Trattato INF: torna l’incubo atomico in Europa?

Trattato INF: torna l’incubo atomico in Europa?
Trattato INF: torna l’incubo atomico in Europa?

di Mirko Molteni

 

Sembravano lontani, congelati nei libri di storia, quei momenti di paurosa tensione fra Est e Ovest che negli anni Ottanta del Novecento parevano il preludio a una catastrofica guerra nucleare combattuta specialmente sul suolo europeo. Fra trenta e quarant’anni fa sembrava davvero che da un momento all’altro le città della nostra vita quotidiana potessero d’improvviso sprofondare sotto il colpo di maglio infuocato di una esplosione atomica, con una colossale nube a fungo svettante fino alla stratosfera.

Quel “fungo” di detriti e polveri radioattive avrebbe fatto da corona funebre sopra un nuovo tetro mondo di macerie abitate da sopravvissuti ridotti dai raggi gamma a mostri mutanti. Questa era la paura atomica degli anni della Guerra Fredda, sulla cui percezione popolare calcava abilmente gran parte della narrativa e del cinema di fantascienza. Ma sempre partendo da pericoli autentici e ben fondati, come del resto ricostruito da film assai realistici, su tutti quell’immeritatamente dimenticato “The Day After” uscito al cinema guarda caso nel 1983, proprio nel pieno dell’ultima grave stagione di crisi fra NATO e Patto di Varsavia, grossomodo fra l’avvento di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel gennaio 1981 e l’insediarsi al vertice sovietico di Mikhail Gorbachev quattro anni più tardi.

Ciò che allora rendeva più facile e tempestivo l’abbassamento della soglia nucleare in caso di scontro tra i due blocchi era la diffusione di quelli che la stampa, anche italiana, battezzò subito come “euromissili”, ovvero i missili, sia balistici che da crociera, a testata nucleare e a raggio intermedio dislocati direttamente in Europa da entrambe le superpotenze.

Con l’aggravante che gli assai più ridotti tempi di volo di tali missili, al confronto degli aerei armati di bombe e dei missili intercontinentali che partivano da assai più lontano, riducevano enormemente anche i tempi di valutazione e reazione, moltiplicando il beffardo rischio di una guerra scoppiata per errore, oppure per eventuale, disperato quanto folle, tentativo di risolvere lo stallo con lanci a raffica nella più totale sorpresa. Quella stagione tramontò come noto a partire dall’8 dicembre 1987, quando a Washington, dopo mesi di trattative, Reagan e Gorbachev apposero finalmente la loro firma al Trattato INF, dalla sigla per Intermediate-Range Nuclear Forces, che impegnava USA e URSS a distruggere interamente i loro missili a testata nucleare di medio e intermedio raggio, ovvero la cui gittata fosse compresa tra un minimo di 500 e un massimo di 5500 km.

Il trattato portò così entro il maggio 1991 all’eliminazione totale di quasi 2700 vettori, assommando quelli russi e americani, di base in Europa. Da parte americana si trattava dei balistici Martin Marietta MGM-31 Pershing II e dei “cruise” General Dynamics BGM-109 Tomahawk, o meglio della loro versione a testata atomica BGM-109G battezzata Gryphon, e da parte sovietica dei balistici RSD-10 Pioner, detti SS-20 Saber (nella foto sotto) in codice NATO, più altri due tipi balistici più vecchi, a quell’epoca ormai obsoleti, gli R-12, per la NATO SS-4 Sandal, e gli R-14, alias SS-5 Skean.

Senza qui voler allargare il discorso ai trattati sulla limitazione delle armi strategiche intercontinentali, ossia i vari SALT, START e New START la cui analisi ci porterebbe fuori tema, l’INF già di per sé è stato uno dei principali motivi per cui negli ultimi trent’anni il timore di un conflitto nucleare in Europa è stato relegato agli ultimi posti nella scala delle paure collettive più diffuse. L’incubo del fungo atomico è, fino ad oggi, nettamente sorpassato nella “classifica” delle paure per il futuro prevalenti fra la gente comune da numerose altre “amenità”, come la disoccupazione, la tenuta delle banche, la tenuta del sistema pensionistico, l’effetto serra, le strozzature nella raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, eccetera, eccetera, chi ne ha, più ne metta.

Tutti problemi concreti e molto seri, beninteso. Ma che entro pochi anni, se non pochi mesi, potrebbero tornare a essere surclassati dalla paura principe, una guerra combattuta con armi catastrofiche. Lo ha detto chiaro e netto lo scorso 20 dicembre, in occasione della sua consueta conferenza stampa di fine anno, il presidente russo Vladimir Putin: «Il mondo sta sottovalutando il rischio di una guerra nucleare. Senza il trattato INF si rischia lo sfacelo della deterrenza e dell’equilibrio strategico». E ha aggiunto: «Sono rischiose le armi nucleari tattiche che qualcuno vorrebbe usare davvero. Se arriveranno i missili in Europa, poi l’Occidente non squittisca se la Russia reagirà. Questo potrebbe portare a una catastrofe globale che metterebbe fine alla civiltà e forse al pianeta».

