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Gentilezza

Il bacio di Hayez, 1859, Pinacoteca di Brera, Milano
Il bacio di Hayez, 1859, Pinacoteca di Brera, Milano

Qualche giorno fa ho ricevuto in dono il libro di un artista, che racchiude le poesie da lui scritte e la riproduzione di alcune tra le sue opere d’arte più interessanti. Lo accompagnava una dedica solo all’apparenza semplice: «a Grazia, con gentilezza».

Essendo una professoressa ho ricevuto molti libri in omaggio, che nella dedica contenevano il più delle volte ampie parole di ammirazione, di affetto, o espressioni quali «con cordialità», «con riconoscenza», «con amicizia» ma mai ne ho ricevuti dedicati «con gentilezza», o meglio, null’altro che «con gentilezza»: una formula, allo stesso tempo, minimale e sconfinata.

Ciò mi ha indotto a riflettere sul fatto che la gentilezza è difficile da definire e, prima ancora, da pensare: non è una qualità, una virtù o un sentimento morale declinabile univocamente quanto a significato o rappresentabile, al pari degli altri, in forma di allegoria.

La gentilezza è, forse, semplicemente un modus; la parola latina, in particolare, qui usata non certo per vano preziosismo linguistico, rimanda sia all’idea sia di modalità, sia a quella di misura delle cose.

Si distingue anzitutto dalle virtù, la gentilezza, anche solo per la difficoltà di essere affiancata a una forma verbale che la sostiene o ne diventa vettore: si può usare la forza, perseguire la giustizia, fare la pace, si può essere temperanti, avere fede, nutrire speranza o comportarsi secondo carità, ma per la gentilezza che dire?

Riparto dunque dalla parola, cominciando col ricordare che il termine gentilezza etimologicamente ha una connotazione che si potrebbe definire classista. Deriva infatti dal latino gens e si riferisce, almeno inizialmente, alla nobiltà ereditaria e, perciò, a uno status. Solo successivamente, stando alla interpretazione degli stilnovisti, la gentilezza è divenuta una qualità che può essere acquisita con l’esercizio della virtù e con l’elevatezza dei sentimenti. Il termine gentilezza viene ora utilizzato, in senso traslato rispetto a quello originario, per indicare un insieme di atteggiamenti che vanno dalla premura alla benevolenza, dalla sollecitudine alla cura, dal rispetto alla gratitudine, dal garbo alla cordialità, dalla grazia alla bontà.

Eppure, la parola gentilezza ha qualcosa di ineffabile al punto che la somma degli stili e delle attitudini che fanno di una persona una creatura gentile non conduce a una definizione terminologica del tutto soddisfacente.

Qualche anno fa, un amico architetto, cinofilo e giudice di esposizione, mi disse a proposito dei levrieri: «sono cani gentili». Cosa voleva dire con l’attributo «gentile», che potrebbe apparire persino stravagante se riferito a una razza canina?

Mettendo insieme le due suggestioni, provenienti da mondi e competenze diverse (l’arte e la cinofilia), ho avuto la conferma che la gentilezza può essere una qualità intrinseca (di persone o animali) ma anche una modalità di relazione, o persino un way of life.

Come qualità, la gentilezza è tessuta insieme da fili di ascolto, rispetto, empatia. Rifugge il troppo: la simpatia, l’allegria, la cordialità smaccata, le lusinghe, le premure eccessive o l’insistenza, l’invadenza e l’assenza, la prolissità e il silenzio. È più vicina al meno piuttosto che al più. O forse la gentilezza si trova proprio nel mezzo, nella ricerca di un equilibrio naturale del vivere nel rispetto della dignità propria e altrui. Si ritorna dunque all’idea di modus, e cioè a una gentilezza come atteggiamento dell’animo, come modalità attenta, sobria e misurata di accostarsi all’altro, come presenza immancabile ma discreta, armoniosa e autentica.

Un dono fatto con gentilezza è espressione di una comunicazione rispettosamente garbata senza perdita di intensità. È un dono di una delicatezza tale che crea un legame che non impegna, perché scevro da qualsivoglia imposizione, pretesa di reciprocità o di gratitudine.

L’equilibrio insito nella gentilezza è allora diventato per me la chiave per sciogliere anche il significato della gentilezza attribuita ai levrieri: per esperienza diretta posso dire che sono animali silenziosi senza indifferenza, attenti senza allarmismo, presenti senza insistenza, affettuosi senza invadenza.

Occorre chiedersi, allora, al di là di ogni tentativo di definizione: quanta gentilezza, ricevuta e donata, è entrata nella nostra parabola esistenziale e quanta ne sperimentiamo nella quotidianità?

Mai come gli ultimi tempi la parola «gentilezza» sembra essere in auge e allo stesso tempo stridere con una realtà il più delle volte fatta di contrapposizioni e di conflitti, di mute incomprensioni e di parole scagliate come strali. È una parola «di moda» eppure quanto più circola, evocata quale aspettativa individuale o quale bisogno sociale, tanto più vuol dire che la gentilezza è merce rara.

Fermiamoci dunque a pensare alla gentilezza, lasciamoci guidare dalla gentilezza che ci appartiene, senza forzature, proclami o ostentazioni: lasciamo entrare la gentilezza nelle nostre relazioni lavorative, a partire dalla cura dello spazio in cui operiamo, dal rispetto verso gli strumenti di lavoro che usiamo, per giungere alle persone, con le quali condividiamo, prima ancora che un rapporto di colleganza, un tempo di vita significativo.

Togliamo il rumore del «più», del «troppo» e dell’«inutile» e riappropriamoci di uno luogo, fisico e mentale, atto a liberare o a ricostruire la nostra unica, personalissima e irrinunciabile capacità di gentilezza.