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Pierre Hadot e la Natura

resoconto di duemila anni di storia di un’idea
Pierre Hadot
Pierre Hadot

Pierre Hadot e la Natura: resoconto di duemila anni di storia di un’idea

Nel panorama della filosofia contemporanea le figure del filosofo teoretico e dello storico della filosofia sono sempre più distinte e settoriali, ognuna specializzata nel proprio ambito. Esistono tuttavia alcune interessanti figure di studiosi che hanno saputo sfruttare la ricostruzione storica del pensiero filosofico non solo per effettuare analisi filologicamente accurate delle opere della tradizione, ma anche per proporre riflessioni di più ampio respiro, che alla ricostruzione puntuale e microscopica alternano l’analisi di lunga durata e ampie carrellate sulla storia del pensiero.

Uno di questi è Pierre Hadot. Lo studioso francese è noto soprattutto come storico della filosofia antica, in particolare come esperto di neoplatonismo e di stoicismo, ma la sua ricerca si è concentrata anche su molti altri temi, in particolare legati ad un revival delle pratiche filosofiche. Apprezzato studioso e storico, la sua fama crebbe in seguito all’esplicito richiamo alla sua opera da parte di Michel Foucault, che proprio alla riflessione di Hadot sugli esercizi spirituali antichi si è ispirato nell’ultima fase della sua carriera.

Tuttavia, non è di questo aspetto del pensiero di Hadot che parleremo in questo articolo, bensì di uno dei suoi ultimi contributi, il saggio Il velo di Iside.

Il sottotitolo del saggio, Storia dell’idea di natura, è già un eccellente riassunto del tema del libro. Il saggio prende spunto dal celebre aforisma di Eraclito, “physis kruptesthai philei” per ripercorrere la lunga “storia di fraintendimenti” che da esso si dipana. Già, una storia degli effetti che è in fondo una lunga serie di proficui controsensi, delle interpretazioni che del noto frammento sono state date ma che ci dicono molto più delle idee dell’interpretante che del pensiero eracliteo.

Una storia di proficue rivoluzioni del pensiero che si sono variamente richiamate all’aforisma e che ne hanno declinato il messaggio in molti e diversi modi.

Hadot ci guida attraverso un viaggio lungo due millenni, tra presocratici e neoplatonici, maghi ed esegeti biblici, scienziati meccanicistici e teorici dell’estetica naturale. In questo percorso, il frammento di Eraclito rimane sullo sfondo, divenendo un mero pretesto per delineare una storia dei rapporti tra uomo e natura.

Ripercorrere questo enorme viaggio non è cosa agevole in un contributo così breve, cercherò quindi di riassumere non i singoli percorsi tracciati dall’autore, ma piuttosto valorizzare le riflessioni di più ampio respiro presenti nel libro. Iniziamo dunque a capire cosa ci dice il frammento eracliteo in questione.

Contrariamente alle traduzioni largamente diffuse, l’aforisma non significa “la natura ama nascondersi”.

La più verosimile interpretazione del frammento verte su un tema tipico del pensiero di Eraclito, il divenire di ogni cosa, e si tradurrebbe così: ciò che genera tende a far scomparire (morire).

Saranno le generazioni successive a trasformare il senso della frase e lo faranno per ben precisi motivi: con il declino dei miti religiosi tradizionali molti filosofi desiderano salvare la funzione religiosa ad essi collegata senza accettarne le evidenti incongruenze. Abbiamo così una lunga tradizione di esegesi mitica che cerca nel mito il significato nascosto dietro le immagini, trovando dietro ad apparenti storielle edificanti teorie fisiche, scientifiche.

Questa esegesi allegorica del mito, di tradizione soprattutto stoica e platonica/neoplatonica, si riallaccia in più punti ad una interpretazione nuova del testo di Eraclito, che ora significherebbe “il significato reale (volto a conoscere la natura) è nascosto”.

Ciò ben si collega all’ideale etico di una saggezza iniziatica, a gradi, in cui si ascende alla conoscenza tramite la partecipazione a percorsi iniziatici. Così facendo, si può ritrovare nell’aforisma in questione un supporto all’idea di una verità nascosta, celata dietro all’apparenza.

