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La memoria autobiografica tra passato e presente: aspetti psicoforensi

La memoria autobiografica è organizzata secondo un self-memory system, ovvero un insieme di rappresentazioni mentali costruite a partire da conoscenze autobiografiche e memorie episodiche già appartenenti al magazzino mnestico del soggetto
La memoria autobiografica
La memoria autobiografica

La memoria autobiografica tra passato e presente: aspetti psicoforensi


La memoria autobiografica è organizzata secondo un self-memory system, ovvero un insieme di rappresentazioni mentali costruite a partire da conoscenze autobiografiche e memorie episodiche già appartenenti al magazzino mnestico del soggetto

[La versione integrale di questo articolo sarà pubblicata nel numero 2/2022 della Rivista Percorsi Penali, in uscita ad aprile]

L’esperienza forense e la cronaca ci rimandano molti casi in cui, anche molto tempo dopo i fatti, qualcuno ricorda di avere subito un danno per il comportamento più o meno violento di qualcun altro, l’altro lo nega. A rigor di logica, e l’esperienza lo conferma, il passare del tempo dovrebbe diminuire l’accuratezza del ricordo. Come può succedere che, in questo caso, il ricordo sia non solo accurato ma anche più ricco di dettagli? Ancora, come è possibile che, d’un tratto, affiorino i ricordi di fatti che avremmo subito come vittime, talvolta violenze sessuali o maltrattamenti di vario tipo? Si tratterebbe, dunque, di un ricordo che semplicemente non era alla portata della memoria sino a quando riemerge, oppure è plausibile ipotizzare che questo ricordo sia frutto di una ricostruzione?

Qualcuno ha detto che la storia è la propaganda del presente: ecco, ciò può essere vero anche nel caso della memoria autobiografica, ovvero che ciò che riemerge dal suddetto magazzino sia il risultato delle circostanze presenti?


La memoria dell’infanzia

È pur vero che il tempo scolora i ricordi: si pensi al racconto di un falso ricordo appartenente all’infanzia di Jean Piaget, psicologo dell’età evolutiva.

Quest’ultimo, nella celebre opera del 1945, “La formation du symbole chez l’enfant: imitation, jeu et reve, image et représentation [1], ricordava di essere stato rapito all’età di due anni, quando si trovava con la sua babysitter, ed era in grado di descrivere il racconto di quell’esperienza con una serie di dettagli molto specifici, come il fatto che si trovasse nella sua carrozzina, oppure la scena di un poliziotto, con tanto di mantella e manganello, intento ad arrestare il rapitore. Piaget è stato fermamente convinto di aver vissuto tale esperienza per ben tredici anni, rinforzato anche dal racconto della babysitter, dalla famiglia e da coloro che erano venuti a conoscenza della sua storia.

Il ricordo di quest’esperienza è quello che viene chiamato, per definizione, un falso ricordo: questo rapimento non è mai avvenuto, infatti la babysitter ha poi confessato alla famiglia di Piaget di essersi inventata l’intera storia per giustificare il fatto che si fosse allontanata con l’amante. Anni dopo, Piaget commentò la vicenda nel seguente modo: «Devo dunque aver sentito, da bambino, il resoconto di questa storia e devo averlo proiettato nel passato nella forma di una memoria visiva, che è la memoria di una memoria, ma è falsa» (Piazza, 1979)1.

Sappiamo che i ricordi legati all’infanzia sono tra i più salienti nella memoria autobiografica, poiché le prime esperienze del bambino sono principalmente somatiche e percettive, dunque vengono immagazzinate in memoria attraverso una fase di apprendimento implicito [2].

È noto come i bambini già a 6 mesi possiedano una sorta di magazzino di memoria a lungo termine (con un massimo di 24 ore di ritenzione), i cui ricordi, però, possono essere recuperati solo in forma non-verbale fino ai due anni di età circa [3]. Quanto al ricordo delle memorie autobiografiche, essendo queste caratterizzate da informazioni relative al “quando”, “dove” e “cosa” di uno specifico evento [4], si sa che i bambini sono in grado di cogliere le informazioni sul “cosa” e, in particolare, sul “dove”, poiché ogni evento è strettamente dipendente dal contesto in cui si svolge [5].

Tuttavia, alcuni autori [6] sostengono che non si possa realmente parlare di memorie autobiografiche quando ci si riferisce ai ricordi legati alla fase dello sviluppo pre-verbale nell’infanzia, poiché, in questo periodo, il bambino non possiede ancora un senso del sé che gli permetta di esperire gli eventi come parte della propria storia personale.

Allo sviluppo del senso di sé in termini cognitivi, si aggiunge poi lo sviluppo della competenza linguistica, che segue, tendenzialmente, tappe comuni. Infatti, solo nel momento in cui il bambino è in grado di fare riferimento verbalmente ad eventi del passato – abilità che viene acquisita tra l’uno e i due anni di età – si può dire che stia ricordando un evento accaduto in altro tempo e luogo.

Sappiamo anche che i ricordi si formano a partire da tracce mnestiche appartenenti al magazzino di memoria a lungo termine, che, per il suo funzionamento, coinvolge l’area cerebrale del lobo pre-frontale inferiore, che è però sottosviluppato nei bambini. Dunque, si potrebbe ipotizzare che il meccanismo richiesto per tali processi di classificazione ed immagazzinamento dei ricordi non si adatti al cervello di un bambino.