Il capo del Cremlino ha anche voluto lanciare un messaggio di speranza e moderazione: «Credo però che l’umanità avrà abbastanza buon senso». Ma la prudenza non è mai troppa, data la delicatezza della questione e per evitare passi falsi, entrambe le potenze debbono applicarsi in profondissimi, come non mai, esercizi di intelligence e diplomazia, poiché la buona volontà, da sola, non basta.

Negli ultimi mesi del 2018, infatti, l’apparato del trattato INF è entrato sempre più in crisi soprattutto a causa della spinta degli Stati Uniti, che da un lato danno ad intendere di volerlo migliorare includendo altre potenze come la Cina, la quale tuttavia non ne vuole sapere, dall’altro sostenendo a bella posta che la Russia lo starebbe violando per prima e sbandierando tale pretesto per giustificare un proprio ritiro dal patto in tempi ben più brevi di quanto si potrebbe ritenere necessario per effettuare tutte le verifiche del caso, ammesso che l’INF lo si voglia davvero salvare.

L’ultimatum

A quanto ci è dato sapere nel momento in cui stiamo scrivendo queste righe, attorno al 4 febbraio si potrà già a grandi linee intuire se il trattato INF sopravviverà o no, alterando eventualmente gli equilibri vigenti dell’ultimo trentennio. È quello infatti il termine da cui inizierà il conto alla rovescia di un vero e proprio ultimatum, apparentemente fin troppo sbrigativo, che gli Stati Uniti hanno esternato alla Russia il 4 dicembre, nel corso del vertice dei ministri degli Esteri della NATO al quartier generale di Bruxelles.

Già il giorno precedente, la mattina del 3 dicembre, il segretario generale dell’alleanza, il norvegese Jens Stoltenberg, aveva fatto da apripista, anticipando: «La Russia ha sviluppato e dislocato un nuovo missile con capacità nucleare che potrebbe raggiungere le città europee con scarso o nessun preavviso. Gli USA sono in regola con il trattato INF. Esso ha eliminato un’intera categoria di armi, ma ora è messo a rischio dalla Russia».

L’indomani, davanti agli alleati, è stato lo stesso segretario di Stato della potenza egemone dell’Occidente, Mike Pompeo, che del resto fino a pochi mesi prima era a capo della CIA, a far partire una sorta di conto alla rovescia, dichiarando: «Abbiamo avviato il processo di sospensione dei nostri obblighi del trattato INF in 60 giorni, tempo necessario perché la Russia torni a conformarsi al trattato.

Quando è stato firmato nel 1987, il trattato rappresentava lo sforzo compiuto in buona fede da due paesi rivali per ridurre la minaccia di una guerra nucleare. A prescindere dal successo del trattato, oggi ci troviamo davanti agli imbrogli della Russia rispetto ai propri obblighi di controllo degli armamenti. La Russia ha cominciato a testare il missile SSC-8 sin dalla metà degli anni 2000.

Il suo raggio lo rende una diretta minaccia per l’Europa. Gli Stati Uniti hanno rispettato il trattato in maniera scrupolosa. Davanti alle irregolarità russe, siamo stati estremamente pazienti e ci siamo sforzati per convincere la Russia a rispettare i termini dell’accordo». Il segretario di Stato USA ha spiegato inoltre che «la sospensione durerà sei mesi, poi il caso verrà riesaminato». Il senso è chiaro, se entro 60 giorni dopo la “tirata” di Pompeo, il che, contando dal 4 dicembre 2018 significa per l’appunto entro il 4 febbraio 2019, i russi non dimostreranno di non aver violato il trattato, gli USA inizieranno a sospenderne unilateralmente la propria applicazione per sei mesi, di fatto iniziando ad annullarlo, essendo l’INF un patto puramente bilaterale, che quindi, per definizione, non potrebbe persistere azzoppato.

Se poi, entro i sei mesi successivi al 4 febbraio, ovvero entro il 4 agosto 2019, dalla Russia non verrà percepito alcun segnale gradito agli americani, può darsi che l’INF finisca col decadere definitivamente. Pompeo ha così dato una parvenza di ufficialità a un processo di discredito dell’INF che andava avanti in modo continuativo da parte statunitense almeno dal 2017, puntando di volta in volta l’indice su sistemi d’arma russi di cui non è, a tutt’ora, comprovata l’incompatibilità col patto di trent’anni prima.

Se dal febbraio 2017 gli americani sostenevano di temere soprattutto alcune versioni, come la M e la K del sistema missilistico a breve raggio Iskander, con rampa mobile autocarrata, che secondo loro supererebbero 500 chilometri di gittata, dunque i limiti inferiori del trattato (mentre secondo i russi non supererebbero i 415 km), nel corso del 2018 l’attenzione si è spostata sull’SSC-8, ossia un missile da crociera di cui non si sa molto, derivato, sembra dal Kalibr navale già usato nella campagna di Siria per bombardare dal mare le postazioni dell’Isis e di altri jihadisti nemici del governo di Damasco alleato di Mosca.