Non sono solo i filosofi desiderosi di un livello di significato religioso più adatto alla complessità della vita a rifarsi al frammento eracliteo per motivi religiosi: tale aforisma venne anche usato dai difensori del paganesimo per difendere le loro credenze dall’ascesa ingombrante e repressiva del cristianesimo.

Se la Natura si nasconde ciò implica che la sua verità appare difficile da rinchiudere in un solo sistema di credenze: come ricorda un autore dell’epoca “ad un segreto così grande non si arriva per una sola via”.

Ciò ci porta dunque a tollerare le diverse strade che ci orientano e conducono verso il divino e la verità, senza elevarne una sola sopra le altre.

Tale messaggio, così come l’invito alla lettura allegorica dei testi, non è presente nell’intenzione del testo di Eraclito, ma sarà da allora inestricabilmente legato ad una idea di verità naturale occulta, sfuggente.

Talmente sfuggente che molti pensatori greci rifiutano la conoscenza della natura come accessibile all’uomo, preferendo ripiegare sull’etica. Ma non è così per tutti.

Hadot qui ci porta a ripercorrere tre diversi sistemi di indagine della natura che l’antichità ha sviluppato: la magia, il percorso iniziatico e la meccanica.

Abbiamo già accennato all’importanza del percorso iniziatico, che cerca di scoprire i segreti naturali tramite un percorso spirituale. A fianco di questi percorsi si situa una diversa forma di scoperta, più forzata e violenta, orientata al dominio delle forze naturali, associate a entità spirituali, tramite pratiche magiche.

Un tale modo di concepire il rapporto tra uomo e natura, volto al dominio, lo si ritrova anche nella meccanica, tecnica volta ad applicare l’ingegno umano all’orientamento della natura verso i nostri bisogni.

Dalla congiunzione di magia naturale neoplatonica, filtrata attraverso la filosofia rinascimentale, e di meccanica nascerà la scienza moderna, cui sono dedicati molti capitoli del libro di Hadot.

Prima però di trattare questo tema, occorre introdurre uno dei temi più importanti del libro, una distinzione che informa l’intera discussione sulla natura nella modernità.

L’autore distingue due atteggiamenti di fondo, legati a queste modalità di scoperta della natura, che convivono e si contrappongono, non senza a volte ibridarsi.

Questi due atteggiamenti Hadot li chiama atteggiamento prometeico e orfico.

Il primo orientamento verte sul dominio tecnico della natura, un dominio che piega al volere dell’uomo le forze naturali. Forze personificate nel caso della magia e progressivamente ridotte a forze naturali impersonali e meccaniche.

Inizialmente legata alla magia naturale di derivazione neoplatonica antica e rinascimentale, la visione del mondo prometeica verte sul controllo degli elementi nascosti, invisibili, che operano nel mondo.

Aiutata da una visione cristiana del mondo, che priva la natura della sua sacralità e la rende a completa disposizione dell’uomo, la visione prometeica riduce la natura a un intrico di meccanismi scientifici da scoprire per controllarli.

In un mondo ormai desacralizzato (poiché il Sacro si è spostato altrove, fuori dalla Natura), l’uomo sviluppa una concezione puramente scientifica del mondo fisico.

Ma nelle prime fasi dell’era scientifica moderna il rapporto che intercorre tra la religione e la ricerca fisica appare problematico: se il mondo è una macchina perfetta e autosufficiente, comprensibile all’uomo tramite la sola ragione, perché affidarsi alla Rivelazione?

La questione è spinosa e il caso Galileo troppo vicino temporalmente per non impensierire gli scienziati, preoccupati di possibili contrasti con l’Inquisizione. La soluzione proposta fu una filosofia meccanicista che vede le teorie scientifiche come meri strumenti ipotetici per ottenere risultati pratici, senza impegnarsi sulla verità ultima sul mondo, lasciata in mano alla religione e alla Rivelazione.

In questo contesto, ritorna l’idea di una Natura che cela in sé cause profonde, inespresse e misteriose: lo scienziato le osserva da fuori, per analogia formula inferenze e ne valuta gli effetti, cercando più l’efficacia che la scoperta delle realtà profonde. Questo atteggiamento irenico, che evita il conflitto tra religione e scienza tramite scappatoie metafisiche, avrà vita breve, ma testimonia la persistenza della concezione pseudo-eraclitea nelle fasi germinali della scienza moderna. 

