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Spunti penalistici in materia di non refoulement ed obbligo di soccorso in mare

Criminal ideas on non refoulement and rescue obligations at sea
H2O - Carmen Cortés Cañagueral
H2O - Carmen Cortés Cañagueral

Abstract

Il presente lavoro intende fornire alcuni spunti riguardo l’impatto che sia l’obbligo di soccorso in mare che il principio di non refoulement hanno sul sistema penale, anche alla luce della recente tendenza degli Stati europei, così come dell’UE, ad esternalizzare sempre di più le proprie frontiere, con ripercussioni, anche, sul concetto di giurisdizione.

This paper intends to provide some insights into the impact that both the obligation to rescue at sea and the principle of non-refoulement have on the criminal system, also in the light of the recent tendency of European states such as the EU to increasingly outsource their borders, with repercussions, too, on the concept of jurisdiction.

 

Sommario

1. L’obbligo di soccorso in mare e le sue ricadute sul sistema penale italiano

2. Il principio di non refoulement alla luce del diritto penale italiano

3. L’esternalizzazione delle frontiere e le sue ricadute in termini di giurisdizione penale

 

Summary

1. The obligation to rescue at sea and its repercussions on the Italian criminal system

2. The principle of non-refoulement in the light of Italian criminal law

3. The externalization of borders and its repercussions in terms of criminal prosecution

 

1. L’obbligo di soccorso in mare e le sue ricadute sul sistema penale italiano

Il mare ha rappresentato storicamente l’ambito di espressione delle esigenze di coesistenza internazionale e di salvaguardia della vita umana, ed in tal senso rimanda ad una spesso difficile coesistenza tra interessi, spesso apparentemente contrapposti, quali, appunto, l’obbligo di salvare la vita umana in mare, la pretesa punitiva degli Stati nazionali, anche in un’ottica di difesa dei confini, il rispetto delle convenzioni internazionali marittime.

L’obbligo di salvare la vita umana in mare[1] è un obbligo generale e universale, che di fatto vincola tutti gli Stati, in qualsiasi tempo, e si applica a tutte le zone marine e a tutte le navi, sia pubbliche che private, ed è contenuto in una norma di diritto internazionale consuetudinario[2], di natura cogente, da considerarsi, pertanto, parte dell’ordinamento giuridico italiano ai sensi dell’art. 10, comma 1, Cost. Tale obbligo è stato ribadito in molti trattati internazionali, quali la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)[3], la Convenzione per la salvaguardia della vita in mare (SOLAS)[4] e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso (Convenzione SAR), che prevedono obblighi per tre categorie di soggetti: gli Stati di bandiera, gli stati costieri e i comandanti di navi[5].

Per quanto riguarda gli Stati di bandiera, ai sensi dell’art. 98 UNCLOS, essi hanno l’obbligo di imporre ai comandanti delle loro navi di soccorrere qualsiasi persona si trovi in mare in pericolo, ovunque si trovino, oltre che il dovere di adottare misure legislative, amministrative e coercitive che lo rendano effettivo. A proposito di ciò è da notare come, nell’ambito di alcune indagini giudiziarie, alcuni comandanti di navi facenti capo ad ONG siano stati indagati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui all’art. 12 del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (d’ora in avanti TUI).

A tal proposito, appare utile fare un breve cenno alla vicenda della nave – battente bandiera tedesca − Cap Anamur[6], il cui equipaggio aveva tratto in salvo alcune decine di naufraghi e condotti in salvo sulle coste italiane. In quell’occasione i giudici di merito riconobbero che la condotta di salvataggio attuata dagli imputati, benché idonea «a integrare la fattispecie criminosa contestata in rubrica sotto il profilo dell’elemento oggettivo del reato», trovava «giustificazione nella scriminante di cui all’art. 51 c.p., nella specie di adempimento di un dovere imposto da una norma di diritto internazionale»[7], che si riferisce all’obbligo di soccorso in mare.