Un’interessante riflessione sulle memorie autobiografiche infantili verte, poi, sulla possibilità o meno di recuperare in forma verbale quei ricordi che sono stati codificati in forma non-verbale.

Gli autori [7] spiegano, da una parte, che i bambini sarebbero in grado di recuperare verbalmente i ricordi solo tramite lo stesso linguaggio che possedevano all’età della codifica del ricordo, mentre, dall’altra, ciò sarebbe diverso per i ricordi traumatici, poiché, se l’evento traumatico si è verificato in un’età in cui il bambino non aveva ancora raggiunto determinate tappe dello sviluppo linguistico, lo stesso ricordo traumatico non possa essere tradotto verbalmente, proprio a causa della mancanza di un vocabolario all’età della codifica.

Altri [8] ci dicono, invece, che questa abilità non dipenderebbe dalla competenza linguistica posseduta all’età della codifica del ricordo, ma dalle abilità acquisite dopo l’esperienza e la codifica dell’evento che, tramite il richiamo più o meno guidato, permetterebbero di potenziare la competenza linguistica per tradurre eventi esperiti in una fase dello sviluppo molto precoce. Dunque, secondo questa prospettiva socio-linguistica [9] [10], [11], la costruzione delle memorie autobiografiche dipenderebbe sia dal livello di competenza linguistica acquisita dal bambino in una certa fase dello sviluppo sia dal contesto sociale nella misura in cui questo favorisce l’acquisizione di altre competenze.

Il concetto di falso ricordo è stato poi ulteriormente approfondito dalla psicologa statunitense Elizabeth Loftus, la quale ha introdotto il “paradigma dell’effetto di misinformazione”: l’esposizione a nuove e/o fuorvianti informazioni post-evento sarebbero in grado, a livello cognitivo, di modificare o addirittura distruggere la traccia mnestica originale.

Per spiegare questo concetto, la Loftus ha condotto una serie di esperimenti, tra cui il cosiddetto “lost in the mall”, letteralmente “persi nel centro commerciale”, formalmente condotto e discusso da Loftus e Pickrell nel 1995 [12]. Nell’esperimento, ai partecipanti venivano mostrati una serie di racconti scritti, di cui tre erano di proprie esperienze infantili realmente accadute ed una invece era un falso ricordo, ovvero l’esperienza di essersi smarriti all’interno di un centro commerciale quando erano bambini. Intervistati a distanza di un paio di settimane dalla prima sessione, il 25% dei partecipanti riportava un vago ricordo della suddetta esperienza. Al di là delle imperfezioni metodologiche e delle controversie che sono emerse, questo studio ha avuto un enorme impatto sulla comunità scientifica, che si è quindi dedicata alla replica di questi esperimenti, per meglio definire il concetto di falso ricordo. Cos’è, dunque, un falso ricordo?

Diverse sono le concettualizzazioni che sono state proposte negli anni: un falso ricordo può essere un ricordo di un evento accaduto ma distorto, o integralmente o parzialmente, oppure un ricordo inventato di qualcosa mai accaduta.

[1] Piaget, J. (1945). Formation du symbole chez l’enfant: Imitation, jeu et rêve, image et représentation. NEUCHÂTEL: Delachaux et Niestle’. (trad. it. La formazione del simbolo nel bambino: Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione, E. Piazza, Firenze: La Nuova Italia, 1979).

[2] Hugdalh, K. (1995). Classical conditioning and implicit learning: The right hemisphere hypothesis. In R.J. Davidson & K. Hugdalh (Eds), Brain asymmetry (p. 235-267). The MIT Press.

[3] Barr, R., Dowden, A., & Hayne, H. (1996). Developmental changes in deferred imitation by 6-to 24-month-old infants. Infant Behavior & Development, 19(2), 159-170.

[4] Tulving, E. (1985). Memory and consciousness. Canadian Psychology, 26(1) 1-12.

[5] Reese, E. (2009). The development of autobiographical memory: Origins and consequences. Advances in child development and behaviour, 37(1), 145-200.

[6] Howe, M.L., & Courage, M.L. (1993). On resolving the enigma of infantile amnesia. Psychological bulletin, 113(1), 305-326.

[7] Simcock, G., & Hayne, H. (2002). Breaking the barrier? Children fail to translate their preverbal memories into language. Psychological Science, 13(3), 225-231.

[8] Cheatham, C.L., & Bauer, P.J. (2005). Construction of a more coherent story: Prior verbal recall predicts later verbal accessibility of early memories. Memory, 13(5), 516-532.

[9] Fivush, R. (1994). Young children’s event recall: Are memories constructed through discourse. Consciousness and Cognition, 3(1), 356-373.

[10] Fivush, R., Haden, C.A., & Reese, E. (1996). Remembering, recounting, and reminiscing: The development of autobiographical memory in social context. In D. Rubin (Ed.), Remembering our past: Studies in autobiographical memory (pp. 341-359). Cambridge University Press.

[11] Nelson, K. (1993). The psychological and social origins of autobiographical memory. Psychological science, 4(1), 7-14.

[12] Loftus, E.F., & Pickrell, J.E. (1995). The formation of false memories. Psychiatric Annals, 25, 720-725.