Già il 28 marzo 2017 al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov toccava puntualizzare: «Abbiamo ripetutamente confermato la nostra osservanza degli impegni del trattato INF. Non ci sono violazioni da parte nostra. Gli Stati Uniti sostengono il contrario, ma non forniscono alcuna informazione che possa essere verificata». Di contro, i russi reagivano aumentando i loro già ampi sospetti sulle basi antimissile americane realizzate in Europa Orientale, il cosiddetto sistema Aegis Ashore, cioè la versione terrestre del sistema antibalistico imbarcato sugli incrociatori della US Navy.

Sistema difensivo, sì, ma che può offrire mascheramento a missili da crociera offensivi, dato che il modulo di lancio verticale MK.41 dei missili antimissile RIM-161 Standard SM-3 è dello stesso tipo di quello impiegato per i “cruise” offensivi Tomahawk. Proprio dei Tomahawk, la Marina americana ha già dichiarato da tempo di voler reintrodurre una versione armata con testata nucleare, ufficialmente destinata all’imbarco sui sottomarini, ma che nessun serio ostacolo tecnico impedisce, apparentemente, di spostare in qualsiasi momento su piattaforme terrestri.

Si sa che la prima importante base antibalistica, quella di Deveselu, in Romania, è già attiva dal 2016 con almeno 24 lanciatori e altrettanti missili, mentre è in fase di costruzione una seconda installazione a Redzikowo, in Polonia, che conterà su una forza similare.

Perciò il presidente russo Vladimir Putin poteva ben dichiarare già più di un anno fa, il 14 dicembre 2017: «Gli USA di fatto si sono già ritirati dal trattato quando hanno dispiegato i sistemi di lancio in Romania, quindi tutte le accuse sono intese a presentare la Russia come un violatore del trattato, in modo da usare la situazione come un pretesto per un ritiro ufficiale. Noi non abbiamo intenzione di ritirarci da qualsivoglia trattato deteriorando la sicurezza internazionale». Che la situazione stesse volgendo al peggio, lo aveva capito all’inizio del 2018 uno degli stessi “padri” dell’INF, l’ormai anziano Mikhail Gorbachev, che pur giunto ormai alla veneranda età di 87 anni resta ben lucido e interessato a seguire e commentare le più recenti evoluzioni del panorama internazionale.

Il 6 gennaio 2018, quello che fu l’ultimo capo della disciolta Unione Sovietica, ha ammonito la nuova generazione di statisti a non dimenticare le utili lezioni strategiche e diplomatiche della Guerra Fredda: «Il compito di preservare gli accordi sul disarmo è uno dei più importanti. Ho spronato i presidenti di Russia e Stati Uniti ad affrontare il problema personalmente, a riaffermare gli impegni del trattato e a istruire diplomatici e militari a risolvere i problemi.

Non solo l’INF, ma anche tutti gli altri trattati come il New START, o il patto di non-proliferazione TNP sono parte di una singola architettura che può collassare se uno dei suoi elementi viene minato». Gorbachev non ha inoltre perso l’occasione di ribadire quello che fin dalla metà degli anni Ottanta era un suo vecchio pallino, cioè quello di porre, gradatamente, basi di sicurezza collettiva talmente da far sì che tutte le grandi potenze possano, un giorno, eliminare totalmente le armi nucleari.

Tornato più volte sulla questione, il 21 ottobre scorso è stato anche più tagliente del solito nei confronti di Trump, dicendo che il ritiro dal trattato «è un errore che denota ristrettezza mentale». Con la sua esperienza, Gorbachev è stato del resto fra i primi a non prendere sottogamba i crescenti segnali di insofferenza statunitense verso l’INF, germogliati purtroppo fra l’indifferenza preponderante della grande stampa, per non parlare del pubblico.

E sì che a mettere in guardia tutti gli osservatori più attenti c’era già il pericoloso precedente dell’uscita unilaterale degli USA dal trattato ABM firmato a Mosca il 26 maggio 1972 da Richard Nixon e Leonid Brezhnev, l’accordo che limitava le difese antimissile per “salvare” il principio della deterrenza reciproca ed evitare che qualcuno potesse pensare di sferrare per primo un attacco a sorpresa sperando nei propri “scudi” per rimanere impunito. Quando si consumò questo primo “strappo” nel paziente tessuto di controllo degli armamenti che l’accorta classe politica della Guerra Fredda aveva faticosamente confezionato, si era al 13 giugno 2002 e alla Casa Bianca sedeva George Walker Bush, che decise di arrogare all’America mano libera negli ambiziosi progetti di National Missile Defence (NMD) e poi Ballistic Missile Defence (BMD) sbandierando l’ambizione, forse più propagandistica che reale, di rendere l’America e le sue basi principali invulnerabili a un attacco missilistico nemico.

Un vecchio sogno che risaliva a Reagan e che aveva cominciato a prendere effettiva forma sperimentale negli anni Novanta sotto la presidenza di Bill Clinton, rivelandosi poi un costante indirizzo strategico di tutte le amministrazioni americane degli ultimi vent’anni. Ne scaturirono i programmi antimissile proseguiti poi sotto le presidenze di Bush Junior, Barack Obama e ora di Donald Trump, sfociando, fra le altre cose, negli avamposti di Deveselu e Redzikowo, vicinissimi alle frontiere russe e quindi alla ipotetica “fase ascendente” dei missili balistici russi, quando sono più vulnerabili sia perché i motori a razzo sono in funzione e lasciano una vistosa traccia infrarossa, sia perché testate multiple MIRV e finte testate-esca per ingannare le difese sono ancora racchiuse nell’ogiva.