A questa prima concezione, detta prometeica, del rapporto uomo-natura, Pierre Hadot contrappone una seconda linea di pensiero, dall’autore definita come orfica.

Se le origini del prometeismo moderno si trovano nella magia e nella meccanica come strategie di “tortura” della natura (volte a costringerla a rivelare ciò che non dice), l’atteggiamento orfico discende direttamente dai percorsi iniziatici che nell’antichità conducevano l’uomo interessato alla conosceva dei segreti di natura attraverso un itinerario a tappe graduali, una ascesa spirituale verso la saggezza e la conoscenza.

Chi si mette in ascolto della Natura la ascolta e la rispetta, ma la idealizza anche in modo talvolta ingenuo e primitivista. Se è facile classificare il pensiero di Rosseau e Goethe sotto questa categoria, sorprende scoprire come molti dei pensatori antichi ritenessero che la conoscenza dei segreti nascosti della natura (o meglio, dei segreti nascosti dalla Natura) fosse una trasgressione di un ordine del mondo prudente e saggio, stabilito perché l’uomo stesse al suo posto e non cercasse oltre quanto si supponeva lecito.

Così, molti stoici e platonici vedono nella ricerca naturale un passatempo lodevole ma sospetto, qualora alla giusta contemplazione dovesse succedere la curiosità smodata.

Convinti che “se la Natura ha nascosto qualcosa avesse dei buoni motivi per farlo”, come parafrasa Hadot, questi pensatori si oppongono alla tecnica e allo sfruttamento della natura, considerandoli indebite intrusioni nel seno della natura.

A queste concezioni fanno seguito molti pensatori della prima età moderna, disillusi rispetto all’idea che il progresso scientifico sia inevitabilmente causa di progresso morale.

A tale idea si oppone Rousseau, pur convinto della perfettibilità dell’umano, così come si oppongono Schiller, autore di pessimistici versi sul mondo disincantato moderno e Goethe, al cui peculiarissimo pensiero scientifico, radicalmente anti-meccanicista e non-newtoniano, Hadot dedica un intero capitolo.

Proprio Goethe sarà infatti il massimo esponente e campione di questo atteggiamento orfico.

L’opera del poeta e scienziato tedesco tiene insieme la dimensione artistica della poesia con l’intento di delineare teorie dei fenomeni naturali, teorie che però si discostano radicalmente dalle metodologie e dalle filosofie che informano la scienza galileiano-newtoniana. Se questa si concentra sulla “tortura” della natura tramite l’esperimento e la ricerca delle cause segrete e nascoste, ciò che la natura occulta dietro i suoi eli, per Goethe tali veli non esistono: la Natura si dà a chi la osserva con pazienza nei suoi elementi fondamentali tramite l’osservazione naturale e non mediata da strumenti o apparati né da teorie, senza che serva cercare ulteriori livelli di spiegazione.

In questo paragrafo ho parlato dei veli che occulterebbero la natura secondo una tradizione che si è ispirata ad alcune interpretazioni del frammento eracliteo. Lo stesso titolo del libro di Hadot, Il velo di Iside, richiama alla mente questa immagine.

L’autore dedica un capitolo ricco di analisi iconografiche alla rappresentazione della Natura come dea velata, rappresentazione che assimila l’iconografia della dea a quella dell’egiziana Iside o della greca Artemide.

Diffusa nell’antichità sotto le fattezze di una donna dai molti seni, l’immagine della dea appare spesso nell’atto di nutrire il mondo con essi, ma anche avvolta e nascosta da pesanti veli: l’idea della natura che si nasconde viene così resa iconografia visibile, immagine.

Tale immaginario iconico lo si ritrova anche sui frontespizi delle moltissime opere scientifiche sei-settecentesche che propongono artisticamente un’idea di ciò che la scienza fa: scoprire i segreti della natura sollevando i veli che la occultano.

A volte ciò è fatto con entusiasmo e slancio, a volte con un senso di rispetto e prudenza, dato da una sopravvivenza delle antiche idee sul limite che gli esseri umani dovrebbero rispettare nell’indagare la Natura. Il motto “Qua licet”, ovvero “(solo) ciò che è lecito” ben tipifica l’atteggiamento appena descritto.

