Un leone calvo
Premessa
In questi tempi anti-specisti, la riflessione sul mondo animale si ammanta inesorabilmente di un appassionato senso di comunanza con le specie non umane, eppure mai come ora l’uomo e gli animali, soprattutto quelli che producono i suoi mezzi di sostentamento, sono tanto lontani.
Gli animali, soprattutto quelli addomesticati che ci hanno accompagnato nel corso di millenni, più che nutrire corpi e menti, suscitano ansie e animano conflitti; finita l’epoca in cui abitavano il sogno e animavano la festa, si sono fatti cibo senza corpo.
Se la scienza, e ora anche la religione, ci spingono a pensare l’uomo una specie tra tante, priva di una meritevole distintività e probabilmente poco simpatica agli altri abitatori di questo pianeta, in questo afflato di appassionata comunanza si perde l’antico senso di alterità dell’uomo rispetto alle altre specie e si rafforza per contrappunto il sentimento di colpa verso di loro.
Uno smarrimento tutto occidentale, in cui, nel nome di una natura offesa, l’orgoglio animalista strugge la nostra antica fiducia nel sapere e nel progresso.
Nei capitoli che verranno pubblicati, tratti dal testo “Alterità - pensare l’animale per rimanere uomini” di Giovanni Sorlini, si cercherà di raccontare questa storia senza le contrapposizioni obbligate del pensiero animalista per tentare di comprendere le origini dell’eclisse del pensiero specista e fermarsi a riflettere sul misterioso silenzio dell’animale sacrificato, che rimanda ad un mondo senza colpa e senza vendetta che non ci appartiene, ma che si fa testimone del senso più autentico della nostra identità di specie e della responsabilità e gratitudine che da uomini gli dobbiamo. Forse il miglior punto di partenza per ripensare questa presunta alterità.
Il leone calvo, viaggio alle origini dell’animalismo
La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione delle ceneri.
Gustav Mahler
La storia dell’eclisse specista inizia al sole dell’Illuminismo e dei suoi profeti.
Primo fra tutti il grande naturalista svedese Carolus Nilssonn Linnaeus, o più semplicemente Linneo, il quale, nel primo libro della decima edizione del “Systema Naturae” (1758), scriveva: Mammalia, Primates, Homo – Nosce te Ipsum.
Contrariamente alla moltitudine di esseri viventi classificati, almeno per Linneo, che oggi condanneremmo come specista e creazionista convinto, siamo l’unica specie in grado di conoscere se stessa. Secondo il luminoso Linneo, gli animali costituiscono un ordinato insieme di specie fisse ed immutabili, che consente comode distinzioni e classificazioni.
Nella sua piramide tassonomica il genere HOMO, posto in cima al regno animale, veniva ulteriormente suddiviso in due specie: l’uomo diurno o Homo sapiens, e l’uomo notturno o Homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste o orangutan. Il protagonista di questa storia tende infatti a vedere la luce come il divino, l’alto, il sublime e il buio come demoniaco, inferiore, il territorio dei bruti. Su questa analogia astrale, con il Sole – simbolo platonico del Bene, che nella sua corsa tende sempre a occidente – trova fondamento l’orgoglio di specie di questo bianco, superdotato primate. Nella retorica settecentesca, la luce porta la ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza; luce che, se all’inizio può aver rischiarato la mente dell’uomo europea ottenebrata da secoli di feudalesimo, si è fatta poi abbagliante nel secolo successivo, spingendolo alla magnificazione di se stesso e alla crociata per la civilizzazione dei suoi simili nel “cuore di tenebra” dei continenti selvaggi.
Nella decima edizione del Systema Naturae, entra in scena la classe dei primati in sostituzione dei più innocenti Anthropomorphae e, con essa, l’abbinamento, di chiaro sapore assiologico, del genere Homo con la specie Sapiens. Dopo la scoperta nella valle tedesca di Neanderthal dei primi fossili del suo più primitivo cugino, l’Homo sapiens divenne poi Sapiens sapiens. Su questa linneaiana anafora antropologica ha poggiato la nostra discutibile fiducia sul primato dell’uomo europeo per almeno duecento anni.
Un incrollabile ed attualissimo sistema binomiale quello di Linneo, basato sul modello aristotelico di genere prossimo e di differenza specifica, che ha iniziato a declinare in latino il genere e la specie di tutti gli organismi viventi, riassumibile nella sua affermazione: Species tot numeramus quot a principio creavit infinitum Ens (numeriamo tante specie quante in principio furono create dall’Ente infinito). In Linneo, scienza, filosofia e religione si tengono per mano in un grandioso affresco cosmologico. La scienza di Linneo è ancora permeata dall’estatico stupore di chi vede nella natura il mirabile disegno dell’architetto divino, opera perfetta in ogni particolare. Il destino dell’uomo è quello di conoscere e interpretare la gloria della natura per accedere alla vita beata.
Quella del naturalista svedese è una scienza con i piedi ancora ben saldi nella tradizione umanista rinascimentale, lo sguardo razionale sugli altri esseri viventi che non ha ancora perso il contrappunto di una pia contemplazione; nell’ansia tassonomica dello scandinavo parruccone si iniziano però a tagliare i primi fili invisibili che legano l’uomo a questa natura perfetta e se ne fugge l’idea di una superiore alterità, non tanto dell’essere umano in genere, ma del solo primate bianco europeo. Lo smottamento del concetto di classificazione a quello di classifica, che ancora non riusciamo a scrollarci di dosso, è all’origine di questa storia.
