Cambiamento
“La tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”
Gustav Mahler
Sarà la stagione attuale cioè l’autunno, sarà l’attenzione sociale a questo termine per il clima mutato, sarà la pandemia che ci ha portato a situazioni completamente nuove ed imprevedibili, saranno state le vicende istituzionali nazionali, sarà stato tutto questo ed altro, di fatto la parola cambiamento ha iniziato a girare per la mia mente in modo sempre più pressante.
Così mi è venuto di getto sceglierla per questo contributo: il termine è utilizzato in vari contesti, come ben sappiamo, per cui mi limiterò a fare qualche riflessione su quello che riguarda le abitudini, il carattere, le relazioni che si hanno nella vita quotidiana personale e sociale, compreso il lavoro.
Se pensiamo alla vita politica e sociale, chi non promette un cambiamento più o meno radicale delle scelte e delle azioni, creando attese in tante persone, che poi si accorgono come sovente nulla cambia, ricordando Tomasi di Lampedusa?
Eppure trasformazioni significative e notevoli sono intervenute negli ultimi decenni nella vita quotidiana e lavorativa, per la scoperta di nuove tecnologie, di scoperte scientifiche, di scelte organizzative mai attuate. Sarebbe interessante studiare e comprendere come un vecchio strumento di prevenzione sanitaria, come il vaccino, abbia scatenato un po’ ovunque reazioni collettive così intense, anche aggressive.
Ma senza divagare, il cambiamento spesso auspicato, suscita reazioni personali e di gruppo inaspettate: infatti, dopo la speranza ed l’attesa di un cambiamento, la fantasia di tante soddisfazioni per un nuovo lavoro, per un avanzamento nella carriera dopo un concorso o un’occasione fortuita, dopo il sogno di poter sperimentare nuove iniziative con persone diverse o le stesse di prima con un ruolo differente, poco dopo gli entusiasmi ed i festeggiamenti, la realtà ti travolge, il nervosismo ti prende, ti capita, magari anche di lamentarti ed allora ti senti dire: “hai voluto la bicicletta, pedala!!”. Frase un po’ vecchiotta che andrebbe magari aggiornata, ma il senso rimane nella sua verità psicologica: dopo la luna di miele, arrivano le frustrazioni, le difficoltà con i collaboratori, l’ansia e l’inquietudine per non raggiungere obiettivi, la fatica e l’ansia, nonché il rimpianto, talora anche questo, per aver lasciato il posto precedente. Del resto il cambiamento della propria casa (il trasloco), del proprio studio, delle proprie abitudini quotidiane, indipendentemente dai motivi per cui accade, costituisce uno stressor tra i più importanti per lo stato psichico di ciascuno: come se nella casa o nel luogo di lavoro, nei muri e nelle relazioni si spalmasse una propria parte di sé e della stessa identità. La risposta sintetica a tale stressor, individuale e collettiva, è la nostalgia nota anche come mal de Suisse: già nel 1710 Theodor Zwinger sostenne che il Canto dei vaccai provocasse la nostalgia del Paese nei soldati svizzeri al servizio dello straniero, lontani dal proprio suolo, e li inducesse alla Diserzione. Era considerata una malattia letale e curabile solo con il ritorno in patria. Ovviamente la volontarietà o meno dell’allontanamento ha la sua importanza, ma incide solo per una parte, e non è sempre quella più significativa.
La nostalgia non va considerata di per sé oggi una patologia, perché in questo caso si parla semmai di malinconia o depressione grave: la nostalgia, infatti, accanto all’attaccamento al passato, che si esprime sotto forma di ricordo, può contenere in sé una diversità di umori, una “tristezza variegata, una raffinatezza nello scoramento o nel lutto che sono segni di un’umanità, certo non trionfante, ma combattiva e creatrice” (J. Kristeva). Si potrebbe dire che attraverso la nostalgia dalle ceneri si transita alla cura del fuoco.
Se poi questo cambiamento non accade, per accordi che non vanno in porto, per il risultato negativo di un concorso, per l’inadeguatezza della proposta o per la difficoltà di realizzarla per motivi personali, familiari e così via, si è di fronte alla necessità di riaggiustare le attese, le speranze, di affrontare la delusione. Accade così che pure il mancato cambiamento, ci costringe a fare i conti comunque con una molteplicità variegata di stati d’animo, di relazioni sofferte con sé stesso e gli altri. È un lavoro faticoso pure quello di rivedere i propri progetti per la vita, magari a lungo accarezzati, che sfuggono di mano. La delusione può essere cocente, perché costretti a separarsi da qualcosa che si è immaginato come realizzabile. Di solito in questo caso gli stati d’animo sono più facilmente compresi e condivisi, rispetto alla situazione precedente, ove la persona può sperimentare un maggiore senso di solitudine.
Vi è poi anche un’altra condizione, affatto particolare, che è quella di uno sperato cambiamento senza cambiare, si potrebbe dire, rimanendo all’interno dello stesso luogo di lavoro, quindi senza trasferimento. Non aspirare ad una possibile carriera all’esterno della propria istituzione di appartenenza, optando invece per una scelta esclusivamente all’interno della propria sede, può essere vista come è una sorta di rinuncia ad un’avventura, ad una messa in gioco di sé stessi e anche ad un evitamento dei sentimenti e degli stati d’animo connessi ad un cambiamento di relazioni, conoscenze, luoghi, sedi, abitudini quotidiane, di cui ho parlato prima. Ho ben presente le difficoltà, le tensioni ed i conflitti, di carattere personale, familiare e micro-sociali, che sorgono quando una persona decide di “migrare”. Sto pensando, ora, a quelle realtà lavorative in cui si vive e si esercita la professione in un luogo con una grande tradizione, storica e culturale: qui è molto facile che esista un forte senso di appartenenza, che diventa ed è un’attrazione per legami personali, culturali e materiali che non si possono sciogliere. E qui la tradizione, come complesso di notizie, testimonianze e memorie che si trasmettono da una generazione all’altra, corre il rischio di diventare idolatria, per esorcizzare le strade impure del cambiamento. All’opposto, non va dimenticato, la reazione capovolta di chi andandosene dal luogo e dall’istituzione di appartenenza vuole scrollarsi di dosso la tradizione con il suo passato, considerandola come un retaggio polveroso ed asfittico.
Il cambiamento, nel senso della modificazione del rapporto IO-Noi, Io-Gruppo di appartenenza, è un percorso molto complicato, faticoso, fonte di entusiasmi e tristezze. La diade tradizione/cambiamento rimanda proprio a tutto quanto si è detto e ci ricorda che il nostro futuro ha le radici nel nostro passato.