Ma con il passare del tempo, mentre le scienze decodificano i meccanismi naturali e il mondo si svuota di mistero, la statua di Iside e il suo mito assumono nuovi significati.

Ormai la natura non pare più serbare misteri, cedendoli pian piano alla scienza sotto i colpi del suo progresso, così che il discorso si fa più generale e astratto.

A celarsi sotto il velo di Iside non è più la natura intesa come principio generatore o meccanismo regolatore dei viventi, bensì la Natura intesa come Essere, il cui segreto è la Verità.

A consolidare questo cambio di lettura del mito è soprattutto una leggenda già circolante nell’antichità, che narra di come a Sais, in Egitto, vi fosse una statua sacra della dea Iside, che recava la scritta “Io sono ciò che è stato, che è e che sarà. Nessun mortale ha mai alzato il mio velo”.

Da questa narrazione attinge Schiller in un suo poema, vero e proprio catalizzatore di accesi dibattiti all’epoca, in cui si afferma che chiunque venga a conoscenza della Verità non potrà più vivere felicemente, conoscendo con essa la futilità della propria vita.

Il poeta e filosofo tedesco alla Verità contrappone l’immaginazione artistica, l’apparenza salvifica. Il pessimismo schilleriano trova conforto e rimedio ai mali della vita nell’arte, frutto dell’immaginazione e dell’ideale. Mentre i romantici contemporanei al poeta si proposero come impavidi svelatori del velo di Sais, ritenendo opportuno conoscere la Verità, alla posizione di Schiller farà eco un secolo dopo Nietzsche, che rileggendo il mito di Sais nella versione schilleriana proclamerà l’insostenibilità della “profondità” nella vita e il valore salvifico delle apparenze artistiche.

Il tema del velarsi della Natura è già qui il tema del senso dell’Essere, un piano metafisico che lascia il piano empirico all’avanzata delle scienze per potersi dedicare a questioni più astratte e “fondamentali”.

Non sorprende quindi notare come la filosofia della natura di Schelling si situi all’interno di questo contesto e così intenda la natura.

Nel Novecento sarà soprattutto Heidegger invece ad appropriarsi dell’aforisma eracliteo, legandolo alla nozione di svelamento dell’Essere, che soggiace occultato e misconosciuto dietro le cose familiari che i nostri bisogni hanno ritagliato in esso. L’uomo si è spesso concentrato proprio sulle cose, anziché sull’Essere da cui sono tratte. Tornando ad occuparsi dell’essere, l’uomo uscirà dal suo stato di oblio e si renderà conto che la verità è svelamento.

Riprendendo però alcuni elementi del dibattito poco sopra ricordato, Heidegger afferma che il velarsi della verità è presupposto indispensabile del suo svelamento.

Anche per il filosofo tedesco la Natura/Essere si nasconde, mostrando come il concetto di nascondimento della Natura si sia trasformato e trasmesso nella storia del pensiero attraverso diversi mutamenti di significato, tenendo il passo dell’evoluzione del pensiero.  

Abbiamo solo potuto riassumere qui il prezioso e ricchissimo testo di Pierre Hadot.

Il presente lavoro si è concentrato sui temi principali dell’opera, lasciando a margine altri contenuti interessanti.  Ciò ci permette però di approfittare della lettura di tali temi per proporre una chiave di lettura dell’opera qui discussa.

Non penso sia necessario notare che il tema della natura, variamente declinato, è di centrale rilievo nella nostra contemporaneità: si carica la natura di valori morali, religiosi, politici, la si nomina in relazione alla salute, al bene, alla salvezza e alla felicità.

Se è facile notare come il marketing e la pubblicità si imbevono da anni di retorica naturalista e abbondano proposte presentate come genuine e buone perché radicate nel rapporto con la Natura, il contesto attuale è in realtà saturo di naturalismo a diversi livelli della vita.

In politica le rivendicazioni ambientaliste muovono masse di persone a mutare stile di vita e a cercare di impedire il riscaldamento globale e altri problemi legati all’abuso del nostro pianeta.

Dal punto di vista scientifico le spiegazioni naturalistiche biologicamente fondate o ispirate ai progressi delle scienze cognitive abbondano (a volte risultando in ingenuità, altre apportando validissimi contributi al dibattito) e la filosofia, ormai abituata ai Naturalismi di diversa specie, sempre più si interessa al tema della natura, recentemente anche da prospettive ambientaliste, animaliste ed ecocentriche nonché da ripensamenti dei propri concetti e delle proprie questioni alla luce delle scienze.