Se oggi, in questo allontanamento dalla linneiana idea perfetta di natura abbiamo sicuramente smarrito il complesso di superiorità dell’uomo bianco occidentale – che suona ormai politicamente scorretto e scientificamente superato – persiste però molto bene il senso di colpa e peccato di fronte all’inesorabile disordine, contaminazione e atea distruzione causati da questo sapientissimo scimmione. Fra tanti nuovi saperi, l’albero illuminista ha prodotto anche un frutto indesiderato: la sfiducia dell’uomo di continuare a vivere senza distruggere il mondo perfetto così ben descritto dal grande naturalista svedese.
Maledetti illuministi, che ci hanno definitivamente tolto dal caldo abbraccio di madre natura, avviando una narrazione maschilista e semplificatoria delle nostre origini, venata di componenti razziste e suprematiste più o meno esplicite, che nel nostro immaginario hanno ridotto la storia dell’uomo ad un lineare percorso dal ferino stato primitivo alle magnifiche sorti progressive dei secoli scorsi. Un retaggio duro a morire che ancora vede il nostro cammino evolutivo legato in qualche modo alle scimmie antropomorfe o che, in un distopico rovesciamento di prospettiva, riduce l’umano a una specie di “terzo super scimpanzé”. Idea peraltro superata dalla scienza, che da oltre un secolo ha smesso di cercare l’anello mancante, il mitico pitecantropo, o, per dirla meglio, il Last Common Ancestor (LCA), ma che ancora aleggia quando rivolgiamo lo sguardo al “primitivo” che ci circonda, come le popolazioni selvagge, i deboli di spirito, o appunto le scimmie più simili a noi.
Ci si vergogna ad ammetterlo, ma questo spiritello illuminista a volte fa capolino e crea danni anche nelle menti più candide. Con buona pace di Darwin e degli scienziati contemporanei che provano a ricondurci nel consesso biologico degli altri esseri viventi, sotto sotto, molti di noi continuano a pensare alla natura come una sorta di sistema tolemaico con l’uomo bianco in qualche modo al centro o sopra, che, nel bene o nel male, muove come un aristotelico motore il destino degli altri esseri viventi.
In questa già confusa percezione dell’Homo sapiens, anche l’uso incauto della parola razza ha fatto la sua parte. Termine mutevole ed ambiguo: appare persino nell’articolo 3 della nostra Costituzione con un chiaro intento antidiscriminatorio, finendo invece per marcare quelle stesse differenze che vorrebbe annullare.
Il primo utilizzatore di questo sciagurato termine è stato un altro grande naturalista francese del Settecento: il Conte George-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788), che ha introdotto nel linguaggio della biologia il termine race derivandolo da una più antica parola in uso all’epoca tra gli allevatori di cavalli: haraz. Buffon, coevo di Linneo, in realtà nel suo monumentale “Histoire naturelle générale et particulière” (1750) aveva elaborato una visione della natura diversa da quella dello svedese: al Conte de Buffon infatti interessava non tanto la classificazione, quanto la descrizione della vita e dei costumi degli animali, delle correlazioni tra ambiente, clima e sviluppo delle specie viventi, in una visione già più dinamica e integrata della natura. Buffon, ingiustamente ricordato come l’inventore della razza, in realtà possiamo definirlo una sorta di naturalista paleontologo che stimò in centomila anni la data di nascita della terra. Affermazione, a quei tempi di creazionisti convinti, molto meno innocente di quanto si potesse pensare, essendo in contrasto con la Bibbia che fissava questa data in appena seimila anni. Apriti cielo, Buffon fece un’astuta marcia indietro ritrattando questa affermazione, ma intanto il muro di una visione teologico-antropocentrica della natura aveva subito un’altra picconata.
Con buona pace del Conte, per un secondo tradimento in questa nostra storia, la parola razza utilizzata per connotare la selezione tutta artificiale e tutta locale di animali domestici, trasferita nelle scienze biologiche moderne ha generato una sequela interminabile di equivoci, soprattutto quando fu introdotta nel contesto delle dinamiche evoluzionistiche dettate dalla selezione naturale.
Durante l’Illuminismo questo termine era infatti ancora innocentemente utilizzato per denotare gruppi di animali domestici, cani, vacche o cavalli, accomunati da un certo gruppo di caratteristiche somatiche cui corrispondevano specifiche attitudini produttive; il cavallo da tiro o da corsa, il cane da caccia o da guardia, ecc. Ma poi, sulla scia delle conquiste scientifiche e dei processi coloniali dell’Ottocento, l’uso del termine razza si estese anche alla nostra specie, assumendo anche in questo caso connotati sempre più rigidamente classificatori, scivolando fatalmente da tipologia a gerarchia, sino a connotare inesorabilmente razze superiori ed inferiori. Una seconda diabolica trasformazione semantica nata nel contesto dei viaggi di esplorazione e dell’enorme sviluppo tecnologico di quegli anni da parte dell’ormai cattivo bianco primate.
