il giudizio sulla correttezza o meno dell’operato amministrativo, per i profili sopra evidenziati, postula il sindacato sulla validità della scelta effettuata dalla P.A. e delle modalità dell’azione medesima ed impone, da parte del G.A., un giudizio articolato e penetrante sulla sostanza dell’azione stessa.

Vale a dire che attraverso il sindacato giustiziale si giunge a presumere l’inadeguatezza e, quindi, l’inopportunità della scelta medesima ogniqualvolta dall’analisi e dall’esame degli atti procedimentali sia dato desumere la violazione del più volte ricordato principio di ragionevolezza e di logicità.

Le stesse figure sintomatiche dell’eccesso di potere, nella loro pluralità e diversità,  non sostanziano altro che le forme di illogicità di cui risulta affetto il provvedimento interdittivo, ossia elementi sufficienti ed idonei a far presumere l’inopportunità dell’atto medesimo e quindi dedurne in via cautelativa la sua illegittimità.

L’eccesso di potere, dunque, rappresenta, soprattutto con riferimento ai provvedimenti antimafia, l’unico strumento nel panorama giuridico atto a vincolare la procedente Amministrazione al rispetto non formalistico del principio di legalità.

Ed è per questo che le conclusioni a cui perviene la P.A. procedente non possono e non devono essere sottratte al controllo esterno di legittimità, nei limiti del vizio di eccesso di potere sotto i profili dell’adeguatezza e della sufficienza istruttoria, del corretto apprezzamento dei presupposti del provvedere, della ragionevolezza delle statuizioni adottate e della proporzionalità della scelta provvedimentale correlata allo interesse pubblico da conseguire attraverso gli strumenti interdittivi.

In conformità a quanto riferito non appare revocabile in dubbio, quindi, che l’emanazione di provvedimenti interdittivi non può fondarsi, sotto il profilo della loro logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati, su asserzioni inidonee a partecipare concreti elementi di giudizio suppostamente indiziari, ovvero causa spesso la loro indeterminatezza dare soltanto astrattamente conto del loro effettivo grado di permeabilità in relazione al concreto pericolo di condizionamento e dell’infiltrazione mafiosa.

Va ancora per completezza soggiunto che, in subiecta materia, l’eccesso di potere si caratterizza anche e soprattutto quale vizio della funzione(4) individuabile dall’analisi del provvedimento di interdittiva oltre che espressione delle omissioni dell’intero procedimento (disparità di trattamento) che si traduce in un controllo della razionalità del comportamento amministrativo che, però, non può e non deve tralignare in valutazioni di merito che per ciò stesso in sede di legittimità sono vietate; giacché soltanto tale controllo di razionalità, condotto attraverso un metodologicamente corretto sindacato giustiziale di legittimità, può consentire di presumere la assoluta carenza di opportunità della scelta operata dalla P.A. procedente.

Quanto alla distinzione tra motivazione illogica e motivazione contraddittoria va, con forza, specificato che essa è sofisma di elaborazione giurisprudenziale giacché la contraddittorietà è in sostanza una specie dell’illogicità che, però, nel ragionamento della giurisprudenza - i cui costrutti, come ricorda Giannini(5) vanno presi per quello che sono, ossia strumenti empirici di giustizia - vuole rappresentare qualche cosa di più immediatamente evidente da far risaltare attraverso l’analisi dell’accuratezza dell’istruttoria, della completezza dei dati e dei fatti assunti nell’interdittiva alla valutazione dell’attualità dei fatti medesimi da cui possa ragionevolmente presumersi il tentativo di ingerenza nella compagine sociale, nonché di ogni eventuale travisamento dei riferiti fatti, del riscontro della sufficienza della motivazione e della logicità e ragionevolezza delle conclusioni relative ai fatti posti a presupposto del provvedimento interdittivo.