Oltre alle etiche ambientali che a partire dagli anni ’70 sono apparse nel dibattito filosofico assistiamo ad un proliferare di filosofie ecologicamente orientate, ad esempio gli ecofemminismi, l’ecologia profonda, varie forme di ecologia politica, gli animal studies e alcuni risvolti del postumanesimo.

Per quanto riguarda la religione, aumentano di giorno in giorno le cosiddette ecospiritualità, nonché vere e proprie religioni della natura. Anche le religioni tradizionali si rivolgono ai temi ambientali con interesse, operando anche profondi riassestamenti delle proprie credenze e pratiche.

In filosofia della religione gli studiosi di Religious Naturalism riflettono alla luce della scienza e della filosofia su come costruire spiritualità adatte ad una visione del mondo naturalizzata.

Insomma, una vera e propria esplosione di naturalizzazioni, naturalezza, naturalismi, naturalità e natura.

Cosa hanno in comune queste correnti di pensiero con le antiche idee che Hadot ha messo in gioco con il suo libro?

Vorrei qui proporre di analizzare le questioni contemporanee a partire dai due macro-orientamenti che l’autore individua nella storia dell’idea di natura: quello prometeico e quello orfico.

Di prometeico nella nostra contemporaneità ci sono ad esempio le idee transumaniste, che forti dell’avanzamento della scienza si immaginano un futuro retto non dalle necessità naturali ma da un’umanità tecnologicamente modificata che potrà porre mano a tali leggi e cambiarle in meglio.

La strada intrapresa dalle biotecnologie dopo lo sviluppo del CRISPR-Cas9 sembra inaugurare d’altronde nuove frontiere prometeiche, così come lo fanno le scoperte mediche e neuroscientifiche che già ci permettono sempre maggiori margini di emancipazione da ciò che un tempo sembrava fatalità naturale.

Di orfico invece abbiamo innanzitutto una ricca messe di miti alimentari e salutisti, che dipingono una natura benevola e filantropa e che prescrivono l’assoluta naturale genuinità di cibi, vestiti, stili di vita e cure. Ma abbiamo anche una diffusa consapevolezza estetica ed estatica del valore naturale: estetica perché abbiamo riscoperto la bellezza del paesaggio e il valore del rapporto con altre specie, estatica perché come detto si moltiplicano le forme di religiosità che proprio nella natura trovano il sacro.

Abbiamo inoltre, sia per le spiritualità ecologiste che per le rivendicazioni politiche che per le esperienze estetiche una maggiore consapevolezza della nostra unità e interdipendenza con la natura, di cui sappiamo ora essere parte.

Se i prometeici contemporanei immaginano un futuro cyborg o si deliziano al pensiero di gigantesche opere di geoingegneria, gli orfici tra noi si richiameranno all’ordine di natura per bandire gli OGM, i conservanti e le megastrutture che impongono la nostra impronta sulla Natura spontanea e genuina che ci circonda.

In conclusione, richiamandomi alla lezione di Hadot, voglio ricordare che tali atteggiamenti hanno ognuno i suoi pregi e le sue ingenuità. Se la scienza deve continuare a nutrirsi dello spirito migliorista che la informa dal principio, tale spinta non può più essere considerata come contrapposta frontalmente alla natura come se noi vi fossimo esterni e opposti.

Noi siamo esseri naturali, parte di essa (come a volte si dimentica anche l’orfismo che oppone tecnica umana e natura) e pertanto in essa dobbiamo trovare non solo risorse e strumenti utili (le “cose” di Heidegger) ma anche l’orizzonte ultimo del nostro vivere, che alla Natura è strettamente e profondamente legato. Riassumiamo così la duplice spinta di ribellione e identificazione che anima la storia del nostro concetto di natura, che ben evidenzia la natura multiforme e ricca di significato e fascino che ha da sempre esercitato per noi.

 

Note:

Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di Natura, Einaudi, 2006

Serenella Iovino, Filosofie dell’ambiente. Natura, etica, società, Carocci, 2008

Donald Crosby, Jerome Stone, The Routledge Handbook of Religious Naturalism, Routledge, 2018