Con Buffon, la linneiana visione della natura come ordinato e statico sistema da contemplare in estasi religiosa, viene superata da questa nuova e più laica versione, al servizio dell’uomo moderno e finalmente addomesticabile per le sue voglie. Natura come Eldorado da sfruttare che, nel sostenere il santo progresso, ispirava visioni politiche e slanci patriottici: come nel caso di Simon Bolivar, che nell’impeto di liberare il continente sudamericano dal colonialismo spagnolo agitava le masse con potenti visioni delle catene andine, associando lo slancio irredentista all’energia del Chimborazo, il vulcano più alto del Sudamerica.
Anche dalle nostre parti, sull’onda dell’entusiasmo positivista, il giovane Stato Sabaudo piegava al progresso le mute masse contadine – la “classe oggetto” per dirla con Pierre Bourdieu – più con la statistica e i manicomi che con il pane, l’istruzione e le riforme; una nuova istituzione quella manicomiale resasi necessaria, non tanto per curare le turbe mentali conseguenti alle miserevoli e malsane condizioni della vita nei campi, che uscivano dai regi cabrei e in fondo interessavano poco alle egemoniche classi della borghesia cittadina, quanto dal disordine sociale indotto dagli scomposti contadini funestati dal tifo o dalla pellagra. Tempi in cui l’appellativo animalier, più che i maculati capi d’abbigliamento, richiamava senza pena di vergogna l’aspetto fisico del disturbante contadino di allora travolto dalla tempesta del progresso.
In tale contesto anche l’idea di animale paga lo scotto del progresso ed entra nell’agone politico: la natura parascientifica di Buffon veniva infatti utilizzata per affermare la superiorità culturale e politica dell’Europa nei confronti delle colonie ribelli del Nuovo Mondo. Secondo il naturalista francese, nel continente americano, nel quale peraltro non era mai andato, tutte le cose si rimpiccioliscono e si assottigliano sotto un cielo avaro e su di un terreno arido; le piante, gli animali e persino le persone sono piccole e abuliche. Non c’erano grandi mammiferi, né un popolo civilizzato e persino i selvaggi erano “deboli”.
Nei suoi scritti assumono forma coerente e scientificamente credibile quelle che prima erano singole e innocue osservazioni, venate da giudizi e pregiudizi, che uscivano dai racconti dei primi viaggiatori europei e dai missionari; storie infarcite di esotismo, utopie e miti del buono o cattivo selvaggio a seconda dei casi. In Buffon la natura del Nuovo Mondo viene abbracciata in un efficacissimo affresco di manifesta debolezza e inferiorità rispetto al Vecchio Continente. Il puma, felino che allora veniva orgogliosamente definito come il leone d’America – la fiera più maestosa d’oltreoceano – gli appare come una brutta copia del suo più famoso cugino africano.
Privo di criniera, il puma: Il est aussi beaucoup plus petit, plus foible et plus poltron que le vrai lion. Il tapiro, viene ironicamente paragonato al maestoso elefante africano: Cet elephant du nouveau monde est de la grosseur d’un veau de six moins ou d’une trés petite mule. Il nasuto mammifero americano calunniato come sottospecie di pachiderma tascabile. L’enumerazione sistematica di queste osservazioni produce un primo inequivocabile ritratto della natura del Nuovo Continente: La nature vivante y est donc beaucoup moins agissante, beaucoup moins variée, et nous pouvons même dire beaucoup moins forte”.
Una debolezza tellurica che contagia anche agli animali domestici introdotti dai coloni europei, anch’essi rimpiccioliti e ridotti a caricature dei loro parenti allevati nel Vecchio Continente: Les chevaux, les ânes, les bœufs, les brebis, les chèvres, les cochons, les chiens, etc., tous ces anumaux, dis-je, y sont devenus plus petits; et […] ceux qui n’y ont pas été transportés et qui y sont allés d’eux-mêmes, ceux en un mot qui sont communs aux deux mondes, tels quel es loups, les renard, les cerfs, les chevreuils, les élans, sount aussi considérablement plus petits en Amérique qu’en Europe, et cela sans aucune exception.
Un’apoteosi al ribasso che travolge anche i popoli nativi, che, seppur non apertamente associati alla fauna locale, sembrano comunque esserne parenti molto stretti: colpevoli di non aver soggiogato una natura avara e ostile con la forza della tecnica, le popolazioni selvagge restano un elemento passivo, incapace di riprodursi, vittima della stessa frigidità che il naturalista attribuisce alla natura americana tutta. La nature, en lui refusant les puissance de l’amour, l’a plus maltraité et plus rapetissé qu’aucun des animaux.
Il nesso singolare tra la frigidità del selvaggio, comprovata dall’assenza di una virile peluria e la mancanza di grandi bestie feroci, ridotte a questa sottospecie di leone calvo - associazione di sapore libertino tipicamente settecentesca - evoca suggestioni di freddezza e umidità: freddo è il selvaggio, fredde le fiere. Una terra buona solo per il serpente e gli altri animali a sangue freddo. Solo i paludosi rettili dominano infatti questa natura primitiva da diluvio universale: animali deteriori che, contrariamente ai grandi e perfetti mammiferi del Vecchio Continente, pullulano in gran quantità e si riproducono spesso in forme gigantesche. Per il nostro ideologo della natura anche i repellenti insetti non sono in nessuna altra parte del mondo così grossi.
Voyons donc pourquoi il se trouve de si grands reptiles, de si gros insects, de si petits quadrupédes, et des hommes si froids dans ce nouveau monde. Cela tient à la qualité de la terre, à la condition du ciel, au degré de chaleur, à celui d’humidité, à la situation, à l’élévation des montagnes, à la quantité des eaux courantes ou stagnantes, à l’étendue des forêts, et sur-tout à l’état brut dans lequel on y voit la nature.