Va infine precisato ed evidenziato a conclusione di questa ormai lunga nota che quel che però appare una indiscutibile forza della figura sintomatica in esame rivela, nel contempo, anche la intrinseca sua debolezza atteso che se l’eccesso di potere non viene maneggiato con la necessaria e prudente accortezza in sede giustiziale(6), può dar luogo – come spesso, purtroppo sta avvenendo con decisioni non particolarmente coraggiose ed attente soltanto alla preservazione dello stare decisis - ad autentici dinieghi di giustizia, oltre che all’ulteriore e non commendevole risultato di procurare, a causa di interdittive assunte in forza di talvolta stereotipate motivazioni, esiziali pregiudizi economici che spesso determinano addirittura il fallimento delle aziende e la paralisi del governo di intere comunità locali. È di tutta evidenza, infatti, che le interdittive non correttamente espresse, proprio per determinare un effetto paralizzante soprattutto nei confronti dei procedimenti afferenti alle gare di appalto – che non si dimentichi producono un impatto economico pari a quasi il 18% del PIL - ed all’esecuzione di opere pubbliche ed alle attività gestionali proprie degli organi elettivi a base territoriale non sono foriere di danno unicamente per le imprese, le associazioni di categoria ed i corpi sociali, bensì, in conseguenza dei ritardi connessi al blocco temporale dalle stesse determinato, producono ricadute estremamente significative soprattutto nei confronti della collettività. E ciò perché, come facilmente intuibile, i ritardi medesimi comportano una indubbia lievitazione dei costi per le P.A. committenti sia in termini di adeguamento dei costi medesimi, sia perché inibiscono o comunque fortemente rallentano il completamento delle opere il cui iter procedurale, che già di per se stesso presenta caratteri di estrema complessità, tortuosità e farraginosità, è sovrainteso da uno stratificato sistema normativo, primario e secondario - si sovrappongono infatti leggi nazionali e regionali caratterizzate da eguale forza cogente in tutta una variegata ed innumerevole quantità di materie i cui confini sono obiettivamente incerti e nebulosi(7) - che appesantisce per obbligo di legge (regolamenti attuativi il più delle volte assenti, regolamenti comunitari, tonnellate di carte, visti, permessi, autorizzazioni e concerti fra plurime autorità) l’intero sistema di funzionamento che così risulta oltre che affetto da endogena elefantiasi peraltro del tutto impropriamente non funzionale agli scopi di correttezza istituzionale che dovrebbero presiedere all’esigenza di prevenire ed evitare ogni fenomeno di corruzione che il sistema delle interdittive intende colpire.  

Infatti se è vero che le procedure ad evidenza pubblica devono svolgersi nel rigoroso rispetto della par condicio e della trasparenza, è altrettanto vero che le stesse devono anche poter funzionare non soltanto con riguardo alla fase di aggiudicazione ma anche con riferimento al necessario momento di realizzazione dell’opera o del servizio, atteso che è indiscutibilmente questa la finalità propria di tutte le gare di appalto. Il focalizzare l’attenzione normativa dell’attuale quadro di disciplina, ampiamente incerto non soltanto per espresso e non commendevole rinvio a regole di secondo grado (linee guida) per lo più ad oggi ancora neppure compiutamente emanate - e peraltro attento più all’aspetto della lotta alla corruzione che agli obiettivi infrastrutturali del Paese - a mio avviso, costituisce un problema di non poco momento perché si finisce paradossalmente con l’agevolare proprio quel fenomeno corruttivo che a parole e con tanto sussiego comportamentale si intende evitare o quantomeno seriamente inibire.  

L’incongruente, disordinato, poco chiaro e contraddittorio attuale asset normativo e le plurime strutture amministrative interessate che, come si è visto si sovrappongono le une alle altre, delineano un quadro istituzionale di riferimento confuso e farraginoso finalizzato più che a concretamente contrastare le indubbiamente disdicevoli pulsioni malavitose, appare essere essenzialmente preordinato a dare - come nel farwest, attraverso un frenetico ricorso ai c.d. wanted ed ai bounty killer (in questo caso istituzionali) - la caccia agli imprenditori ed alle imprese. A ben riflettere il prefato richiamato insieme interviene a stravolgere in maniera e misura non razionali, il contenuto ed i limiti del rischio di impresa che di fatto accresce additivamente per l’imprenditore il pericolo di maggiore incidenza percentuale di poter essere indagato sulla base di un mero sospetto; maggiore possibilità alla quale, rebus sic stantibus, si accompagna l’ineluttabile ed innegabile conseguenza di generare esiziali danni tanto ad esso imprenditore che all’azienda persino in ipotesi di successiva assoluzione o di archiviazione, visto e considerato, che spessissimo delle attività di imprese prima economicamente floride non residuano altro che cumuli di macerie, quando non anche debiti.

