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Autocompassione: capacità di estendere la compassione a sé stessi

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Autocompassione: capacità di estendere la compassione a sé stessi


L’autocompassione è la capacità di estendere la compassione a sé stessi. Il termine “compassione” deriva dal latino cum (insieme) e patior (soffro), per calco del termine greco συμπάϑεια (che significa simpatia, provare emozioni con, piacere, aver interesse per…).

Per compassione il Vocabolario on line Treccani intende il “sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti”, oppure “la partecipazione alle sofferenze altrui”.

La compassione, in altre parole, ci avvicina all’altro, a prescindere dalle valutazioni che possiamo aver fatto sulla persona oggetto di questo sentimento. Posso razionalmente criticare chi non si comporta in maniera corretta. Ma è altrettanto possibile per me percepire la sofferenza altrui che sta alla base del gesto deprecabile e, nel momento in cui emozionalmente partecipo al suo dolore, gli sono vicino. Ecco perché la compassione presuppone l’assenza del giudizio, che, di per sé, divide e allontana dall’altro. Nel momento in cui si capisce il sentire altrui, emerge una nuova conoscenza di sé stessi: è come se stessimo espandendo il nostro “ego”, travalicando i suoi angusti confini fino a farlo affacciare nel recinto di un’altra anima. Non si può non ricordare Dostoevskij che, nel suo “L’idiota” afferma: “Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione”.

Ma cosa succede quando la compassione la rivolgiamo a noi stessi?

Ci stiamo autocommiserando?

Essere compassionevoli con noi stessi significa avere la tendenza esagerata all’egocentrismo che sfocia, come nel romanzo sveviano “La coscienza di Zeno”, nella autocommiserazione che porta il protagonista a nutrirsi di sensi di colpa, autoaccuse e giustificazioni? L’autocompassione presuppone una autoreferenzialità che fa ingigantire i fatti della vita fino a condurci a piangere di noi stessi come Zeno?

L’autocompassione presuppone, in altre parole, un deficit esistenziale causato dalla stretta identificazione di noi stessi con i nostri problemi e gli avvenimenti traumatici che hanno costellato il nostro vissuto?

In realtà l’autocompassione ci aiuta a raggiungere uno stato completamente opposto a quello in cui si trova Zeno.

Essa presuppone, in primo luogo, l’accettazione: si può essere intrappolati nel dilemma più difficile, nelle situazioni più dolorose, nei momenti più infelici, ma ogni volta che si accetta ciò che è, lo si supera, perché lo si trascende. Accettare il mancato realizzarsi delle proprie aspettative di vita, di lavoro, di successo, non significa arrendersi, ma ci permette di non identificarci con la sconfitta e di andare avanti nella direzione in cui volgiamo andare, senza sclerotizzare il nostro dolore, la nostra rabbia, la nostra frustrazione.

Come per la compassione verso l’altro, poi, la compassione verso sé stessi discende dal non-giudizio, passaggio più complicato quando si tratta di noi: è interessante notare, infatti, quanto troviamo facile essere comprensivi, solidali e pazienti con gli altri ma, se ad avere bisogno siamo noi stessi, ci risulta più normale arrabbiarci, deluderci e, quindi, demotivarci e vergognarci. Siamo abituati a ragionare per obiettivi anche quando si tratta della nostra esistenza e, immancabilmente, il raggiungimento o meno degli stessi presuppone un giudizio di valore su noi stessi.  

Il non – giudizio verso noi stessi si accompagna ad un altro ingrediente fondamentale: la gentilezza, la gentilezza verso se stessi, l’auto-gentilezza, appunto.  Una persona autocompassionevole risponde alle difficoltà retrocedendo da una posizione di criticismo e, ahimè, di crudeltà verso se stessa ed avanzando verso una posizione di calore e comprensione.

Fondamentale per riuscire ad essere autocompassionevoli è inoltre la pazienza, anche se è così difficile accettare di essere pazienti in questi “strani giorni” in cui siamo abituati a fare tutto immediatamente, a risolvere ogni problema con un clic. Come chiarisce Grazia Mannozzi, “Dobbiamo imparare ad essere pazienti, principalmente con noi stessi. Facendo pressione su noi stessi diventiamo solo più stressati, il che è dannoso per il nostro processo di riequilibrio.

La pazienza è una virtù essenziale, tanto più importante da praticare quanto più è rivolta verso noi stessi”. Pazienza significa “consentire quei tempi interiori che si fanno luoghi in cui maturano le scelte fondamentali”, perché “la vera difficoltà non è tanto essere pazienti con gli altri quanto essere pazienti con noi stessi”.

L’autocompassione richiede dunque dei passi fondamentali direzionati verso noi stessi non così facili da percorrere.

Eppure l’esigenza di sentirci meglio, innata in noi, dovrebbe condurci direttamente a un atteggiamento più amorevole verso noi stessi. Quando siamo compassionevoli con l’altro, lo aiutiamo anche senza attivarci, per il solo fatto di offrirgli il conforto. E, vedendo il suo sollievo, ci sentiamo meglio anche noi.

Lo stesso risultato potremmo realizzare se, invece di considerarci responsabili, e, dunque, autopunirci provando vergogna e isolandoci, ci accettassimo con quel dolore, ci trattassimo con pazienza e gentilezza.

Seppur complessa e difficile da raggiungere, l’autocompassione è per noi tutti un processo naturale perché fa perno sul nostro innato desiderio di sentirci al sicuro e felici, con saggezza e consapevolezza.

Il “dono” della compassione rivolto a noi stessi:

  • ci aiuta a capire che siamo molto di più di ciò che ci capita,
  • ci permette di non essere sopraffatti da ciò che percepiamo interiormente,
  • ci aiuta a non rinnegare il dolore ma neanche indentificarci con esso, rendendolo combustibile per la nostra consapevolezza in grado di avviare il processo di liberazione dalle nostre prigioni.