Natura umida e putrescente, quella americana di Buffon, che giova solo a specie inferiori e che non risparmia il suo più evoluto abitante, colposamente impotente e incapace di dominarla. Un’efficace spiegazione erotico-idraulica della malsana natura americana che ha connotato per decenni l’immagine di questo paese agli occhi degli spocchiosi europei, dando la stura a un’infinità di contrapposizioni ideologiche tra Vecchio e Nuovo Mondo.
Come quella del futuro Presidente USA, Jefferson, che nel bel mezzo della guerra di indipendenza trovò il tempo di pubblicare “Notes on the state of Virginia”, testo nel quale la flora e la fauna degli Stati Uniti vengono dipinti come i fanti di una battaglia patriottica e dove, sotto l’insegna del più grande, più bello, si elencavano maniacalmente i pesi di orsi, alci e altri mammiferi per affermare la superiorità somatica degli animali a stelle e strisce rispetto al ritratto mistificante di Buffon.
Il mammut americano diventava così il grande pachiderma potente e peloso da contrapporre al glabro elefante, il clima in realtà era molto meno umido rispetto a città come Londra o Parigi e l’Indio tutto il contrario di come lo immaginavano gli europei: He is neither more defective in ardor, nor more impotent with his female, than the white reduced to the same diet and excercise. E poi sono glabri solo perché si radono i peli! Nelle smanie di gigantismo fallocratico e nell’orgogliosa rivendicazione della forza primigenia della loro natura, la nascente potenza americana costruiva le sue più solide radici identitarie.
Ma tornando ai Lumi, come si diceva tempi dettati da ansie tassonomiche in cui le scoperte anatomiche che ricostruivano in modo sempre più dettagliato i vari apparati corporei consolidavano l’idea dell’animale come un insieme ordinato e complesso di strutture: tubi in cui scorrono fluidi di varia natura, una grande pompa che muove tutto, serbatoi, scarichi, collegamenti elettrici, ecc. E, come insegna Michel Foucault, dietro un’ordinata classificazione si nasconde l’ideologia che l’ha prodotta: la meccanicistica del pensiero tecno-scientifico, che stava facendo dimenticare all’uomo l’atavica paura della natura e l’idea di un “Tutto” unificante; il suo rassicurante giardino filosofico e religioso era ormai perduto. Già a metà del XVII secolo, se gli animali erano visti come macchine da produzione, i folli venivano assimilati agli indigenti e ai disoccupati per essere internati nelle stesse case di correzione, accomunati dal peccato di ozio e improduttività; la colpa più grave in un’epoca che si affacciava alle soglie del commercio globale e della rivoluzione industriale.
I tempi erano maturi per la nascita del nugolo delle teorie razziste o suprematiste e le scienze, ormai ridotte a tecniche, più o meno inconsapevolmente portavano acqua a questo mulino; bastava solo qualcuno che ci mettesse la firma. Non è l’austriaco con i baffetti autore del “Mein Kampf”, lui ha solo copiato e, per così dire, sviluppato il concetto: il padre spirituale dei razzisti di ogni risma è il conte francese Joseph Arthur de Gobineau, autore nel 1853 del diabolico “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”, testo che ogni suprematista bianco che si rispetti dovrebbe leggere.
Il presupposto ideologico di Gobineau si basava su una visione profondamente pessimistica dell’uomo, definito come il peggiore degli animali per eccellenza. Su questo programmatico senso di sfiducia poggiava la sua convinzione sulla superiorità della razza bianca e sulla mescolanza razziale come causa prima del declino delle civiltà. All’aristocratico francese in realtà non interessava tanto dare addosso ai neri o agli ebrei, egli era un legittimista fanatico della monarchia francese e in questo testo cercava disperatamente di difendere l’ancient regime. Anche in questo caso si torna a scomodare una pericolosa equazione sull’ordine imposto dal primate europeo contrapposto al presunto disordine sociale derivante da una società multietnica.
Qui il razzismo viene visto come un danno collaterale rispetto a tesi che hanno esclusivi scopi politici di mantenimento dell’ordine costituito. Una costruzione intellettuale che ancora una volta piega la natura al servizio della politica.
In questa stagione che conduce alla rivoluzione industriale ed alla colonizzazione del mondo da parte dell’Europa si fa strada l’idea animalista, alimentata dal senso di sfiducia nella capacità umane ed allo scandalo di uno sfruttamento senza limiti degli altri esseri viventi.
Anche l’antropologia non è scevra da colpe, visto che solo in tempi molto recenti ha finalmente sancito la nostra origine da una specie unica, uscendo una volta per tutte dal concetto di razza, la specie unica Homo sapiens appunto; fino a tutta la prima parte del Novecento questo pericoloso termine veniva infatti ancora utilizzato per giustificare in modo credibile le incomprensibili differenze morfologiche dei vari crani fossili che venivano scoperti in giro per il mondo.