E che il cosiddetto “scudo antimissile”, ripartito nei numerosi sistemi a breve o lungo raggio, di quota bassa o alta, che qui non stiamo a ricapitolare (GBI, THAAD, eccetera) non fosse indirizzato solo ai missili balistici degli “stati canaglia”, come Iran o Corea del Nord, ma anche a quelli russi, lo si capiva da molti indizi, come la collocazione in Europa Orientale dell’Aegis Ashore, il quale sarebbe stato meglio posizionato in funzione anti-iraniana in Turchia. Visto il copione della fine, dopo ben trent’anni, del trattato ABM, ora si sta assistendo in pratica a un “film” simile con l’INF.

Pretesti fondati?

Mike Pompeo non sembra aver scelto a caso il momento per lanciare l’aut aut alla Russia sull’INF, poiché il vertice NATO del 4 e 5 dicembre veniva appena una decina di giorni dopo l’ennesimo aumento della tensione con Mosca cagionato il 25 novembre dall’incidente fra le motovedette ucraine e russe nello stretto di Kerch, del quale noi stessi ci eravamo pure occupati tempo addietro.

Il clima era quindi quanto mai propizio per gli americani, per aggiungere anche il nodo dei missili a raggio intermedio, sicuri del sostanziale allineamento degli alleati. A riprova, nelle ore successive all’ultimatum, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg ha recitato, senza “se” e senza “ma”: «Tutti gli alleati sono d’accordo che la Russia è in violazione del Trattato INF e che gli USA lo rispettano totalmente. La Russia ha l’ultima possibilità di salvare l’INF, ma dobbiamo anche iniziare a prepararci per un mondo senza il trattato». Toni pessimistici già in partenza, che non fanno ben sperare sulla reale volontà di salvare il patto.

Fra le prime reazioni, ovvia, quella dello stesso presidente russo Vladimir Putin, che ha ribadito come sia sospetto che l’America porti a sostegno della sua tesi non meglio precisate accuse aventi per oggetto gli Iskander M e gli SSC-8, senza scendere in troppi dettagli: «La dichiarazione di Pompeo è un po’ in ritardo. Inizialmente infatti la parte statunitense ha dichiarato che si sarebbe ritirata dal Trattato e poi ha iniziato a cercare la motivazione per cui dovrebbero farlo.

La ragione principale è che stiamo presumibilmente violando qualcosa, tuttavia non è stata fornita nessuna prova delle nostre presunte violazioni, come al solito». Finora infatti, non sono state fornite prove tecniche, telemetriche, fotografiche o di altra natura, che dimostrino che i russi sono fuori dal trattato. Di più, il fatto che spetterebbe ai russi “l’onere della prova”, per usare un linguaggio giuridico, è stato ribadito anche da alleati come la Germania, tanto che da Berlino la portavoce della cancelliera Angela Merkel, Ulrike Demmer, ha precisato: «Tocca alla Russia adesso evitare di allontanarsi dal patto INF. Dobbiamo comunque restare realisti. Non vi sono segnali che lasciano pensare a un cambiamento di atteggiamento da parte di Mosca». Ma quanto sono credibili le accuse americane? Difficile dirlo, anche perché è Washington stessa a restare sul vago.

Per SSC-8 il Pentagono intende il missile da crociera Novator 9M729 sulla cui origine le fonti sono discordi. C’è chi lo considera un derivato lanciabile da rampa terrestre del navale Novator 3M54 Kalibr più volte sparato fra 2015 e 2018 dagli incrociatori e sottomarini russi contro obbiettivi jihadisti in Siria, chi lo considera una nuova versione di un altro missile da crociera, il Raduga Kh-101, esso pure impiegato in Siria, ma in tal caso sganciato in volo da aeroplani, nella fattispecie i bombardieri strategici Tupolev Tu-95 e Tu-160.

Gli americani ritengono che abbia una gittata di almeno 1500 km, forse perfino 2500 km, ben dentro quindi la fascia proibita dall’INF, ma non sanno darne, o non vogliono rivelare valutazioni più precise. Se l’SSC-8 alias 9M729 fosse davvero un derivato del Kalibr, sarebbe certamente assai temibile, poichè, pur subsonico nella maggior parte della sua rotta di volo, sui Mach 0,8 ovvero circa 900 km/h, può accelerare e diventare altamente supersonico, almeno Mach 2,5, cioè quasi 3000 km/h se a livello del mare, nell’avvicinamento finale all’obbiettivo, là dove è più probabile che si concentrino le difese antimissile, per cercare di eluderle. Sarebbe solo subsonico se si trattasse di un Kh-101 migliorato, ma anche in tal caso, come già per il Kalibr, sarebbe comune la capacità di volare a bassissima quota, anche solo 15-20 metri o meno, cioè sotto la quota minima che consenta un avvistamento radar con apprezzabile anticipo.

