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Persona: l'antico significato di "maschera"

Torre del Mangia a Siena
Ph. Maria Cristina Sica / Torre del Mangia a Siena

I termini di persona, personalità e personaggio, pur non essendo fra loro equivalenti, sono sovente interdipendenti, peraltro non risolvendosi l’uno nell’altro. Un’immagine molto viva delle sottili differenze esistenti fra loro e l’importanza dei modi di dire comuni, circa queste parole, ci sono ricordati da Marc Augé, antropologo, che scrive: “Nessuno oserebbe affermare che il proprio gatto è una persona, ma non avrebbe d’altra parte alcuna esitazione nell’attribuirgli una personalità; così peraltro alcuni nostri simili possono apparire privi di personalità, per quanto non si possa loro negare la qualità di persona”.

L’Autore, nell’Enciclopedia Einaudi, ci ricorda che quando si parla di personalità tout court, si intende di solito una forte personalità, anche se una personalità può essere mediocre, così con l’espressione “È un personaggio!” di solito intendiamo una persona con tratti caratteristici e originali, ma questo termine è utilizzato anche per caratteri strani o insignificanti. In questo senso osserviamo come il termine diventi l’identificazione di un ruolo o di atteggiamenti comportamentali socialmente riconosciuti.

Limitandoci alla parola persona, l’Enciclopedia Treccani sostiene che porta in sé il significato di “individuo della specie umana, senza distinzione di sesso, età, condizione sociale ecc., considerato sia come elemento a sé stante sia come facente parte di un gruppo o di una collettività.

In antropologia, spesso la nozione di persona è inserita e utilizzata all’interno di un quadro istituzionale con un sistema regolato da relazioni sociali.

Ma non possiamo dimenticare la sua utilizzazione in giurisprudenza: nel diritto romano, ad esempio, il termine persona era contrapposto a res, la cosa, indicando l’uomo quale esclusivo soggetto di diritti.

In psicologia poi, Carl Gustav Jung, per fare un riferimento esemplare, considera la persona come quella parte di personalità che copre le strutture psicologiche più profonde, rappresentando l’individuo nella considerazione e nelle esigenze del suo ambiente sociale quotidiano: per lo psicoanalista svizzero, persona è la maschera sociale che ogni individuo assume nella società, nascondendo o rendendo ignoto il lato oscuro della sua personalità, definito dall’archetipo junghiano dell’ombra.

Arriviamo così all’etimologia della parola persona, che in latino indica in origine, come il corrispondente greco πρόσωπον, la "maschera" che l'attore mette sul volto per rappresentare in teatro una data parte; nel tempo passa poi a significare metaforicamente la particolare caratteristica dell'individuo rappresentato, e infine l'individualità umana.

Proseguendo il discorso iniziato con la parola Confidenza nei luoghi di lavoro, a cui rimando (Link: Confidenza), in particolare quando consideravo come vada maneggiata con cura, perché potrebbe provocare imbarazzo nell’altro o infastidire il gruppo, nonché disvelare aspetti troppo intimi per non avere strascichi nelle relazioni lavorative, vale la pena di esplorare la dimensione della persona/maschera.

Lavorare in gruppo, ben lo sappiamo, comporta rinunce o revisioni del proprio modo di pensare, del modo di fare, delle scelte operative, delle proprie consuetudini giornaliere, e così via, per confrontarsi continuamente con il gruppo dei colleghi, con i manager o il leader: non va poi trascurato il fatto che nella sua psicodinamica di base il gruppo tende all’omogeneizzazione, all’uniformità delle condotte e, se vogliamo esagerare, al pensiero unico. Solo un gruppo che ha sviluppato un buon senso di appartenenza ed una consolidata collaborazione riesce a tollerare, se non a favorire addirittura le differenze tra i vari membri. Così anche il rapporto con manager o leader può diventare meno rigido e più fluido.

Proprio la messa in discussione dell’individualità, come si diceva, da parte degli altri può suscitare un senso di inadeguatezza, di disagio, fino all’inquietudine che si prova all’inizio dell’inserimento in un gruppo: tali stati d’animo possono però anche perdurare e cristallizzarsi, senza arrivare ad uno stato di distress.

Proprio per l’esistenza di questi stati d’animo, variabili da soggetto a soggetto, si comprende come esista la tendenza a confermarsi nel proprio ruolo, a ribadirlo nelle discussioni di lavoro, fino a rivendicare una sorta di mansionario per stabilire chi fa che cosa.

Il ruolo, inteso in modo rigido, e le funzioni prestabilite proteggono il singolo dall’emersione della dimensione privata nei rapporti interpersonali: la persona assume la parte di una sorta di attore nel teatro del lavoro, destinatario del dovere di recitare proprio un definito ruolo attribuito dall’azienda. Il vantaggio è quello di mantenere le proprie convinzioni e i propri modi di fare senza farsi influenzare dal gruppo: questo è valido soprattutto per i soggetti che fanno fatica ad adattarsi, ma il limite è grande quando il tipo di lavoro comporta coinvolgimento e significative relazioni interpersonali. All’opposto, ovviamente, possiamo avere un’eccessiva partecipazione emotiva (vi sono professioni che la favoriscono certamente) in cui l’aspetto personale travalica l’ambito del ruolo.

Ricordare allora l’antico significato di persona come maschera, che indossiamo durante il nostro lavoro, ci induce a riflettere sul nostro modo di presentarci agli altri, sull’inevitabile risposta che suscitiamo in loro, sulla qualità dell’interpretazione del nostro ruolo, sul grado dell’inautenticità che in essa ci mettiamo, che non è solo ipocrisia, ma anche tutela della propria privatezza.

Ci sono però, in ogni luogo di lavoro, alcuni personaggi che nell’esasperazione di alcuni tratti comportamentali e comunicativi, assumono il compito di introdurre le emozioni e narrazioni, più o meno piacevoli, nella vita del gruppo di lavoro.