 La Convenzione di Amburgo del 1979, conosciuta come SAR (Search And Rescue), ratificata in Italia con legge 3 aprile 1989, n. 147, ha invece il pregio di definire compiutamente il concetto di ricerca, e di soccorso, definendo la prima come «[a]n operation, normally co-ordinated by a rescue co-ordination centre or rescue sub-centre, using available personnel and facilities to locate persons in distress», e il soccorso come «[a]n operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety», introducendo, altresì, il concetto di “luogo sicuro”. Definisce, inoltre, le c.d. zone SAR (search and rescue regions), come aventi la funzione di «help ensure the provision of adequate shore-based communication infrastructure, efficient distress alert routeing, and proper operational co-ordination to effectively support search and rescue services». Come risulta chiaro, quindi, l’obbligo di salvataggio implica necessariamente il dovere di far sbarcare le persone salvate presso un “place of safety”, da intendersi come «a location where rescue operations are considered to terminate. It is also a place where the survivors’ safety of life is no longer threatened and where their basic human needs (such as food, shelter and medical needs) can be met. Further, it is a place from which transportation arrangements can be made for the survivors’ next or final destination»[8]. Solo da questo momento cessano gli obblighi che il diritto internazionale pone in capo allo Stato[9]. A tale riguardo, la cooperazione tra gli Stati, anche alla luce di alcune convenzioni internazionali sul tema[10], deve (o meglio dovrebbe) concretizzarsi nella individuazione di places of safety adeguati, alla luce di specifiche considerazioni da svolgere caso per caso, che tengano conto dei casi in cui tra i sopravvissuti vi siano rifugiati o richiedenti asilo, il cui sbarco deve essere evitato laddove vi siano fondati motivi per ritenere possibili minacce alla loro libertà o pericolo per la vita.

A prescindere, poi, dalla constatazione in base alla quale, anche sulla base della Dichiarazione di Malta[11], potrebbero costituire “porti sicuri” anche quelli presenti sulle coste dell’Algeria, Tunisia e Marocco, seppur residuando in questi casi alcune perplessità in merito all’effettiva presa in carico di eventuali domande di protezione internazionale, se non della stessa registrazione dei migranti sbarcati, risulta opportuno evidenziare che la definizione di “porto sicuro” sia oggetto di dibattito a livello internazionale, proprio in considerazione della sussistenza di una lacuna normativa[12], tra tutte le convenzioni internazionali ricordate, di regole certe ed inequivocabili circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso in mare, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo, anche in termini di oneri ed obblighi di valutazione dell’eventuale sussistenza del diritto alla protezione internazionale, previsti dal Regolamento di Dublino III[13].

A conclusione di questa seppur sintetica disamina relativa al contenuto dell’obbligo di soccorso in mare, occorre ora verificare a quali condizioni la condotta, pur doverosa, di soccorso e salvataggio della vita in mare, possa integrare la fattispecie penale descritta dall’art’ 12 del TUI, che, come noto, si caratterizza per una duplice clausola di illiceità speciale – le condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina devono essere svolte «in violazione delle disposizioni del presente testo unico» – facendo così concentrare il disvalore penale e quindi il bene giuridico protetto, nell’interesse dello Stato a mantenere il controllo sulla gestione dei flussi migratori[14].

Partendo dal necessario e palese presupposto secondo cui l’attività di ricerca e soccorso in mare costituisce, in virtù dei richiami normativi effettuati, un’attività propria dello Stato costiero, esercitata per il tramite dei suoi organi ed istituzioni, dovrebbe ipso facto essere esclusa un’eventuale imputazione a titolo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per coloro che vi provvedano.