Poiché in entrambi i casi si tratta di ordigni di dimensioni simili, con lunghezza compresa, a seconda delle versioni, da 6 a 9 metri e pesi che al massimo si aggirano sui 2300 kg, l’eventuale 9M729 derivatone si presume comunque compatibile con l’impiego dalle stesse rampe di lancio mobili autocarrate del sistema tattico Iskander, il cui missile balistico a corto raggio tipico, Votkinsk 9K720, ha un ingombro di 7,3 metri di lunghezza per un peso di 3800 kg. Del resto i russi stessi indicano i “cruise” lanciabili da autocarro del sistema Iskander come versione Iskander K, dove K sta per “Krylataya”, ovvero “alato”.

Ora, ammesso anche che la situazione sia complicata dal proliferare di sigle e numeri nel sistema russo di classificazione dei propri missili, e che tale confusione sia per certi aspetti provvidenziale perché rientra nella propensione del pensiero militare russo per la “maskirovka”, il mascheramento, pare naturale chiedersi perché gli stessi americani, che avrebbero tutto l’interesse a giustificare il più possibile la denuncia di un trattato così importante come l’INF, non sbandierino al mondo le prove della “colpevolezza” russa. Per fare un raffronto, tutti ricorderemo come l’allora segretario di Stato americano Colin Powell si presentò il 5 febbraio 2003 al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite per mostrare ad ambasciatori, stampa e televisioni il florilegio di fotografie e documenti che comprovavano l’esistenza di un copioso arsenale di presunte armi nucleari e biochimiche in possesso dell’Iraq allora dominato, ancora per poco, dal dittatore Saddam Hussein.

Tutte informazioni che si dimostrarono una colossale montatura, in gran parte dovute alle inaffidabili testimonianze della cosiddetta “fonte Curveball”, che in seguito si seppe essere l’esule iracheno Rafid Al Janabi, a cui troppi servizi di spionaggio occidentali, su tutti la CIA americana e il BND tedesco, con riserve da parte del più guardingo MI6 britannico, vollero dare retta. Così gli americani scatenarono nell’aprile 2003 una guerra “preventiva” contro l’Iraq che aveva come presupposto la falsità del cosiddetto arsenale di distruzione di massa di Saddam, di cui non si trovò traccia quando il paese venne occupato.

Nel caso delle accuse alla Russia sull’INF gli Stati Uniti non sono stati, almeno fino a questi primi giorni del 2019, altrettanto precisi né solerti nel fornire prove, anzi. Ammettendo che i russi siano, tutto sommato, propensi a sviluppare i loro nuovi armamenti dietro un comprensibile schermo di riservatezza, come fanno da sempre tutte le potenze, USA compresi, spetterebbe a Washington dimostrare che gli SSC-8 superino la gittata consentita. Se gli americani, come sembra, non sono stati in grado di raccogliere in proposito precisi dati da lontano, con sensori aerei o satellitari, un’ipotesi potrebbe essere l’ampio ricorso allo spionaggio.

Secondo tale supposizione, l’accusa non viene supportata da ulteriori precisazioni perché, poniamo, si tratterebbe di rivelare informazioni che soltanto agenti in loco, molto “vicini” ai missili, avrebbero potuto trasmettere all’Occidente. E il tipo particolare di dati, che siano documenti, progetti, fotografie o filmati, se divulgato, potrebbe portare i russi a capire in che modo sono stati raccolti. Ciò metterebbe il controspionaggio FSB sulle tracce degli informatori, o traditori interni che dir si voglia, facendo saltare così preziose “reti” della CIA, magari operanti da tempo.

È certamente un’ipotesi plausibile, se si considera che il retaggio storico della Guerra Fredda, con tutto il suo corollario di spie, prosegue per molti aspetti ancora oggi, come dimostra l’avvelenamento non letale di cui è stato oggetto nel marzo 2018 a Salisbury l’ex-spia Sergei Skripal, già ufficiale del GRU che passava informazioni agli inglesi prima del suo arresto nel 2004, per poi essere consegnato a Londra nel 2010 nell’ambito di uno scambio di prigionieri. L’ipotesi spionistica è suggestiva, ma per sua stessa natura pare destinata a mantenere per lungo tempo una parvenza di pura illazione, data l’impossibilità di accertarne pubblicamente le prove, a meno di colpi di scena. Ma non è nemmeno da escludersi che gli Stati Uniti non abbiano, semplicemente, alcuna prova in mano stiano montando un caso con accuse gratuite appunto per avere poi mano libera.

Una prova indiretta in tal senso la si potrebbe ravvisare nel modo asimmetrico in cui Russia e Stati Uniti trattano l’un l’altro le presunte reciproche violazioni dell’INF. Se i russi temono che Tomahawk nucleari da attacco possano essere nascosti nei moduli, o “canister”, Mk.41 ufficialmente destinati ad armi ABM, per quanto il sospetto possa sembrare eccessivo, pare giustificato dal fatto che da Deveselu o da Redzikowo eventuali armi offensive, ancorchè subsoniche come i “cruise”, potrebbero facilmente insinuarsi a bassissima quota verso gli avamposti più occidentali della Russia con brevi tempi di volo.