Anche oggi, nella società digitale che riduce l’azione umana a processi funzionali, in cui la forza del logos e la capacità politica di interazione con la comunità si sono ulteriormente ristretti come la natura americana di Buffon, in questa prevalenza del “sentire” individuale rispetto all’agire comune, l’uomo si è paradossalmente avvicinato ai suoi animali come non mai. Ma come un gambero, nel passo avanti rappresentato da questa ritrovata empatia con loro, nell’enunciazione orgogliosa dell’allargamento dei loro diritti, si nasconde il passo indietro che l’uomo ha fatto rispetto alla sua identità di animale sociale. L’isolamento di chi non li frequenta, ma li guarda da lontano, dietro le lenti dello schermo e dell’algoritmo.
L’ansia classificatoria di stampo illuminista, l’inurbamento selvaggio della società, gli squassi sociali scaturiti dalle enormi conoscenze degli ultimi secoli hanno prodotto una profonda frattura nell’arcano rapporto con la bestia, scardinando gli antichi legami che univano il suo sfruttamento al valore simbolico e culturale che le veniva attribuito. Una colpa nei loro confronti che mai come ora ci portiamo addosso, sul quale la pianta animalista cresce più rigogliosa che mai.
Se il moderno uomo europeo, figlio di una cultura illuminista tutta cittadina che aveva già abbandonato i simboli della vita rurale, più che abitare, “pensava” gli animali nel contesto artificiale delle sue ordinate e stabili categorie, il primate digitale di oggi “sente” il mondo animale e lo vive in una dimensione paralogica, deformata dall’idea animalista. Un animale sublime quello contemporaneo, che trascende la sua corporeità. Pet a parte, ubiquitari umanizzati abitatori delle nostre città, vacche, maiali, polli sono definitivamente scomparsi dal nostro patrimonio di esperienze e relegati all’unico piano della visione/emozione. Nella loro rappresentazione digitale, essi non sono più specchio della riflessione sull’umano o fonte di ispirazione per l’artista, escono dai nostri spazi fisici per entrare in schermi in cui la decostruzione della loro materialità scompone la bestia da allevamento nei suoi singoli, scollegati significati: cibo, colpa, dolore; un’idea post moderna di animale che impedisce la sua soggettivazione e dissolve la stabile distinzione logica dei concetti di umano e animale. Nella tanto annunciata decadenza della nostra cultura occidentale uomo e animale non sono mai stati tanto pericolosamente e indistintamente vicini.
Il tramonto dell’Illuminismo apre quindi la strada a una rappresentazione emotiva della bestia, che troverà pieno compimento nell’era digitale. Una riduzione dell’idea di animale a “stato d’animo”, che Giacomo Leopardi ha elaborato poeticamente con sensibilità animalista tutta italiana. Diversamente dai canoni premoderni in cui la bestia simboleggiava categorie morali, colpe e peccati tutti umani, l’animalismo nasce quindi con la modernità: il secolo post illuminista appunto, che con la nascita delle metropoli e l’oscuramento delle culture rurali ha stravolto i millenari riferimenti simbolici della relazione uomo animale, ormai rimosso dal nostro orizzonte di pensiero e ridotto a macchina cartesiana, produttrice, ora di cibo, ora di affetto, ora di dolore. L’animale d’allevamento soprattutto, alienato nell’indecifrabile sistema delle regole tecnico-giuridiche di produzione e presunta tutela del suo benessere, ha pagato più di tutti questo scotto simbolico, lasciando al pet l’esclusiva dell’affetto e dell’emozione.
Due secoli che nell’ansia di conoscenza del mondo naturale, dei suoi confini e soprattutto dell’al di là di essi, rovesciano le certezze antropocentriche del passato, la fiducia nella dominazione della natura, l’orgoglio tassonomico unificante, per aprirsi a una nuova interpretazione meno armoniosa e consolatoria; una visione che enfatizza le profondità incontenibili del mondo naturale e le sue insormontabili dissonanze rispetto alla condizione umana, lo stato d’animo che Antonio Prete chiama efficacemente il “supplizio dei moderni”. Finiscono le grandi narrazioni e la visione della natura si spariglia in piani personali ed emotivi privi di un comune denominatore sociale e scientifico, una visione che dall’animalismo poetico di Leopardi si è radicalizzata in quello militante dei nostri tempi, facendosi ancora una volta ideologia della natura, mistica di cose perdute, senso di decadenza.
Nella sua ansia interrogativa Giacomo Leopardi vive questa tensione a livelli sublimi, rivendicando la dimensione “poetica” della natura, esterna al logos dell’essere umano, nella quale l’animale diventa simbolo della disgregazione del suo punto di osservazione e dell’immensa fragilità del suo agire.
Giacomo Leopardi, il primo e più grande animalista italiano. Anche lui condizionato dalla “Historie des animaux” del Conte de Buffon, il terribile francese inventore della natura inferiore del continente americano, il primo ad allontanarlo dalle orgogliose certezze di derivazione illuministica, superando il dualismo corpo spirito come elemento distintivo della condizione umana, che nel poeta diventa sguardo sulla sua dolorosa condizione intesa essenzialmente come animalità negata.
Con lui la storia della natura entra definitivamente in crisi, essa non è più il dispiegamento lussuoso delle forme del vivente che invoca l’umana classificazione, osservazione e appropriazione, offrendo solide rassicurazioni allo sguardo razionale dell’uomo e confermando così la sua sostanza spirituale. In Leopardi, molto prima e molto meglio di questa nuova pandemia, l’idea di natura diventa domanda inquietante che insidia la nostra identità fatta di solo logos, disvelandone l’assoluta precarietà.