Tuttavia, a diverse ed opposte conclusioni sembra potersi giungere ove l’opera dei soccorritori si spinga oltre la cornice delineata dalle vigenti convenzioni internazionali, fino ad abbracciare vere e proprie condotte collusive con i trafficanti di esseri umani. Giova menzionare, al riguardo, alle conclusioni cui è giunta un’indagine, tuttora in corso, portata avanti dalla Procura di Trapani, che avrebbe portato alla luce veri e propri rapporti collusivi tra trafficanti di esseri umani e l’equipaggio della motonave “Iuventa” che, nell’agosto del 2017, avrebbero proceduto a realizzare delle “consegne concordate” mascherate da operazioni di soccorso, non essendosi limitato l’equipaggio «ad adempiere all’obbligo di prestare assistenza alle persone in pericolo o in emergenza in alto mare», ma di aver «posto in essere condotte antecedenti e successive all’attività di soccorso che non hanno alcuna giustificazione in una situazione di pericolo per i migranti, ma nella precisa volontà di permettere l’accesso in Italia del maggior numero di clandestini possibile»[15]. A giudizio del G.I.P. di Trapani, pertanto, «i comportamenti posti in essere dall’equipaggio della nave Iuventa nelle fasi precedenti e successive al salvataggio non si pongono come espressione del dovere di soccorso imposto dalla Convenzione di Montego Bay, ma come condotte ulteriori finalizzate a mantenere buoni rapporti con i trafficanti di esseri umani e agevolarne l’attività»; tale circostanza comporterebbe dunque l’inapplicabilità tanto della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., quanto della scusante dello stato di necessità, di cui all’art. 54 c.p., stante «l’assenza di una situazione di pericolo immediato per i migranti», dovendosi conseguentemente qualificare le condotte in questione quali «apporti concorsuali di tipo morale e materiale alla realizzazione del reato di introduzione clandestina di stranieri nel territorio nazionale».

Al di là dell’esito della vicenda, vale la pena verificare se possa residuare, a favore dei soccorritori, un margine per il riconoscimento di uno stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., che, come si sa, richiede il duplice requisito della non volontaria causazione del pericolo e dell’attualità dello stesso, che potrebbe essere configurato ove un simile accordo intervenga quando i migranti, ipoteticamente minacciati dai trafficanti mediante la prospettazione di uno scenario di un loro abbandono in mare, si trovino già in alto mare, ed i soccorritori, si troverebbero nella necessità di “aderire” alla condotta, pur delittuosa, dell’organizzazione criminale. Si tratterebbe, però, a ben vedere, di una ipotesi estremamente difficile da dimostrare, anche per l’esigenza da parte del giudice di merito, di valutare gli ulteriori requisiti della necessità della condotta e della costrizione.

 

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[1] PAPANICOLOPULI I., Le operazioni di search and rescue: problemi e lacune del diritto internazionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 507, ove l’autore testualmente afferma “è oggi chiaro che l’obbligo di salvare la vita umana in mare include due componenti: l’obbligo di prestare soccorso, che incombe sugli stati di bandiera e sui comandanti, e l’obbligo di operare sistemi di ricerca e soccorso, search and rescue nella terminologia inglese generalmente utilizzata, che incombe sugli Stati costieri.

[2] SCOVAZZI T., Human Rights and Immigration at Sea, in Human Rights and Immigration, a cura di RUBIO MARIN R., Oxford, 2014, 212 ss.

[3] Convenzione UNCLOS, spesso citata come Convenzione di Montego Bay, dal luogo in cui è stata firmata nel 1982.

[4] International Convention for the Safety of Life at Sea, adottata il 10 novembre 1974 ed entrata in vigore il 25 maggio 1980. Per una ricostruzione del contenuto della Convenzione in parola si veda RIZZO A., Sicurezza della vita umana in mare, in Giureta, 2014, 201, il quale tra l’altro nota come il percorso delle successive conferenze mostra un costante progredire verso la tutela della vita umana in mare, contraendo progressivamente l’assoluta libertà di navigazione e rivedendo la potestà dello stato di bandiera.

[5] MAGI L., L’obbligo internazionale del comandante di soccorrere i naufraghi e il diritto ad un porto di rifugio, in Riv. dir. int. 2020, 691, in cui si legge testualmente «Every State shall require the master of a ship flying its flag, in so far as he can do so without serious danger to the ship, the crew or the passengers: (a) to render assistance to any person found at sea in danger of being lost; (b) to proceed with any possible speed to the rescue of persons in distress, if informed of their need of assistance, in so far as such action may reasonable be expected of him».

[6] Per una ricostruzione della vicenda ed un’analisi sistematica degli istituti coinvolti, si veda, tra tanti, MARATEA L., La prassi del respingimento alla frontiera ed il diritto di asilo in margine alla vicenda della Cap Anamur, in Rivista della cooperazione giuridica internazionale, 2008, 136 ss. Si vedano inoltre CAMARDA G., Tutela della vita umana in mare e difesa degli interessi dello Stato: i tentativi d’immigrazione clandestina, in Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2007, 176 ss; COTTONE M., Alcune notazioni in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina via mare, in SCOVAZZI T., L’immigrazione irregolare via mare nella giurisprudenza italiana e nell’esperienza europea, Torino, 2017, 90 ss.

