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Perfezione

Trappola (o salvezza?) del mondo contemporaneo
perfezione
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Dove c’è perfezione, non c’è storia. Le imperfezioni sono il vero segno dell’evoluzione e del possibile

Telmo Pievani

 

Dal Latino perficĕre «compiere», indica la condizione di ciò che è condotto a termine, portato a compimento (Treccani).

La perfezione, dunque, presuppone una condizione di compiutezza e, come tale, non necessità di altro per esistere.

In disparte ogni argomentazione filosofica al riguardo, sebbene tale concetto sia stato da sempre al centro delle opere dei più grandi studiosi, preme qui soffermarci sulle implicazioni di tale concetto nella nostra vita quotidiana.

Siamo ogni giorno letteralmente “assaliti” dalla corsa alla perfezione estetica: basta accendere la TV o sbirciare nei social per riconoscere un modello di bellezza ormai stereotipato implicitamente imposto, soprattutto alle donne.

Negli isolati casi di non adesione a tali canoni, fiumi di insulti piovono sui canali social delle povere “anticonformiste” (cd. “body-shaming”). Basti citare, tra i casi popolari, quello della giornalista Giovanna Botteri, criticata per il suo look non proprio “curato” come invece ci si aspetterebbe da chi vien visto in TV da milioni di telespettatori, o quello dell’attrice Vanessa Incontrada, colpita dai leoni di tastiera per le sue forme più morbide del concesso. Entrambe hanno dovuto giustificare ai più la loro scelta di essere semplicemente se stesse, lasciando delle dichiarazioni per me ovvie (perché devo chiedere scusa se ho dei chili in più? O se non ho la piega “perfetta”, appunto?), poi diventate di pubblico dominio.

Più subdola è poi l’altrettanto pressante ricerca della perfezione nella manifestazione delle opinioni sugli argomenti di attualità nei social media: non è raro trovare stimati professionisti attaccati per le loro idee che deviano dagli “standard” di pensiero dominanti o dall’imperante uso distortamente eccessivo del “politically correct” senza il quale pare non ci sia legittimazione a “parlare”.

Considerati i citati sviluppi nella realtà attuale, la perfezione assume un significato limitante delle libertà, degli stimoli, perché legata a una tendenza a rendere omogenei canoni estetici e di pensiero.

Il concetto di identità personale è notevolmente cambiato di pari passo al grado di trasformazione della società.

Più in generale, possiamo riflettere su come la perfezione, da concetto che definisce Dio, in quanto Sommo Essere, diventi un pensiero chiuso[1], che non accetta aperture attraverso le critiche, che non incoraggia al cambiamento, all’evoluzione, perché già in sé pago.

Come egregiamente ha descritto Barbara Martini nel suo Imperfezione, potatura e perdita, “La ricerca della perfezione è una grande trappola, che sia sul lavoro, nella vita affettiva, nelle amicizie. In fondo si è “perfetti” (portati a termine, da qualche reminiscenza di latino) solo da morti, quando non possiamo più fare nulla e non possiamo più cambiare”.

Quando ero piccola, una donna molto importante della mia vita che si chiamava Emma (la voglio citare, permettetemelo, vi prego!) mi regalò, per il mio compleanno, un sasso di fiume sul quale vi era scritto con un pennarello e con caratteri non propriamente precisi: Per essere perfetta, le mancava solo un difetto. Questa frase di Karl Kraus scritta su un ciottolo irregolare è stato uno dei regali più significativi per me: anche se all’epoca non ne comprendevo razionalmente appieno il significato, è stato (ed è tuttora) parte del suo testamento spirituale. Mi ha aiutato ad allentare la tensione quando le mie mete mi apparivano irraggiungibili, ha funzionato da memorandum quando ero troppo attenta a non commettere errori perché troppo preoccupata del giudizio degli altri o ero troppo severa con me stessa.

Il concetto che ci portiamo dentro della perfezione può condurci all’autosabotaggio, cioè a uno stato di malessere o di sofferenza personale, che rende significativamente difficile la vita quotidiana, perché ci prospetta degli obiettivi così ardui per noi da raggiungere che sfocia in frustrazione.

La ricerca della perfezione ci blocca, ci serra in casa se non ci sentiamo abbastanza all’altezza del modello che abbiamo e che ci hanno imposto di avere, ci chiude dentro noi stessi.



Perfezione, problema o virtù?

In realtà, ci sono due modi dunque di intendere la perfezione: uno come problema e l’altro come virtù.

Il primo consiste nel perfezionismo, cioè la tendenza “a considerare inaccettabile qualsiasi imperfezione” oppure “a migliorare indefinitamente un lavoro senza decidersi a considerarlo mai finito”. 

Il perfezionismo in ambiente lavorativo, ad esempio, prende infatti le mosse dalla mancata conoscenza del limite in ciò che si fa: ci porta ad indugiare troppo sui dettagli perdendo di vista l’impianto generale, a detrimento della produttività in termini non solo di tempo di elaborazione ma anche di qualità complessiva del lavoro svolto.

Essere perfezionisti in ogni ambito della nostra vita si traduce in una lotta continua contro noi stessi, che ci destabilizza e ci indebolisce.

Il secondo modo di vivere la perfezione consiste nel concepirla come ricerca di un progresso personale: come tale presuppone proprio l’imperfezione e si identifica nel processo di miglioramento, non nel risultato. In questo caso non vi è nessuna guerra con noi stessi, perché non si vuole annullare, cancellare il difetto, ma accoglierlo per accettarne la relatività, anche praticando l’autocompassione.

A tal riguardo mi viene in mente la leggenda di Tomoe Gozen, una militare giapponese, l’unica guerriera donna descritta nella letteratura epica della tradizione samurai che pare abbia ispirato la protagonista del film “Kill Bill” di Quentin Tarantino.

Si narra che Tomoe riuscì da sola a sconfiggere ben venti samurai e a chi le chiedeva come riuscisse ad essere invincibile lei spiegava che, nel momento stesso in cui sguainava la sua katana, non si sentiva sola, ma aveva con sé gli spiriti delle sue fragilità, delle sue imperfezioni e delle sue debolezze. “Io sono più forte proprio perché sono più fragile”. Tomoe sapeva di poter essere sconfitta e, accogliendo le sue debolezze e imperfezioni, si liberava dalle ansie e dalle paure, vivendo il momento presente e raggiungendo il suo obiettivo di sconfiggere gli avversari.

La perfezione attraverso l’accettazione dell’imperfezione si allontana dall’idea di perfezione pienamente realizzata e diventa umana (e, dunque, non connotato tipico solo di Dio e, come tale, irraggiungibile). 

Il concetto di perfezione che ci dà lo stimolo ad autorealizzarci non è quello di perfezione assoluta, bensì quello di perfezione relativa o “perfezionabile”, cioè perennemente a rischio ma fattibile!

 

[1] Si veda il bellissimo contributo di Barbara Neri dal titolo “Il leader imperfezionista” su www.filodiritto.com