La coscienza, substance spirituelle per dirla sempre con Buffon, intesa come un’orgogliosa soglia di distinzione tra umano e animale, l’elemento che determina la dimensione sociale e civile della nostra specie, si rovescia in distanza dolorosa dalla dimensione animale. Dominanza della dimensione razionale in antitesi al linguaggio dei sensi. Infelicità come animalità negata, appunto. L’immensa rimozione umana che è il mondo animale, per dirla sempre con Prete.
Beati voi se le miserie vostre / Non sapete (Zib. 69-70). All’infelicità cosciente dell’uomo si contrappone la felicità incosciente dell’animale, una condizione primigenia e mitica in cui l’ignoranza coincide con un’antica sapienza. Un prima del sapere razionale.
Ma non già credo che noi siamo capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare “Tout homme qui pense est un être corrompu”, dice il Rousseau, e noi siamo già tali (Zib. 56-57).
In questa distanza tra umanità e animalità prende forma il desiderio tutto umano di morte. Nella riflessione del poeta, la religione, in una strana alleanza con la natura cospira contro il desiderio di morte dell’uomo. La “naturalità” del non suicidio che appartiene alla dimensione animale, è adoperata dalla religione contro l’uomo, che, consapevole della sua condizione, vede il suicidio come un suo possibile innaturale sbocco. Sullo sfondo, sempre l’assenza di colpa degli animali e la loro condizione vitale e vigorosa, opposta a quella umana, nella quale il desiderio, inteso come desiderio del piacere, rappresenta una tensione continua e continuamente frustrata. Nel mondo animale infatti il desiderio non è razionalmente vuoto, ma intriso di materialità corporale, intrecciato con il gioco e il sogno, totalmente identificato con l’intensità e il valore della vita.
Leopardi, molto prima e molto meglio di tanti pessimisti da schermo, descrive una debolezza di vita tutta umana che impedisce al tecnologico bianco primate di vivere la bellezza del mondo; una forma di animalismo mediterraneo, forgiato nella cultura classica, con richiami a Seneca ed al suo “De vita beata”, in cui il filosofo indaga sulla causa dell’umana malvagità, non a caso definita feritas – etimo connesso a fera, “animale” –, in opposizione a una natura madre vittima dell’agire umano. Per Seneca è proprio la sua innata debolezza, di istinto aggiungo io, a rendere l’uomo l’animale più feroce. Scrive il filosofo: Omnis enim ex infirmitate feritas (ogni malvagità nasce dalla debolezza). Filosofo suicida guarda caso. Nietzsche, che parla del ressentiment, la rivalsa dei vili, è il suo moderno contraltare.
L’umanità percepita come civiltà, ordinata architettura umana di spirito e ragione, fallisce di fronte all’animalità intesa come innocenza, piena vita, colmo desiderio.
Per Leopardi l’animale vive una vita di pieno piacere, non fa domande, non si suicida e non s’arrende mai; forse perde in durata, ma sicuramente vince in intensità di vita. L’animale di Leopardi è l’eroe nascosto del nostro immaginario di addomesticati primati tecnologici. La vita viva che si misura non come computo di anni, ma come “abbondanza di sensazioni”. La rimossa bestia d’allevamento che esce dagli schermi, per farsi domanda continua su questa incolmabile distanza.
Nel “Dialogo di un Fisico e di un Metafisico” (Operette Morali, 1835) si sviluppa la comparazione tra il tempo del corpo biologico e quello del corpo sensitivo. L’opposizione tra il Fisico, che s’appoggia a un ricettario che possa prolungare la vita e il Metafisico, che invoca l’arte di vivere felicemente contro ogni nozione quantitativa dell’esistenza, svela l’artificio: Ma in fine, la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio.
Anche la dimensione della socialità, altra illusione tutta umana di superiorità, nel mondo animale diventa terreno in cui l’uomo risulta perdente. Leopardi infatti si prende gioco degli illuministi che, nella perfetta organizzazione sociale delle formiche, vedevano la prova della perfezione divina e la metafora dei modelli perfetti della società umana. Al contrario, in Leopardi la società animale ne diventa un poderoso strumento di critica. Nella società naturale gli individui fanno uso sufficientissimo della ragione per vincere le avversità; un principio di istintiva proporzionata razionalità che sfugge alle società umane. Per il poeta l’animalità non è più l’oscuro regno delle passioni, ma il luogo irrimediabilmente perduto di rapporti “ragionevoli”, il terreno della più grande rimozione umana. La tutela del bene pubblico diventa così appannaggio delle sole società animali.
Anche qui il richiamo con la tradizione classica è evidente, le api delle virgiliane “Georgiche” che trascorrono la vita seguendo leggi grandiose (magnisque agitant sub legibus aevom). Insetti con uno stile eroico di vita, da ammirare e invidiare.
Nel paragonare le leggi della convivenza sociale tra gli uomini e gli animali, Leopardi sembra delineare su un piano poetico le stesse leggi del comportamento che Lorenz definirà sul piano scientifico: la tendenza tutta umana ad esercitare la violenza verso i propri simili o addirittura se stesso, un’attitudine che pone in continuo pericolo le comunità che l’uomo costruisce. Contrariamente agli animali, che dispongono di un corredo istintivo innato a protezione dei propri simili, l’uomo è costretto a elaborare faticose e dolorose strategie di contenimento della sua stessa violenza, di cui i riti sacrificali che troviamo in ogni angolo del globo sembrano esserne lo strumento più antico. Leopardi intuisce su un piano poetico le faglie profonde e incolmabili che separano l’uomo dall’animale, la radice dimenticata delle dispute tra i vari propugnatori delle teorie odierne di protezione o liberazione degli animali. Una distanza che la scienza non è stata ancora in grado di colmare.
