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Fare

Corno alle Scale, 2018
Ph. Alessandro Saggio / Corno alle Scale, 2018

Fare è un verbo che appartiene al vocabolario di qualsiasi professione, quindi anche a quella del manager. Inoltre si attaglia bene all’identità professionale, così come è stata ben descritta da Alfredo Biffi, che la sintetizza nella domanda: “sai o no fare il tuo lavoro?” (Link). Certo, come poi sottolinea l’autore, ci sono i problemi legati alle relazioni che si realizzano nel gruppo di lavoro; come pure è determinante il contesto in cui si svolge l’attività, che ne condiziona il suo svolgimento.

È superfluo ricordare che il fare, oltre al cosa fare e come fare, costituiscono gli aspetti essenziali di ogni attività lavorativa, essendo pure parte essenziale delle attese di chi commissiona il lavoro o di chi ne usufruirà.

Essere operativi, mediante la conoscenza degli attrezzi e degli strumenti, grazie anche ai tirocini ed alle esperienze pratiche, è lo scopo primario del lavoro e pertanto diventare operativi costituisce l’obiettivo principale della formazione: soprattutto nelle professioni che si fondano in particolare su nozioni tecniche, vi è il rischio che sia trascurata quella dimensione umana costituita dalla riflessione e dalla riflessività (sulla quale si è soffermato in modo esaustivo Giovanni Lodigiani - Link).

Anche quando ci rivolgiamo ai manager, nei corsi, nei seminari, nelle lezioni, ho l’impressione (ma è quasi una certezza) che le loro attese siano quelle di avere degli strumenti per superare le difficoltà, dei mezzi precisi e sicuri per affrontare i conflitti, dei suggerimenti non troppo generici per coinvolgere i collaboratori.

Forse anche per questo, da vari anni sono molto apprezzate, nella formazione professionale, le testimonianze ed il racconto delle esperienze personali di esperti: la loro narrazione, infatti, suscita sempre molto interesse, per quanto mi risulta, non solo per l’umana curiosità, ma anche per la possibilità di essere partecipi, tramite la “finzione del racconto”, a fatti, azioni, eventi, scelte che potrebbero essere utilizzati nel proprio apprendimento professionale. Imparare una professione è sempre rubare qualcosa a qualcuno e questo fa parte della vita: nella situazione ipotizzata prima, vi è la speranza di una possibilità di apprendere tramite  l’imitazione.

Sappiamo bene come i giovani alle prime armi o coloro che hanno pochi anni di esperienza in una professione, spesso parlino “come un libro stampato” o ripetano “come un pappagallo” ciò che hanno appreso: non possiamo far loro una colpa, perché è un passaggio inevitabile per crescere professionalmente.

Solo dopo anni si può raccontare la propria esperienza con disinvoltura, quando l’identità professionale è diventata qualcosa di solido (trattasi di un processo non breve ed anche faticoso), qualcosa che ci appartiene e per la quale siamo riconosciuti: non si tratta più solo di un’imitazione.

Ci vuole tempo, forse troppo tempo per arrivare a questo traguardo, troppo rispetto ai ritmi della società attuale. Ci vuole anche pazienza ed è necessario essere “pazienti con gli altri e con se stessi” (rimando al bel contributo di Grazia Mannozzi  durante periodo di crescita – Link).

Ma in questo tempo dell’attesa, cosa si  può fare? Ritorna il verbo fare, al quale accosterei a questo punto quello di pensare.

Fare e pensare (oltre ovviamente studiare perché da giovani si ha più tempo) devono essere due verbi inscindibili nell’attività umana. Nel nostro sviluppo fisiologico, nelle nostre prime fasi di crescita il fare precede ampiamente il pensare, perché la funzione mentale si organizza più lentamente e più avanti negli anni. La motricità è molto presente fin dalla nascita ed è quella che ci consente di sopravvivere se siamo sufficientemente accuditi: i riflessi motori innati stanno alla base delle funzioni fisiologiche, il linguaggio ed il pensiero verranno parecchio tempo dopo, quando saranno anche maturati, in parte, i movimenti volontari.

Crescendo, tuttavia, si ritiene che il pensiero, la mente, possa indirizzare, dirigere, condizionare totalmente le nostre azioni e le nostre scelte. Ma i lapsus, gli atti mancati, gli errori, gli sbagli, le scelte avventate ed altro, come l’impulsività, sono lì a ricordarci come non siamo proprio sempre “padroni in casa nostra”. Tanto più quando ci sono di mezzo relazioni molteplici e significative che ci coinvolgono emotivamente, e le emozioni si manifestano sempre mediante il corpo, la mente non è sufficientemente in grado di controllare i gesti, le azioni, le espressioni.

Allora il tempo dell’attesa per il raggiungimento di una solida identità professionale, va dedicato al pensare, pensare e riflettere, da soli ma soprattutto insieme: un pensare che non deve trascurare il fare, perché la riflessione va indirizzata su quanto è stato fatto o si sta facendo, sulle risposte e sulle reazioni che si sono osservate o osserviamo nelle persone e nell’ambiente che ci circonda.

Va dedicato tempo a riflettere sui modi del nostro agire, con la possibilità feconda di confrontarsi con gli altri e con le persone più esperte, da cui “prendere” qualcosa che ci può aiutare, in modo assolutamente legittimo. Questo è proprio come essere in una scuola, di qualsiasi grado essa sia: un luogo in cui cresci con gli altri, fai qualcosa con gli altri ed ap-prendi insieme, sviluppando/ampliando il tuo pensiero e vivendo insieme.

Va da sé che in questo contesto non intendo scuola in senso istituzionale, ma come un luogo o uno spazio/tempo in cui tutto quello che prima dicevo possa accadere.

Fare e pensare insieme, che è il grande pregio di un gruppo di lavoro, vuol anche dire sviluppare l’abitudine alla discussione collettiva, perché è sempre più evidente che l’approfondimento di una situazione lavorativa problematica richiede l’integrazione di varie prospettive e di diversi apporti, sia sul versante tecnico-conoscitivo sia sul versante emozionale. Proprio se ci si abitua a questo, si può scoprire che i conflitti sono in realtà prospettive diverse di interpretare la realtà, che arricchiscono il pensiero del singolo e del gruppo, aprendo a impensate soluzioni.