Social Networks, diritto alla privacy e reputazione delle imprese

Social Networks, diritto alla privacy e reputazione delle imprese
Social Networks, diritto alla privacy e reputazione delle imprese

Il recente Regolamento 2016/679, oltre a rafforzare la disciplina della protezione dei dati personali, si è preoccupato di affrontare le questioni connesse all’affermazione delle nuove tecnologie e di offrire una piena dignità al «diritto all’oblio», richiamato sin nelle premesse della fonte (considerando 64 e considerando 65).

Il «diritto all’oblio», peraltro già oggetto di specifico riconoscimento in ambito nazionale, anche grazie a numerosi provvedimenti, è al centro di un intenso dibattito, che impone un bilanciamento tra opposte esigenze (quella di informare, da una parte, e quella di offrire piena tutela ai dati personali e all’identità personale, dall’altra). Se è vero che il problema attuale è legato ai rapporti tra «memoria individuale e memoria sociale», anche in virtù del reperimento di fonti e di informazioni nel web e nei social media, allora, come scritto da Stefano Rodotà, «il diritto all’oblio può pericolosamente inclinare verso la falsificazione della realtà e divenire strumento per limitare il diritto all’informazione». La questione del bilanciamento tra opposte esigenze sta alla base delle problematiche legate allo sviluppo di quella che il Legislatore europeo ha chiamato per primo «Società dell’Informazione», in cui la comunicazione e la diffusione di qualsiasi tipo di “sapere” assume un ruolo fondamentale per lo sviluppo degli individui e delle imprese. La Suprema Corte ha chiarito che è sempre l’interesse pubblico che giustifica la violazione di quell’aspetto della dignità - riservatezza che è definito «diritto all’oblio» (Cass. pen., sez. I, 8 gennaio 2015, n. 13941). In sintesi, la Cassazione ha richiamato l’«impostazione classica», che tende a collocare il diritto entro i confini di concetti noti e affermati come la dignità e la riservatezza e, più in generale, nell’alveo dei diritti della personalità, dovendosi riconoscere all’individuo il diritto di cambiare, di trasformarsi, di crescere, lasciandosi alle spalle un passato, anche pesante. Di sicuro, se di diritto si dovesse parlare, non si potrebbe non cogliere quanto lo stesso rappresenti qualcosa di estremamente “fluido”, “dinamico” e, naturalmente, in continua evoluzione.

Attualmente, due sono i significati attribuibili all’espressione «diritto all’oblio»: se, da una parte, si potrebbe ritenere che il «diritto all’oblio» sia riconducibile al diritto del soggetto interessato alla cancellazione dei propri dati (di «diritto alla cancellazione» parla il nuovo Regolamento europeo in tema di dati personali), da un’altra angolazione, con l’espressione «diritto all’oblio» si potrebbe indicare la pretesa di un soggetto a non vedere riproposte notizie oramai superate e in grado di arrecargli pregiudizio. Tutto molto interessante se non fosse che la natura stessa della rete Internet non agevola l’eliminazione di dati e di informazioni immesse nel Web.

L’applicazione dei princìpi espressi dal Regolamento 2016/679, già complicata nell’ambito della «rete delle reti», diviene ancora più problematica con riferimento specifico ai social networks, l’accesso ai quali, frequentemente, costringe gli utenti a «spogliarsi» quasi di tutti i diritti, in ragione dell’adesione alle «condizioni di uso», che - di fatto - impone il rilascio di una serie di autorizzazioni sia con riferimento all’utilizzo dei contenuti creati e condivisi dall’utente sia in ordine ai numerosi dati personali immessi nel World Wide Web.

Del resto, oggi i social networks sono anche i maggiori veicoli di notizie che consentono la formazione della reputazione delle imprese, che, non sempre in grado di cogliere l’importanza di questo asset strategico, risultano incapaci di affrontare le criticità di una rete in grado di trasformare ciascun utente in una fonte (inesauribile) di informazioni replicabili e moltiplicabili senza controllo.

Non deve quindi stupire che - nel 2015 - Umberto Eco si lasciasse andare a un giudizio al vetriolo, affermando che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività: venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel».

 

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