Animalità quindi come l’unico territorio in cui si esprime una dimensione realmente morale, consapevole il poeta dell’incapacità dell’uomo di costruire consessi sociali realmente giusti, un pensiero dissacrante soprattutto se collocato nelle tensioni libertarie del risorgimento.
In questo contesto, anche la guerra diventa terreno di analisi fra umanità e animalità e viene pensata come un retroterra oscuro che ne rovescia la retorica:
Cani orsi e simili animali vengono molte fiate a contesa tra loro, e fannosi non di rado del male, ma di rado è che una bestia sia uccisa dalla sua simile, anzi pur che ne soffra più che un male passeggero e curabile. E quando pur ne rimanga uccisa […] questo è un di quei disordini affatto accidentali, non voluti, ma neanche provvedibili dalla natura, e di cui ella non ha colpa […].
Ma Leopardi si spinge oltre, negando ogni somiglianza fra l’aggressività umana e animale:
Che proporzione, anzi che somiglianza può aver l’uccisione di uno o di quattro o dieci animali fatta da’ loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia di individui umani fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d’alcun di loro, ma comune (laddove niuno animale combatte mai per altro che per se solo; al più, ma di rado co’ suoi simili, per li figli, che son come cosa, anzi parte di lui), e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finché non l’hanno tutta estirpata ec. ec.?
Altro che contratto sociale di Rousseau, il consesso civile degli uomini poggia le proprie fondamenta su radici di violenza, la ragione come strumento di colonizzazione della natura. Lorenz e Leopardi, scienza e poesia alleate e coerenti in un comune sentire.
L’accesso degli animali al mondo degli uomini ha il nome e la servitù del lavoro. Nella sua inscindibile esigenza di dominazione della natura l’uomo ha coinvolto anche gli animali, i quali con l’addomesticamento hanno accettato con il successo biologico la perdita di una condizione originaria di felicità animalesca, in questo accomunandosi al destino evolutivo del loro altrettanto addomesticato padrone. Qui forse troviamo la comunanza più stretta con loro, animali domestici siamo anche noi, uniti nel medesimo leopardiano destino di una vita artificiale e consapevole sottomissione.
Gli animali parlano di felicità e armonie perdute, come nell’“Elogio degli uccelli”, il canto della liberazione dei sensi, o il desiderio di infinito del “Cantico del gallo silvestre”. In questo percorso, tra il mito delle origini e il canto della fine, gli animali compaiono come termine di paragone per le azioni degli uomini, come modello di un corpo senza infelicità, come universo sottratto alla conoscenza dell’uomo, armonia di sensi. Come si diceva, una pienezza estranea agli uomini.
Oggi l’ascolto del canto di un uccello, più che ricerca di un poetico altrove che non ci appartiene, rischia di generare pericolosi equivoci. Si riporta sul quotidiano “La Gazzetta di Modena” di una comunità di alcuni cittadini preoccupati da un misterioso e inquietante rumore notturno, rivelatosi poi essere il canto di un assiolo (Otus scops, Linnaeus, 1758). Irrimediabilmente lontani dalle suggestioni leopardiane, con poco tempo da perdere e bisognosi di sonni tranquilli, come si addice a una città seria e operosa come Modena, i solerti cittadini hanno confuso l’arcano verso di questo filosofico uccello per l’ennesimo gracchiante antifurto. Storia che si conclude con l’intervento della forza pubblica a ripristinare l’ordine costituito. È proprio vero, ogni volta che animali non addomesticati fanno capolino nelle nostre città, nasce improvvisamente la santa esigenza di ripristinare l’ordine sociale e la nostra tiepida natura artificiale, lasciando quella selvaggia alle passeggiate della domenica. Meno male che Modena è una città molto civile, in altri luoghi l’innocuo pennuto si sarebbe beccato una fucilata, o scatenato liti condominiali all’arma bianca.
L’incolpevole assiolo, l’uccello filosofico reso immortale dall’omonimo poema di Pascoli ridotto a disturbatore della quiete pubblica.
La discussione animalista è figlia della condizione contemporanea dell’uomo occidentale, smarrito tra perdute certezze illuministe e tensioni romantiche verso una natura aliena, incantato da utopie biocentriche che, nel tentativo di avvicinare sempre più uomini e animali sul piano filogenetico e assiologico, finiscono per confondere il senso di questa inestricabile differenza e indebolire la sua traballante identità.
L’idea di animalità negata sembra animare equivoci a non finire anche con il mondo di Venere. Una situazione che alcuni paesi nordeuropei tendono a semplificare, sostituendo all’ambiguità degli istinti i più lineari codici del diritto. Un’idea dei rapporti fra sessi di vago sapore illuminista, molto ordinata e molto protestante, che rappresenta i due esseri che entrano in relazione come entità predeterminate, animate dalla sola forza della ragione e da una sorta di kantiana moralità innata, la cui attrazione si dovrebbe basare su una specie di precodificato algoritmo degli istinti. L’idea di chi vede la comunità come un corpo sociale sempre più debole e non crede nella sua capacità di controllo dei singoli. Approccio che annebbia la risorsa più preziosa e in via d’esaurimento che ci resta: i leopardiani ragionevoli istinti animali, considerati alle latitudini nordiche come un groviglio buio e bestiale, buono tuttalpiù per romanzi gialli alla Wallander e non come il luogo dionisiaco in cui questi vengono a parlamento e producono il sentimento nella tonalità finale.