Il tutto senza spingersi a sospettare qualcosa di ancor più allarmante, che cioè i “canister” Mk.41, così come sono in grado di ospitare un missile antimissile come l’SM-3, il quale, concentrati in una lunghezza di soli 6,5 metri, cela un raggio d’azione massimo fino a 2500 km e una velocità di 10-15 Mach, possano un giorno anche contenere un piccolo balistico di gittata, e in genere capacità cinetiche e meccaniche, similari all’SM-3, con testata atomica.

Un ABM modificato in IRBM? Difficile ma non impossibile. Ebbene, nonostante percepiscano la relativa pericolosità, o perlomeno inquietante incognita, rappresentata dalle basi del sistema Aegis Ashore, i russi hanno affrontato la questione in termini più cauti degli americani. Non hanno mai, finora, messo in discussione il trattato INF in quanto tale. Né, in particolare, hanno minacciato di uscirne o lanciato ultimatum agli Stati Uniti. E sì che i sospetti di Mosca sono suppergiù dello stesso livello di quelli di Washington, quanto a vaghezza. Mentre la Russia, quindi, non si spinge a tanto, gli Stati Uniti da tempo scalpitano e, pur di minare il trattato, cercano appigli anche in Estremo Oriente.

La sponda cinese

Uno dei colpi preliminari all’INF è stato lanciato da Trump in persona il 20 ottobre 2018, quando ha dichiarato, mettendo un po’ semplicisticamente una questione così seria “alla berlina” di Twitter: «La Russia ha violato l’accordo. Loro l’hanno violato per molti anni. Non so perché il presidente Obama non ha rinegoziato il patto o non si è ritirato». Ma soprattutto: «Perché la Russia e la Cina non vengono da noi e non dicono: “Facciamoci furbi e facciamo sì che nessuno di noi sviluppo queste armi”? Ma se la Russia e la Cina stanno sviluppando queste armi, mentre noi rispettiamo il trattato, ciò è inaccettabile».

L’attirare la Cina nel quadro dell’INF, da cui essa è sempre stata estranea, offre agli USA un’arma diplomatica, dando a intendere una presunta volontà di mantenere in vita il trattato, purché esso venga allargato alla potenza asiatica per eliminarne la nutrita forza di missili balistici a raggio intermedio. La base di partenza è ineccepibile, nel senso che i cinesi sono sempre stati liberi di progettare e schierare vettori regionali che tengono sotto tiro le maggiori basi americane nel Pacifico, come quelle in Giappone e quella nell’isola di Guam, nonché le squadre navali di portaerei USA in navigazione nei mari cinesi.

Fra i missili balistici MRBM e IRBM che più impensieriscono gli americani ci sono senz’altro il Dong Feng DF-26, del raggio di 3500 km, e il Dong Feng DF-17, di più breve raggio, sui 2000 km. Entrambi recentissimi e precisi, soprattutto entrambi probabilmente in grado già dal 2020 di operare portando nell’ogiva il veicolo di rientro DF-ZF, uno dei nuovi ordigni ipersonici, sorta di alianti sagomati per la ricaduta manovrata nell’atmosfera terrestre recando testate di vario tipo, noti come “hypersonic gliders”, in questo omologo del russo Avangard e dell’americano AHW ideato avendo in mente il concetto di Global Strike.

La Cina ha già però fatto sapere che non ha alcuna intenzione di farsi coinvolgere in un trattato nato in tutt’altro contesto e fra altri attori. Già la portavoce del Ministero degli Esteri Hua Chunying ha espresso il punto di vista cinese: «Il ritiro unilaterale degli USA dal trattato avrà un effetto multilaterale negativo». Il suo collega Geng Shuang ha poi ricordato che la Cina non c’entra nulla con il patto.

E verso la fine di dicembre, mentre celebrava i 40 anni dell’avvio delle riforme economiche di Deng Xiaoping, lo stesso presidente Xi Jinping ha ricordato, indirettamente, che «essendo una civiltà antica di 5000 anni, nessuno può dire alla Cina cosa può fare o non può fare». Già una mano avanti mossa dai cinesi per far capire, almeno per il momento, di non essere disposti ad entrare in un ipotetico INF allargato.

Il quale peraltro, per poter essere davvero credibile, dovrebbe a questo punto riguardare anche i missili a medio raggio di numerose potenze regionali. Che gli Stati Uniti puntino poi a sollevare la questione cinese, in parte per dividere gli interessi di Mosca e Pechino, in parte per spingere i russi, col ricatto della possibile fine dell’INF, a premere sui loro alleati cinesi perché rinuncino ai missili a medio raggio, sembra estremamente improbabile.

Tanto che il 5 dicembre lo stesso ambasciatore russo negli USA, Anatoly Antonov, ha supportato le rimostranze di Pechino osservando: «Se il trattato INF dovesse comprendere la Cina, allora dovrebbe allargarsi anche agli stati della NATO, primariamente Francia e Gran Bretagna». Perché, si chiedono quindi i russi, i rispettivi alleati dovrebbero essere soppesati diversamente?

E’ quindi difficile pensare che a Washington credano davvero di poter costringere la Cina a sedersi a un tavolo per aderire a una sorta di New INF. Del resto, l’indubbia minaccia che i missili a medio raggio di Pechino, con le loro testate antinave studiate per eliminare le portaerei americane dal Pacifico Occidentale, potrebbe essere bilanciata rafforzando l’opzione di ritorsione nucleare anche ricorrendo ai soli ICBM di base in America o ancor più agli SLBM imbarcati sui sottomarini classe Ohio, a cui si aggiungerebbero le nuove versioni dei Tomahawk SLCM.

