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Gratitudine

Gratitutdine
Ph. Niccolò Gurioli / Gratitutdine

Gratitudine” potrebbe sembrare una parola desueta. La logica mercantile dello scambio, il chiudere i conti di qualsiasi tipo dando un prezzo ad ogni cosa, l’autoreferenzialità narcisistica l’hanno come messa in ombra. In verità, “gratitudine” è una di quelle parole che definirei “eterne”. È, allo stesso tempo, originaria e archetipica, ha natura relazionale, è orientata al futuro.

La gratitudine è un sentimento che possiamo coltivare in silenzio, nell’intimo; pur tuttavia è una dinamica intrinsecamente relazionale. La sensazione, sia essa tacita o esplicitata, di gratitudine è infatti sempre verso qualcosa o nei confronti di qualcuno e ci pone costantemente nell’ottica della relazione con ciò che è altro da noi stessi.

Non è facile provare autentica gratitudine. Nel sentire comune, dover essere grati sembra porci in una condizione di inferiorità, come quella di chi è tenuto a chiedere perché non è in grado di provvedere da sé o di chi, ricevendo o ottenendo qualcosa, non è in nella possibilità di ricambiare.

Ha la stessa radice di gratuità e di grazia, la gratitudine, e ha che fare con la logica del dono. Magnifico, il dono. Eppure, paradossalmente, è proprio la capacità di ricevere – speculare a quella di donare – a metterci a dura prova, potendo scalfire la corazza di orgoglio che apparentemente ci protegge, impedendo di vederci per ciò che siamo realmente: creature vulnerabili, incapaci di perfetta autonomia o di duratura autosussistenza e comunque, biblicamente, sempre “mendicanti d’amore”. Laddove il ricevere venga percepito con disagio, infatti, tendiamo a ricambiare rapidamente, non tanto per esprimere gratitudine, bensì per sdebitarci: e cioè per non dover provare gratitudine, per non essere o sentirci in relazione.

Nei luoghi di lavoro, la gratitudine è un sentimento ancor più complicato. La logica del dovere, della performance, dell’efficienza, i modelli aziendalistici orientati al profitto, la competizione costante rendono impersonali i ruoli e, talvolta, ci alienano da noi stessi. Nessuno spazio sembra esservi per la gratitudine. Eppure, dietro ogni ruolo c’è una persona e dietro ogni persona c’è un mondo. E quando ci accorgiamo di questo mondo reale e celato, improvvisamente la realtà ci sembra più complessa ma anche più interessante e persino luminosa. In tale condizione possiamo permetterci di provare gratitudine, superando la logica del dovere e dell’affidamento reciproco.

Si può sentire gratitudine non solo verso il collega che dà il massimo, ma anche verso chi adempie il proprio dovere nonostante difficoltà che noi neppure conosciamo o battaglie che combatte in solitudine e in silenzio, verso il collega che ci aiuta quando siamo in difficoltà, verso chi rende più leggero il nostro compito donandoci un sorriso, verso chi ci apprezza e verso chi ci dà occasione di crescere professionalmente, verso il superiore che comprende, verso chi ci parla con parresia e sa essere fermo senza durezze.

Essere grati non ci toglie nulla. La gratitudine è un sentimento generativo laddove non crei dipendenza, non alimenti debiti di riconoscenza o vincoli eterni. Quando la gratitudine, sganciata dalla logica del contraccambio, viene provata autenticamente e, parallelamente, viene compresa nella sua valenza simbolica e donativa, le persone accedono finalmente a una dimensione etica più elevata: quella della relazione e della solidarietà.