STOP!

“Fermati!”, “fermata!” o “fermarsi!”
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STOP!


Viene associata visivamente al segnale autostradale di un colore rosso intenso posto al bordo di un incrocio, che ci obbliga ad arrestare la marcia e a proseguirla solo dopo aver controllato che non giungano veicoli né da destra, né da sinistra.

È una parola potente anche dal punto uditivo: quattro lettere in una sillaba che scatenano nel nostro cervello una reazione immediata di blocco di ciò che stavamo facendo prima di essere pronunciata.

Mentalmente ci riporta a una situazione di inibizione: dobbiamo smettere immediatamente di proseguire un’azione, un pensiero.

Solitamente subiamo questa parola e tutto ciò che essa comporta nella nostra vita, di tutti i giorni, lavorativa, relazionale. Molto più raramente siamo noi stessi a imporcela, tralasciando in questa sede le ipotesi in cui siamo costretti a proferirla nei confronti di qualcuno.

Siamo tutti d’accordo sul fatto che questa piccola parola anglosassone porti con sé una Capitis Deminutio. Dopotutto, la famosa citazione “chi si ferma è perduto” di mussoliniana memoria, divenuta un cult nel dopoguerra grazie all’omonimo film di Totò del 1960 e ripresa poi nella parodia a fumetti della Divina Commedia ad opera di un Topolino del 1950 (“Chi si ferma è perduto mille anni ogni minuto”) è entrato a far parte del nostro modo di vivere, di intendere le giornate, di percepire il tempo.

E così viviamo nel flusso costante di idee, di progetti, di manie, partecipando alla gara degli obiettivi che ci prefiggiamo ogni giorno alla massima velocità possibile. Abbiamo bisogno di essere in corsa perché, finché questo avviene, noi ci sentiamo vivi, stabilmente pronti ad afferrare tutte le opportunità che si presentano davanti e ad accettare le sfide giornaliere.

… o forse no?

Siamo sicuri che questo moto perpetuo sia indice di forza? O è una illusione perché, facendo un parallelismo con la termodinamica, esso deve necessariamente fare i conti con l’attrito, che, di fatto, ne impedisce l’esistenza?

Perché quando ci scontriamo con questo “attrito”, ci sentiamo vulnerabili e paralizzati? Perché quando siamo costretti a bloccare il traffico delle nostre azioni ci sentiamo “indietro”?

Ci identifichiamo in quel moto perpetuo? Viviamo allora in una illusione?

L’illusione del pieno controllo di sé, delle proprie azioni e del raggiungimento dei propri obiettivi cade di fronte a un immobilismo forzato.

Lo “stop” che ci viene imposto ci toglie tanto, sembra toglierci la nostra stessa essenza, privarci della nostra natura.

Sembra, appunto … solo se lo guardiamo con i soliti occhi.

Quanti, durante la pausa forzata da Covid, hanno scoperto di avere un talento fino a quel momento tenuto nascosto? Ho ammirato quadri meravigliosi che sembravano dipinti da una mano sapiente di un pittore esperto e invece erano di una mia collega che ha tradotto in arte il suo immobilismo solitario.

Quanti, durante una parentesi di assenza per malattia, hanno riconsiderato la scala dei propri obiettivi, dando priorità a quelli che incidono nella qualità della vita? La deviazione forzata del percorso intrapreso ai fini dell’ascesa di una carriera molto spesso si traduce in una totale inversione di rotta, all’insegna della ricerca di un modo di vivere più “umano”.

Quanti, dopo essere stati licenziati o bocciati a un concorso o dopo aver ricevuto l’ennesima porta sbattuta in faccia, si sono reinventati, attingendo in maniera più profonda e consapevole le proprie risorse fino a riuscire a tradurre i propri talenti in una attività economica redditizia?

O più semplicemente, quanti, a causa del blocco momentaneo del treno su cui viaggiano, invece di imprecare per il ritardo, ne approfittano per ammirare il paesaggio che si offre dietro il finestrino?

Una frenata nel nostro percorso può catturare la nostra attenzione sul panorama intorno a noi e farcene apprezzare la bellezza, distogliendoci momentaneamente dall’ansia dell’arrivo. Lo stesso richiamo di Luis Sepulveda nella sua Storia della lumaca che scoprì l’importanza della lentezza.

Fermarsi, anche per una causa estranea al proprio volere, può diventare l’occasione per spalancare gli occhi e guardarci finalmente per quello che siamo, non per quello che facciamo o che abbiamo.

Lo stop “forzato” può farci capire che ciò di cui abbiamo veramente bisogno non deve essere necessariamente là fuori, ma è già dentro di noi.

Fino a scoprire quasi il gusto della “stasi” e ricercarla più spesso, soprattutto quando ci sentiamo in affanno, non abbastanza allenati per procedere nella corsa giornaliera.

Un semplice “STOP!” può donarci molto di più di un illusorio moto perpetuo: ci può svelare l’abile inganno che si cela dietro ogni azione svolta quotidianamente in maniera inconsapevole ed aiutarci ad apprezzare il momento presente per viverlo appieno. 

Accettando l’ineluttabile “attrito”, accettiamo il viaggio così com’è, fatto di corse rapide ma anche di rallentamenti e di STOP agli incroci; e accogliamo noi stessi anche quando abbiamo paura di restare indietro, perché, se viaggiamo alla stessa velocità della nostra anima, indietro non lo saremo mai.