[7] Sentenza del Tribunale di Agrigento del 7 ottobre 2009, n. 954.

[8] Resolution 167(78) of the IMO Maritime Safety Committee, containing Guidelines on the Treatment of Persons Rescued at Sea, IMO Doc. MSC 78/26/Add.2 del 20 maggio 2004, par. 6.12.

[9] L’obbligo di individuare il luogo sicuro, in accordo con tutte le altre autorità, costituisce un aspetto determinante dell’applicazione del complesso normativo in parola. Il testo di TREVISANUT S., Immigrazione irregolare via mare. Diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, 2012, Jovene, Cagliari, 53 e ss. e 1714 e ss., evidenzia come dagli anni ‘70 la problematica si è manifestata nelle vicende dei boat people provenienti dall’Indocina. Ai comandanti delle imbarcazioni che avevano condotto il salvataggio era opposto il diniego allo sbarco e il conseguente mantenimento a bordo delle persone soccorse. La medesima situazione si è verificata anche nella prassi più recente, come dimostrano i casi della nave norvegese Tampa, della nave tedesca Cap Anamur, che concerneva Italia e Malta, e della nave Pinar, anch’essa riguardante Italia e Malta.

[10] Ci si riferisce in particolar modo alle risoluzioni Msc.155 del 20 maggio 2004, e Msc.153, del 20 maggio 2004, secondo cui ogni Stato deve dotarsi di piani operativi che disciplinino le attività dei Centri di coordinamento del soccorso marittimo (Maritime Rescue Coordination Centre, istituti in base alla Convenzione SAR) e il loro coordinamento con tutte le amministrazioni interessate, nazionali e internazionali.

[11] Dichiarazione congiunta del 23 settembre 2019 effettuata alla Valletta in occasione di un vertice ristretto tra Germania, Italia, Francia e Malta, in seno al Consiglio dei ministri degli Affari Interni dell’Unione europea, in cui, soprattutto sotto la spinta italiana, si tenta di raggiungere un accordo su un meccanismo temporaneo di solidarietà per la redistribuzione dei migranti che arrivano via mare.

[12] L’obbligo generale di cooperare permette di identificare il porto di sbarco solo nel caso in cui gli Stati coinvolti riescano a trovare un accordo. In caso contrario, e mentre vi è l’obbligo per tutti gli stati di soccorrere e di cooperare a questo fine, non vi è alcuno stato concretamente obbligato a ricevere sul proprio territorio le persone salvate. TESTA D., Safeguarding Human Life and Ensuring Respect for Fundamental Human Rights: A Consequential Approach to the Disembarkation of Persons Rescued at Sea, in 28 Ocean Yearbook, 2014, 555 ss.; COPPENS J, SOMERS E., Towards New Rules on Disembarkation of Persons Rescued at Sea?, in International Journal of Marine and Coastal Law, 2010, 377 ss.

[13] Il reg. UE n. 604/2013 (reg. Dublino III), che sostituisce il reg. del Consiglio (CE) n. 343/2003 (reg. Dublino II), stabilisce i criteri e i meccanismi atti a determinare quale Paese dell’UE deve esaminare una domanda di asilo.

[14] 3 Cfr. a tal riguardo le significative osservazioni svolte da DONINI M., Il cittadino extracomunitario da oggetto materiale a tipo d’autore nel controllo penale dell’immigrazione, in Quest. Giust., 2009, 113 ss.

[15] In particolar modo tra le condotte antecedenti, i membri della Jugend Rettet sono accusati di aver – in almeno due occasioni − incontrato in alto mare i trafficanti libici di migranti, i quali, a seguito dell’incontro, si sarebbero allontanati, per poi far ritorno scortando un barcone carico di migranti, prontamente trasbordati sull’imbarcazione della O.N.G.; tra le condotte successive, di aver riconsegnato ai trafficanti le imbarcazioni utilizzate per il trasporto dei migranti, oltre che di aver ostacolato le indagini in corso distruggendo od occultando materiale video e fotografico che avrebbe permesso la loro identificazione.