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Lavoro agile

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Lavoro agile

Sono molte le parole che indicano le forme di lavoro da remoto: lavoro agile, telelavoro, smart working, lavoro flessibile, work from home e altre ancora. Ricordo che già nel 2017 la legge 81, quindi ben prima della pandemia Covid-19 (che ha accelerato in modo impressionante la sua applicazione), definiva il lavoro agile e lo smart working, ne dava una prima regolamentazione, caratterizzando il grado di flessibilità organizzativa, differenziandolo dal telelavoro, che prevede una postazione fissa fuori dall’azienda ed orari rigidi e stabiliti, come per il personale che lavora in ufficio.

Quindi solo per chi è in modalità di lavoro agile è possibile lavorare da remoto senza vicoli di orari e di spazi (ad es. da casa, in biblioteca, da amici, in spazi di coworking ecc.), quindi svincolati da una localizzazione geografica. Nel caso di “lavoro agile” si sottolinea talora un'indipendenza attiva, ma parziale, legata ai tempi di vita e di lavoro, nel caso di “smart working” si esprimerebbe invece un lavoro più caratterizzato dalle competenze della persona.

Non intendo dilungarmi qui sui vari tipi di contratto in questo tipo di lavoro, per segnalare solo che è sempre garantito il diritto alla disconnessione: vorrei soffermarmi invece sulla constatazione, presente in più articoli, che “normalmente” il lavoro agile è effettuato a domicilio, da cui l’osservazione ironica di Barbara Stefanelli che il fenomeno epocal-globale dello smart working “con meno enfasi dovremmo chiamare home working, lavoro da casa”.

Da qui sono partite nella mia mente una serie di associazioni: lavoro da casa, lavoro in casa, portarsi il lavoro a casa, casa e bottega e così via, associazioni anche sotto forma di immagini, di flash, di memorie, della serie: c’era una volta……

Come ben si comprende non era l’inizio di una favola, ma l’affastellarsi di ricordi di tempi lontani quando la casa era anche luogo di lavoro, quando l’espressione “casa e bottega” indicava una minima separazione fra luogo di lavoro e abitazione, quando portarsi il lavoro a casa voleva dire, ad. es. per me ma per molti altri universitari, poter riflettere sulle ricerche fatte e iniziare a scrivere una pubblicazione, in santa pace, lontano dai problemi e dai richiami pressanti della clinica.

Ma sono venuti alla mente anche gli storici grandiosi progetti dei villaggi operai vicino alle fabbriche, di cui esistono ancora oggi testimonianze, o delle abitazioni accanto alle saline in Sardegna, per citarne solo alcuni, dove l’appartenenza era un legame strettissimo e la vicinanza era finalizzata ad eliminare viaggi e fatiche extra. Riprendendo modelli utopici urbanistici ottocenteschi, alla Biennale di Venezia di qualche anno fa, il Padiglione italiano presentava il progetto di una città ideale pensata in un arco di vent’anni, formata da piccoli quartieri di 500 metri di lato dove abitare, lavorare e trascorrere il tempo libero in distanze limitate. Questa ipotesi di una sorta di comunità, ripercorrendo in altro modo quei progetti, potrebbe superare uno degli svantaggi del lavoro agile, ossia l’isolamento.

Dopo questa breve divagazione, torno all’espressione “portarsi il lavoro a casa”, che mi ha sollecitato l’immagine di mio padre che, dopo la cena, preparava lo schema del lavoro per il giorno successivo o redigeva delle piccole incombenze amministrative, attirando la nostra curiosità di sapere e imparare.

Ma tale espressione può essere la metafora per dire dell’impossibilità di staccarsi dai pensieri della giornata di lavoro: si crea mentalmente un corridoio che collega lavoro e casa, invece che una netta separazione. Tutti, banalmente, lasciatemelo scrivere, condannano questo, ma ci sono molti lavori, soprattutto quelli che coinvolgono relazioni umane significative, che hanno la necessità di un periodo di decompressione o di evacuazione emotiva per cui solo ciò consente di liberarsi da emozioni eccessive: che siano brutte e fastidiose o belle e molto piacevoli, non fa differenza. Le condizioni di iperstimolazione provocano fatalmente uno stato di eccitamento fisiologico, che può portare ansia ed insonnia (stare davanti allo schermo senza interruzioni, li provoca spesso), come accade nei bambini quando per motivi diversi sono “nervosi e agitati”. Il problema è che oltre alla persona stessa, che se ne lamenta, sono coinvolti anche amici e familiari, che ad un certo punto “non ne possono più”.

Quindi l’impossibilità di “staccare” mentalmente (al di là del diritto alla disconnessione, che è il diritto ad una separazione oraria tra casa/privato e lavoro/pubblico) può essere presente ancor più in alcune persone che svolgono il lavoro agile, dove una parte della casa diventa l’ufficio: il segnalato aumento dell’efficienza e delle ore di impegno dedicate, che dipende anche dal carattere del lavoratore, può trovare un senso in quanto detto. Non va dimenticato che è stato pure osservato un aumento dello stress soprattutto nelle donne, per le quali come ha dichiarato il presidente ISTAT Giancarlo Blangiardo, “andare a lavorare era un’occasione per uscire da un certo ambiente e sviluppare elementi di socialità, il lavoro era occasione per interagire con altre persone, e un lavoro a distanza non dà questa possibilità”.

I punti di forza che ha il lavoro agile per azienda e lavoratore sono così evidenti e tangibili che è superfluo ricordarli, mentre i punti di debolezza, che possono riguardare soggetti e situazioni anche diverse tra loro (interessanti sono le differenti percentuali di diffusione di questa attività in Europa – l’Italia è nella parte inferiore della classifica per Stati), sono la carenza di incontri di persona, quindi l’isolamento, e l’inadeguatezza degli spazi nell’ambito domestico. Questi due elementi, estremamente importanti per la qualità delle relazioni interpersonali e quindi del benessere psichico, sono certamente condizionati, nel vissuto di ogni persona, da aspetti culturali e abitudini comportamentali che si infiltrano nella vita quotidiana, molto dissimili da paese a paese: cultura, linguaggio e abitudini comportamentali sono il nocciolo del senso di appartenenza, come ho discusso in altri contributi, fattore di stabilizzazione gruppale e sociale.

Tuttavia, come ha sottolineato nelle sue brillanti analisi sulle conseguenze delle scoperte tecniche il filosofo Emanuele Severino, non possiamo trascurare il fatto che esse diffondono la loro pratica al di là di ogni frontiera, tendendo a ridurre l’importanza della cultura di appartenenza. Diventando patrimonio comune in grado di privilegiare che ne è in possesso, le tecnologie informatiche pongono nuovi e inquietanti interrogativi sull’identità individuale, sulla qualità delle relazioni sociali e sulla scomposizione/ricomposizione dei gruppi. Il lavoro agile diventa così espressione di una tumultuosa fase di cambiamento, disadattamento e auspicabile riadattamento al nuovo.