La “carta cinese” sembra quindi niente più che una mossa d’immagine per rafforzare la pretesa legittimità della denuncia dell’INF. Troppo, del resto, si è spinta in avanti, con un’inerzia di lungo periodo, l’enfasi posta dalla Cina sui suoi missili medi e intermedi, per colpire in caso di necessità tutta la cintura di potenziali avversari da Taiwan al Giappone, perché nel giro di pochi anni i dirigenti della potenza comunista possano anche solo pensare di sbaraccare tutto, rinunciando a una parte così ingente del loro arsenale strategico.

Tutto lascia pensare che, in ottemperanza alla nuova dottrina Trump (che peraltro rende più facile il ricorso alle armi nucleari, preferibilmente puntando su precisione e minor potenza distruttiva) l’America cerchi di mantenere la supremazia su Russia e Cina, vanificandone i rispettivi potenziamenti di capacità convenzionali nelle rispettive regioni geopolitiche. Nel contempo, avviando un rinnovo senza briglie della sua linea di vettori e ordigni nucleari, Washington trarrebbe un notevole beneficio anche per il proprio apparato industriale. C’è poi il timore, che la fine dell’INF porti anche, entro breve tempo, alla caduta dei limiti nel campo degli armamenti strategici intercontinentali.

Dopo il patto ABM e quello INF, il pericolo è che il New START, che dovrebbe essere riconfermato nel 2021, possa saltare. Perciò il 7 dicembre al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov avvertiva: «Ho visto una dichiarazione secondo cui se l’INF cessasse di esistere, verrebbe messo in discussione anche il New START. Sembra che si stia semplicemente preparando il terreno per smantellare anche questo trattato. La Russia ha presentato più volte agli Stati Uniti delle proposte per avviare un serio e onesto dialogo sull’INF, sul New START e su come affrontare le questioni relative alla stabilità strategica. Dagli americani non c’è mai stata risposta e ogni volta che glielo ricordiamo ci dicono che dobbiamo cancellare le violazioni commesse da noi».

Il New START, stipulato nel 2010 fra Russia e America in sostituzione dei trattati precedenti, limita le armi nucleari strategiche a 1550 testate per parte, con 800 vettori ciascuno, fra missili ICBM, sottomarini SLBM e aeroplani da bombardamento, di cui non più di 700 vettori operativi nello stesso momento. Scadrà il 5 febbraio 2021 e potrà proseguire sulla base di rinnovi quinquennali. Se tutto va bene, s’intende, poiché l’incertezza derivante da una prevedibile fine dell’INF potrebbe, già fra due anni, compromettere anche i negoziati per questo rinnovo. Una stagione di crescente nervosismo è infatti dietro l’angolo.

Pronti al lancio

Fra il 10 e il 15 dicembre 2018 due bombardieri pesanti russi Tupolev Tu-160, in grado anche di trasportare missili nucleari, conducevano esercitazioni in Venezuela, ospiti dell’alleato governo di Caracas, decollando dal paese sudamericano per voli di pattuglia nell’area dei Caraibi, assai vicino ai confini degli Stati Uniti.

Non era la prima volta che aerei Tu-160 venivano schierati da Putin in Venezuela, era già accaduto nel 2008 e nel 2013, ma stavolta il dispiegamento assumeva tutt’altro valore, nella crescente tensione con l’America. Mosca segnalava fra le righe che tra le possibili contromisure ci potrebbe essere, come già negli anni Sessanta, l’utilizzo di paesi sudamericani come base avanzata di deterrenza, non solo con bombardieri strategici, ma anche con missili colà basati.

Pochi giorni prima, il 4 dicembre, il generale russo Leonid Ivashov aveva anticipato: «La Russia e gli Stati Uniti hanno poche chance di mantenere in vita il trattato INF. È necessario puntare verso il territorio americano non solo con missili intercontinentali, ma anche con missili a raggio intermedio, in primo luogo missili da crociera. Per quanto riguarda la loro collocazione, sarebbe necessario esplorare se questa possa essere a Cuba o un altro Paese latinoamericano». “Altro paese” che sicuramente sarebbe il citato Venezuela. L’evocare il ripetersi della crisi dei missili che Krushev schierò a Cuba nel 1962 ha portato subito il giorno dopo il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov, a prendere le distanze dai commenti di Ivashov: «Non abbiamo nulla a che fare con questa idea». Ma è certo che la fine del trattato porterebbe perlomeno in Europa a un proliferare di vettori che prenderebbero di mira le rispettive basi, ovvero anche molti paesi della NATO.

Il 5 dicembre, il capo di Stato Maggiore delle forze armate russe, il generale Valerij Gerasimov, ha nettamente avvertito gli addetti militari delle ambasciate straniere a Mosca: «In quanto militari professionisti dovreste capire che non il territorio degli Stati Uniti, ma i Paesi che ospitano i sistemi statunitensi con missili a raggio corto e intermedio diventeranno gli obiettivi per le misure di rappresaglia della Russia. Mentre gli Stati Uniti costruivano il loro scudo antimissilistico globale, noi russi abbiamo rafforzato le forze nucleari strategiche di terra, anche col nuovo vettore a planata ipersonica».

