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Hiroshima: un ricordo lancinante e commosso

In un articolo del 1979, Piero Buscaroli unisce storia e commovente realtà, narrando la sua visita al museo di Hiroshima
Memoria
Memoria

Hiroshima: un ricordo lancinante e commosso, in cui Buscaroli unisce storia e commovente realtà, la musica occidentale, il maestro italiano, la guida, la visita al museo.

E un segno di come il “colonnino” di quaranta anni fa possa divenire anche un accenno alla storia attuale… (un monito?) da cui le vicende di questi giorni potrebbero trarre insegnamento, speranza, forse.

 

HIROSHIMA

Sfoglio i giornali in cerca di uno spunto, ed ecco il solito ayatollah Khomeini, che ha deciso di “privilegiare” (una volta si diceva preferire) le produzioni della Rai per la sua televisione islamica. Già che c’è, potrebbe anche accogliere l’appello del sovrintendente Badini e “sponsorizzare” la Scala, così saremmo a posto.

Poi, l’occhio cade su Hiroshima e le celebrazioni anniversarie del bombardamento, la fiamma della rimembranza. Anch’io guardai, un giorno, attraverso quella fiamma. Vidi la cupola scheletrita del vecchio Museo della Tecnica, il solo edificio lasciato come rimase dopo lo scoppio. Appariva, come entro un sortilegio ottico, rosso della fiamma, ma circondato dalle punte bianche e rosa dei gladioli sporgenti dall’aiuola del ricordo.

Le catastrofi delle civiltà antiche avevano ritmi diversi. Pompei ed Ercolano, le due città che fanno da paradigma ancora oggi (i duemila anni della distruzione cadranno proprio fra due venerdì) rimasero morte, né la civiltà entro cui erano vissute tentò di resuscitarle. Oggi, non c’è tragedia che si risolva, dopo qualche anno, in motivo di curiosità, di turismo, di lucro.

Il nostro tempo ha questa fretta, buona o cattiva, non so: non dà tregua alle illusioni della felicità, ma incalza i disastri con la sua insofferenza, oppure indifferenza, ancora non so.

La giornata che passai ad Hiroshima, una decina di anni fa, mi appare ancora una delle esperienze più bizzarre della mia esistenza. Sceso dell’aeroplano delle linee interne, mi feci condurre alla stazione, e subito mi parve di trovarmi in una città tedesca molto bombardata. Arterie moderne, aiuole fiorite, cemento e cristalli, tutto lucido, razionale. Una torre sovrastata dalla croce mi fece capire di trovarmi presso una chiesa cristiana. Era la cattedrale cattolica, orribile, ma come se ne vedono in qualunque città del mondo, oggi che l’architettura ha perduto i connotati locali. Ma dentro era silenzio, il famoso organo donato dalla città di Colonia e inaugurato da Wilhelm Kempff taceva.

Guidato ancora dal suono, aggirai il fianco della chiesa, superai un’enorme replica in cemento delle madonnine della Val Gardena, mi arrampicai su un muro di false rocce, e, scavalcatolo, penetrai in un giardino. La musica veniva di là. Quattro ragazzine con gli occhiali sul naso, vestite alla marinara come nelle scuole giapponesi, sedevano coi loro strumenti sotto un albero. E sotto ogni albero del giardino c’era un gruppo di ragazzi che suonava. Entrai nel primo d’un gruppo di piccoli prefabbricati, dove l’irrompere dei suoni delle finestre aperte e delle stanzette mi fece capire di trovarmi in una scuola di musica. L’anfanare d’un basso d’organo mi attrasse oltre una porta, dove entrai chiedendo, in italiano, “Permesso?”. “Avanti”, rispose una voce italiana. Era un padre Bertagnolio della Compagnia di Gesù, insegnante di coro e canto corale, e da lui appresi di trovarmi nel conservatorio che prendeva il nome di Elisabetta, regina madre del Belgio. La regina aveva offerto di dare il nome alla scuola, e promise il denaro per costruirla. Ma, dopo il nome, il denaro non si era visto più. Bertagnolio (chissà dov’è ora) mi provvide anche di una guida, il professor Fujisaka, insegnante d’italiano, che solo i conservatori di musica e i teatri d’opera seguitano a trovare indispensabile.

Fu lui ad accompagnarmi nell’epicentro dell’esplosione.

Non c’era mai stato, confessò. Lei saprà come capita, mi disse, nella propria città non si trova mai il tempo. Lui stava a Kure, allora, ventotto chilometri di distanza. La mattina del 6 agosto 1945, bambino di tredici anni, vide un’immensa luce, sentì il tuono colossale e tutti uscirono dalle case a contemplare il fungo che si levava sulle colline che separano Kure da Hiroshima.

Quel fungo bianco, disse, era la cosa più bella che avesse visto nella sua vita.

Il museo era un curioso incrocio di orrore e di pedagogia. Ma l’apparato didascalico prevaleva nettamente sull’orrore.

Il cammino della scienza fino alla scissione dell’atomo, esposto con pedanteria, senza commozione. Come se Hiroshima si considerasse il punto di collaudo dell’energia atomica. Collaudo brutale, ma inevitabile. Appariva addirittura non del tutto dispiaciuta, anzi perfino lusingata d’esser stata prescelta.

Nelle stanze successive, si sciorinava l’intero campionario delle ustioni, le biciclette fuse, le uniformi incenerite, e vetri e bicchieri e stoviglie ridotti a forme che un artista d’avanguardia avrebbe firmato volentieri, il granito entro cui i cristalli si erano fusi lasciando come una spugna. E la fotografia dell’ombra che l’uomo incenerito aveva lasciato sulla scala, mostrata come a Pompei i calchi di gesso dello schiavo, del cane. E gli orologi, tutti fermi sulle 8,15. Le lancette fuse avevano lasciato ombre, come l’uomo scomparso, ombre più chiare sui quadranti scuri. Un orologino piccolissimo, forse di un bambino, era il più indietro di tutti, fermo sulle 8.05 mentre una vecchia cipolla da tasca era quella più avanti, faceva le 8.18.

Il solo imbarazzo, in quella serenità didascalica, traspariva dal contegno di un gruppo di marinai americani: circospetti, commentavano a bassa voce, facevano fotografie, guardandosi continuamente d’intorno. Ma nessuno faceva caso a loro, mentre Fujisaka mi spiegava che il vero caso pietoso non era quello di Hiroshima, ma di Nagasaki, che aveva avuto la stessa sorte, e che per esser venuta seconda nel bombardamento, nessuno ricorda, e non ha neppure la soddisfazione di un bel turismo come quello che vede qua…

 

Da «Il Giornale», 10 agosto 1979