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Tu chiamale se vuoi emozioni: la rabbia

Ars curandi Beaune stampa inkjet su carta cotone montata su dibond con cornice in legno.
Ph. Elena Franco / Ars curandi Beaune stampa inkjet su carta cotone montata su dibond con cornice in legno.

“Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono.”
Bertolt Brecht

Riprendiamo il nostro viaggio nelle emozioni, dedicandoci alla rabbia (sempre con il supporto di Erica Francesca Poli con “Le emozioni che curano”). Con la tristezza, di cui abbiamo parlato il mese scorso, è una delle emozioni più “scomode”. Socialmente è poco accettabile e accettata.

Talvolta la trasformiamo in tristezza, le nostre lacrime di rabbia che apparentemente ci rendono più accettabili al mondo ci portano sofferenza. La rabbia ci parla di ingiustizia, di allontanamento da quello che desideriamo e vogliamo raggiungere, del contrasto con i nostri valori.

Come tutte le emozioni, anche la rabbia ha una funzione importante: proteggerci dal mondo esterno che ci contrasta e portarci a raggiungere i nostri obiettivi e a soddisfare i nostri bisogni. È un’emozione che parla di azione e di cambiamento (come ci ricordano due bellissimi articoli del grande Simone Vender: Fare e Cambiamento).

Fisiologicamente ci sentiamo attivati, il cuor batte forte, l’adrenalina circola in abbondanza e le nostre forze paiono decuplicate. Può essere molto utile lasciarle spazio e interrogarla per poi trasformarla in azioni concrete che possono aiutarci a stare meglio. Prendiamo un esempio concreto: mi aspetto un aumento dopo tanti anni di lavoro prezioso e di risultati per la mia organizzazione. Lo chiedo e non arriva. La mia rabbia (più che legittima) mi porta ad analizzare la situazione e a darmi la possibilità di cambiare organizzazione. Oppure di accettare la situazione e cambiare il mio modo di lavorare (rigare la macchina del mio responsabile non è sempre l’opzione migliore). Mi ridà il potere di prendere in mano la mia vita.

Proviamo ora a vivere la nostra rabbia: immaginiamo una situazione di umiliazione, di frustrazione, di rifiuto, di ingiustizia, di tradimento, di non riconoscimento che abbiamo vissuto. Sediamoci comodi e stiamoci dentro, riviviamola, sentiamo i pugni stringersi, il battito cardiaco accelerare, il caldo attivare il nostro corpo: “rabbia che cosa mi vuoi dire?”.

Ascoltiamola e poi lasciamola andare.

Ci sentiremo leggeri e con la possibilità di un’azione e di un cambiamento. Sarà un passaggio dal risentimento al riconoscimento (nostro e autentico) del nostro essere e del nostro sentire.

Come al solito qualche domanda da fare a noi stessi (e alla nostra preziosa rabbia):

  • Che cosa voglio ottenere in questo momento?
  • Chi mi ostacola?
  • Che cosa mi dà fastidio?
  • Quale mio bisogno o valore è in pericolo?
  • Come cambierò dopo questa esperienza?
  • Che cosa avrò imparato?
  • Che cosa sto scoprendo di nuovo di me?

Chiudiamo con un saggio aforisma buddista:

Trattenere la rabbia è come trattenere un carbone ardente con l'intento di gettarlo a qualcun altro; sei tu quello che si scotta.”

Buona riflessione e relax “altrimenti ci arrabbiamo”.