E infatti solo tre settimane dopo, il 26 dicembre 2018, Putin assisteva di persona al collaudo di quello che lui stesso ha considerato «un regalo al popolo russo per l’imminente nuovo anno». La testata manovrabile ipersonica Avangard, in grado di portare una bomba termonucleare della potenza di circa 1 megatone e, soprattutto, di piombare «come una meteora» dallo spazio suborbitale addosso al nemico, schivando le difese antimissile alla prodigiosa velocità di Mach 27, ossia 27 volte la velocità del suono, cioè quasi 30.000 km/h. L’Avangard è stato lanciato nella sua traiettoria da un missile balistico Sarmat decollato da una base nei monti Urali e ha colpito il suo bersaglio a oltre 6000 km di distanza, nelle remota e glaciale penisola della Kamciatka.

Il capo del Comando Strategico USA, generale John Hyten, ha commentato, preoccupato: «Non abbiamo difese che possano prevenire l’uso di quest’arma contro di noi». Gli ha fatto eco l’ex-capo della NASA, ed ingegnere del Pentagono, Michael Griffin, che ha lamentato come alle forze americane manchino radar adatti a captare il velocissimo e sfuggente ordigno russo: «Bisogna coprire migliaia di miglia, non centinaia, e la curvatura terrestre, nonché l’estensione dell’Oceano Pacifico, dove mancano isole adatte a porvi stazioni radar strategiche, rendono difficile la sorveglianza. Non ci sono molto luoghi dove si possono installare dei radar. E se li trovate, diventano automaticamente dei bersagli. Bisognerebbe ampliare la rete di sensori orbitanti nello spazio».

Il giorno dopo, il 27 dicembre, faceva eco a Griffin un suo collega russo, Jurij Solomonov, ingegnere capo dell’Istituto di Tecnologie Termiche di Mosca, dove nascono i prototipi delle testate missilistiche russe: «Se gli USA schiereranno missili a medio raggio in Europa, ci sarà una reazione più bilanciata che al tempo dell’Unione Sovietica, quando facemmo la stupidaggine, dopo il trattato INF, di demolire molti più nostri missili Pioner che gli americani i loro Pershing II».

Mantenere l’equilibrio ed evitare che una delle due parti sia tentata di attaccare per prima nell’illusione di vincere una guerra nucleare, ancorché limitata, resta quindi una via maestra per evitare la catastrofe. Ma Dimitrij Suslov, a capo del Centro di studi europei e internazionali presso la Scuola Superiore di Economia di Mosca, nonché “guru” del Club Valdai, nucleo di esperti di Putin, avverte: «È una situazione più pericolosa che negli anni Cinquanta. C’è una novità decisiva in termini teorici: per la prima volta gli Stati Uniti hanno ufficialmente dichiarato in un documento di dottrina militare che in futuro gli ordigni nucleari potranno diventare armi di guerra e non solo armi di deterrenza. Questo giustifica l’intenzione degli americani di produrre e spiegare una nuova generazione di armi atomiche di potenza limitata.

Ma questo è uno sviluppo pericolosissimo. In un quadro del genere, se ci fosse uno scontro militare diretto tra Russia e America, esso rischierebbe inesorabilmente di diventare nucleare, perché non avremmo più strumenti per controllarlo o prevenirlo». Ecco perché, di fronte a un’America che potrebbe davvero togliere alle armi nucleari quella loro etichetta di eccezionalità apocalittica, allo scopo di renderle razionalmente impiegabili come armi qualsiasi, la Russia stessa potrebbe essere costretta a rimettere il dito sul bottone rosso come e più di quarant’anni fa.

Anche valutando che, se basi IRBM americane sorgessero troppo vicine ai confini russi, un’opzione potrebbe essere quella di distruggerle in anticipo, come prosegue Suslov: «Ci sarebbe una grossa differenza se i missili fossero installati per esempio in Germania o Italia, oppure in Polonia Orientale o nei Baltici.

È un tema delicatissimo. Nel primo caso, Mosca risponderebbe con uno spiegamento analogo. Ma nel caso della Polonia o dei Paesi Baltici, allora la situazione sarebbe molto più pericolosa poiché il tempo di volo di un missile da lì al territorio russo è più basso del tempo di decisione necessario perché le forze russe possano impiegare armi atomiche. Se missili nucleari fossero installati in Polonia o nei Baltici, la Russia sarebbe costretta a far ricorso a un’azione preventiva per eliminarli».

Di nuovo, la velocità micidiale delle macchine rischia di travolgere la capacità umana di discernere, capire e intavolare trattative per evitare il peggio. Le lezioni della Guerra Fredda non sembrano essere state sufficienti e i progressivi smantellamenti da parte statunitense dei trattati di sicurezza rischiano di alzare troppo la posta, secondo un gioco calcolato, ma rischiosissimo, potendo alimentare in ognuno dei contendenti errate valutazioni delle reali intenzioni dell’altro.