Tutto ciò va correttamente e responsabilmente impedito.

Per rendere, invece, effettiva la tutela di difesa sociale occorrerebbe ipotizzare - al fine di garantire misure più adeguate di trasparenza e di riduzione della permeabilità nei confronti della criminalità organizzata - l’approntamento di strumenti normativi più semplici ed efficaci delle interdittive, quali una seria e profonda e finalmente intellegibile riforma dell’attuale Codice degli Appalti, una seria rivisitazione, anche in tema di prospettazione degli interventi operativi oggi previsti dal Codice antimafia evitando, fra l’altro, che a ravvisare il soggetto da indicare la persona che profumi del c.d. odor di mafia non sia il Prefetto ma più opportunamente un Magistrato, il concepimento e la messa a punto di white list che siano effettivamente tali senza l’assurdità della attuale insignificante durata sotto il profilo della loro valenza temporale, oltre alla definitiva e non fittizia cancellazione dal mondo giuridico dell’assurdo criterio del massimo ribasso che porta con sé l’ignobile fardello di consentire il compimento di opere pubbliche di discutibile sicurezza strutturale, peraltro poste in esecuzione attraverso una rete, essa si da colpire senza pietà, di indegne connivenze “…. che infiniti addusse lutti agli Achei….”, proprio a causa del mancato controllo da parte della mano pubblica e dell’assenza di monitoraggio continuo degli standard di sicurezza delle opere, al fine di evitare tragedie di significative proporzioni come ad esempio è avvenuto nel caso del viadotto della Valpocevera a Genova (c.d. ponte “Morandi”).

Se ciò avverrà e soprattutto se si smetterà di inseguire astratti ed in verità poco efficaci interventi c.d. di legalità, peraltro del tutto formale, e non di giustizia, si potrà, senza tema di smentita, asserire che l’eccesso di potere quale vizio della funzione amministrativa avrà ancora una volta pienamente assolto allo scopo cui, da sempre, è teleologicamente preordinato: garantire, cioè, la razionalità del comportamento amministrativo, il buon andamento e la trasparenza dell’azione della P.A. anche riguardo agli odiosi tentativi di ingerenza della criminalità organizzata nelle attività imprenditoriali e negli organi elettivi dei consigli comunali e provinciali.

E proprio perché le norme regolatrici degli istituti di interdittiva riflettono esclusivamente una nozione (tecnicamente) giuridica, bisogna avere il coraggio di abbandonare la tentazione di una lettura sociologica del fenomeno e del concetto di pericolosità sociale, onde evitare di dare la stura a meccanismi abnormi e perversi che di fatto avvantaggiano paradossalmente proprio i gruppi criminali, perché se si giungesse a qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di un mero sospetto si rischierebbe di creare un meccanismo a catena della pericolosità sociale del tutto simile all’inquisizione medievale ed ai suoi perniciosi metodi obiettivamente lesivi dei diritti, delle libertà e della dignità degli individui.

E ciò confligge con l’essenza stessa dello Stato di diritto! 

 

Relazione tenuta il 28 settembre 2018 presso la Sala Valentianum, Piazza San Leoluca, di Vibo Valentia nel Convegno di Studi sul “Codice Antimafia - Interdittive – Scioglimento di Comuni – Misure di prevenzione: criticità e possibili correttivi” organizzato dalla Fondazione Scopelliti di Roma, dai Rotary Club di Nicotera Medma e Polistena e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vibo Valentia.

 

(1) L.M. Delfino “L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia”  in Filodiritto editore, rivista on line www.filodiritto.com, gennaio 2016

(2) Enciclica Centesimus Annus n°46

(3) Sentenza CEDU 23.2.2017

(4) F. Benvenuti, Eccesso di potere per vizio della funzione, RaDP 1950; A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo Milano, 1976

(5) M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Vol. II, pag. 696 e ss, Milano 1988

(6) M.S. Giannini, Diritto Amministrativo Vol. II, pag. 756, Milano 1988

(7) Articolo 117, 3° comma, della Carta