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Ulisse e l’abbandono del tetto coniugale

Come ti smonto un eroe in tre mosse (con relativi tre capi d’imputazione)
Il ritono di Ulisse - Giorgio de Chirico
Il ritono di Ulisse - Giorgio de Chirico

Lui non è un semplice eroe omerico: Lui è l’eroe per antonomasia.

Colui che superò le colonne d’Ercole per avventurarsi tra i flutti del mare “color del vino”, il prode e valoroso guerriero, lo scaltro stratega, l’ambasciatore del sapere aude il cui multiforme ingegno non sarà mai abbastanza celebrato dalla sfilza dei πολυ-. Almeno una dozzina: molto-astuto, molto-curioso, molto-impavido, molto-saggio, molto-versatile e giù d’epiteti a volontà.

In quanto a notorietà non lo batte nessuno; tra i fuoriclasse dell’antichità, se la gioca forse in ex aequo con Alessandro Il Grande.

Compare già nell’Iliade, ma il “personaggio” nasce con l’Odissea, di cui Odisseo è appunto la star; Sofocle lo descrive come un manipolatore, Euripide lo impregna addirittura di crudeltà; nemmeno a Virgilio il laerziade stava granché simpatico.

Dante lo relega in punizione nella bolgia dei fraudolenti per i suoi riuscitissimi inganni; Joyce ne fa praticamente un disadattato da psicoanalisi: il paziente ideale di Freud; Kavafis lo ammanta di poetico esistenzialismo, Pavese di cupa inquietudine (in quel capolavoro sottovalutato dei “Dialoghi con Leucò”).

Nell’arte Ulisse ripercorre la stessa parabola della letteratura, transitando attraverso i rassicuranti canoni rappresentativi classici sino ad assumere la dimensione metafisica di un De Chirico: l’improvvisato navigatore che, rinchiuso in una stanzetta disadorna, si barcamena scombussolato su un tappeto-mare alla ricerca della rotta, è di una contemporaneità sorprendente.

Più che un dipinto, “Il ritorno di Ulisse” – con i suoi 54 anni suonati – è una fotografia impietosa di quest’epoca fragile in cui il viaggio è forzatamente interiore; più che un ritorno (come nella migliore tradizione dei nostoi) dell’intraprendente re acheo alla sua “petrosa Itaca”, l’opera incarna il disorientamento e la vulnerabilità dell’uomo d’oggi: “un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore”.

Parlando dell’umana condizione (con tutto il suo corredo di fallibilità), veniamo alle malefatte del Signor Nessuno. Querelle con Polifemo e brutta faccenda del cavallo di Troia a parte, è soprattutto con le donne che costui ne esce malissimo: un mito? Un vigliacco mitico.

Reo di abbandono del tetto coniugale nei confronti di Penelope, delle cui corna ramificate e stratificate in giro si sa. Per farle accettare l’inaccettabile, d’altronde, l’affabulatore – mistificazione di qua omissione di là – l’avrà stordita per benino di bugie pur di riapprodare in comfort zone.

Reo di atti contrari alla pubblica decenza per il fattaccio di Nausicaa, quando, reduce dall’ennesimo naufragio, sbuca – nudo come mamma Anticlea lo ha fatto – fuori dagli arbusti, irretendola, come da manuale del compiaciuto narcisista, con le sue lusinghe da parolaio.

Sebbene ritenere “pubblico” una manciata di fanciulle feaci che giocano a palla presso una remota riva pare un tantino eccessivo.

Reo di circonvenzione di incapace nei riguardi di Circe, che molto stabile di mente non era: tra filtri, incantesimi e pozioni, una dea-maga un po’ (simpaticamente) fuori di testa; con le sirene comunque, per la cronaca, ci aveva preso.

Qui, peraltro, al penale si aggiunge pure un illecito civile per mancato riconoscimento del figlio naturale, se è vero che dalla maliarda “dai riccioli belli” ebbe Telemago.

Di pargoli il consumato viveur ne generò in abbondanza anche con Calipso, per poi lasciarla senza troppi scrupoli in quei di Ogigia dopo sette anni di onorato servizio. Non proprio un galantuomo.

Cosa replicherebbe in sua difesa l’imputato Ulisse, re della favella, a tutte queste accuse?

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come santi …”.