La linea di pensiero, che non sa riconoscere la violenza che ci abita e pensa di limitare i rapporti tra sessi alla sfera del diritto e del logos, non è poi così dissimile da quella di chi pensa di ricondurre anche la relazione tra l’uomo e i suoi animali su questi angusti binari; senza comprensione di questa presenza oscura e della compassione che ne costituisce il contraltare, senza il controllo sociale dei comportamenti dei singoli, sfuggono dagli steccati del buon senso anche le teorie animaliste più spinte, quelle che auspicano una specie di utopico e frigido divorzio dell’uomo da ogni forma di allevamento nel nome della presunta libertà di autodeterminazione di tutti gli esseri viventi.
Occhio quindi a giocare con gli animali, non c’è eros senza logos e il primo deve sublimare nel secondo, producendo i ragionevoli istinti che muovono la vita con sano vigore animale.
L’immensità del pensiero etico e antinaturalistico leopardiano, gli animali rappresentati, idealizzati e immaginati in D’Annunzio, che rimando alla lettura del libro, sono ciò che manca al primate protagonista di questa storia. Poeti testimoni di una natura sublime e sublimata, ora malinconica, ora nostalgica, ora sensuale, ma sempre profondamente connaturata al ritmo vitale, al senso pagano, circolare, del tempo. Come i latin lover che non si trovano più, anche in questi poeti le presenze animali sono il crepuscolo di un tempo moderno di matrice positivista, di fiducia nel razionale e negazione dell’irrazionale tipici dell’atmosfera inquieta di fin de siècle; una temperie culturale che cederà il passo a un nuovo paesaggio novecentesco fatto di animali illusori e fantastici, già deprivati di vitale materialità corporea.
Rappresentazioni che verranno infatti superate da poeti come Montale. Nella sua “Crisalide” ad esempio, in cui l’abortita trasformazione dell’essere in farfalla sembra negare le metamorfosi delle creature dannunziane, ancora pulsanti di classicismo latino e miti ottocenteschi. Nei “Vecchi versi” la lucertola ferma sul masso brullo, il falchetto che strapiomba nella calura, la trota che guizza controcorrente o il ramarro che scocca, si staccano da una percezione sensuale della natura e da essa si isolano, come in uno scatto fotografico o un quadro di De Chirico, a connotarne l’essenza tutta mentale e metafisica, inesorabilmente desessualizzata, della bestia.
Ma forse è giunto il momento di ricondurre anche l’innocente violenza della bestia nel solco della ragione e del diritto. Che al reato di maltrattamento degli animali sia ora di contrapporne uno equivalente nei nostri confronti?
Nel caso dell’orso bruno nostrano di nome M49, ad esempio, si stanno già utilizzando strumenti e terminologie proprie del finora solo umano diritto: come Antoine Doinel, l’adolescente ribelle dei “I quattrocento colpi” di François Truffaut, il nostro eroe è infatti evaso da un recinto in Trentino in violazione di un provvedimento di custodia cautelare nei suoi confronti; a questo è puntualmente seguito da parte dell’efficientissima Provincia di Bolzano, l’ordine di cattura verso il reo, resosi nel frattempo colpevole anche dell’ulteriore reato di abigeato. Per la fiera in questione, dalla fedina penale ormai irrimediabilmente compromessa, in assenza di segni tangibili di ravvedimento, l’ordinanza conferma la reclusione senza escludere la fatale sentenza di condanna a morte. Unica speranza per il reietto, l’eventuale provvedimento di grazia da parte del Presidente della Repubblica indotto dalla schiera di appassionati animalisti che ne hanno preso le difese; su questo punto però il diritto animal-umano è ancora lacunoso e necessita di qualche codicillo in più. Sia come sia, dovremo aggiungere nel codice penale un nuovo reato: la mancata o perduta domesticazione, colpa imperdonabile nella società tecno-digitale.
Questioni che riguardano i frequentatori dei boschi dolomitici, desiderosi di godersi in tranquillità le proprie passeggiate a contatto con la natura, di avventurarsi nelle forre con un allegro cagnolino al seguito, ma sempre protetti per legge dalle minacce del selvaggio; o tipi più temerari, come Ektor Weber, domatore del circo Orfei sbranato a Triggiano da una tigre sbadata, che forse ha confuso zampate con carezze.
Morti che in questi tempi biocentrici non impietosiscono più nessuno; come quelle degli sventurati toreri, ultimi esponenti di un’anacronistica sfida dell’uomo alla potenza animale, vittime che in questi tempi inducono alla partigianeria verso l’animale assassino. Metafore della bestia che è in noi, reclusa nel recinto della ragione e del diritto, ma sempre pronta a riemergere dal buio dell’inconscio per colpire le nostre traballanti certezze.
Scherzi a parte, almeno per ora, amore e morte restano faccende solo umane e Rosa King, la guardiana sbranata da una tigre in Gran Bretagna nel parco di Hamerton, l’ultima innocente vittima del tragico e illusorio desiderio di controllo di una natura che non ci appartiene.