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6 gennaio. Il canto dei Magi

Epifania
Epifania

6 gennaio. Il canto dei Magi

Le torri

Molte erano le torri ch’ornavano il dorato oriente quando il Grande Erode, quale ragno sospettoso e schivo, tesseva mortali sete dai resti del trono di Davide. Ve n’erano d’antiche ed ampie, smussate dalle carezze dei venti e rese simili a colli, ch’intendevano penetrare il cielo con la sapienza d’idoli muti, con la bronzea forza d’immoti nomi; da queste, sacerdoti e profeti di sdruciti culti facevano di maleodoranti riti le lenti con cui leggere i ghignanti enigmi delle stelle.

Altre invece erano alte e sottili, lunghe dita nodose protese a carezzar l’eterea durezza dell’empireo, sognando di bagnarsi nella cangiante e virginea luce della sera. Ai loro piedi si stendevano, come tumultuosi arazzi, le grasse capitali dell’antico oriente le cui sfiorite forme frugavano i cieli cercando la via per glorie antiche e nuove. Non sacerdoti o rapaci sguardi le abitavano bensì scienze di ministri ed indovini, menti d’uomini che nei misteri della sacra volta cercavano non sapienza di dei ma potenza di re ed eroi.

Infine v’erano torri piccole e solette, avvolte dai pudichi panni di montani boschi o immerse, come accaldate membra, nella frescura delle sabbiose sete di vasti deserti. Non v’era sangue di ruminanti ossequi a dissetarle né l’aroma d’avvinti e stanchi corpi a risvegliar brame profonde di profumi cortesi; i loro ventri tuttavia traboccavano di speziati rotoli, di sapienze nove e fosche concluse in bianchi campi, arati e ben protetti. Uomini grandi e soli v’abitavano e, pur diversi e spesso astiosi, condividevano la brama di chiudere il cielo in una sala.

Non parlo di realtà nove o strane ma di paesaggi e sguardi vani, di torri e calcolate menti che come dune rinnovano ciò ch’è vecchio e banale. Ogni saggio nello stanco oriente s’elevava mosso da un solo, vero sovrano, un provocatore molesto e mai davvero chiaro che come vergine maliziosa ed imprudente tanto promette ad a tanto poco attende. Esso, oscuro e bello, ha tanti nomi quanti sguardi e tante voci quante le menti pronte a dar vita ai suoi sussurri; in tale confuso mercato gli possiamo dar volto nomandolo cielo, volta o grand’etereo vano. Se oscura a quelle torri rimane spesso la sua natura, chiaro però è che con mute ed accordate voci cantano danzando quelle stelle e quei mondi misteri e gran rivelazioni. Ogni orecchio è ivi teso ad ascoltare quel concerto di cui l’universo intero è fatto, se non autore, almen soggetto; i gran saggi sanno bene che quei notturni carmi e quegli enigmi sono chiavi di sapienza con le quali anche il mortale, odoroso ancor di melma, può sperare di farsi motore delle cose e non solo di ciò che sembra.

Tale è l’ardire di coloro che chiamiamo Magi, re e sacerdoti, profeti e forse scienziati che da diverse ed umane alture perseguivano l’umano sogno di strappare al cielo quello scettro ch’ad Adamo fu tolto per altissimo bisogno. Eppure spiriti tanto diversi soffrivano vergognosi d’uno stesso timore, versando lacrime amare nelle calde e riparate stanze; se infatti il dorato manto del giorno poteva esser tessuto di menzognoso aspetto, la notte reclamava sempre nudità non sol dai corpi ma anche dal petto. In essa scopriva la verità amaramente nota e negata: non fu il cielo a partorir enigmi ma le menti goffe di chi l’ascolta, capaci solo d’intricar districando ciò che in sé e sciolto e piano.
 

La stella

Son pensieri questi che come rugiadosi resti vengono presto lavati dalle prime luci; eppure, sottili e sempre desti, rendono amaro ogni calcolo e scialba ogni scoperta. Questi Magi infatti sapevano d’esser forse i più miseri fra i mortali: tesi come ognuno alla sapienza ma consci che nessuna carne mai supererà l’abisso che separa questa dalla più bassa conoscenza. Sempre presi a districar i falsi enigmi delle stelle, come stranieri coglievano le parole senza penetrar ciò che per loro passa o che le move.

Ma ecco un giorno alcuni d’essi, non sappiamo se tre o numerose genti,[1] scorsero una straniera stella in quell’immoto cielo ch’ogni novità rigetta.[2] Al pari d’ogni segno che sconvolge naturali norme e tempi, anche questo da molti fu probabilmente accolto con stanca curiosità e distaccato ingegno. Pochi infatti fra coloro che son nomati saggi hanno sapienza tale da ricevere la novità che si palesa con cuore umile e mente non offesa; se quindi molte torri annotarono ciò che di bizzarro s’era fatto manifesto, pochi Magi furono turbati e non placati dal richiudersi sulla novella luce delle tenebre note e conosciute.

Tali felici, ch’infantile scoprirono il saper loro, riuscirono a gioire d’un ignoto non di fitte tenebre tessuto ma fatto d’un oggetto novo. Quell’inimico cielo, che per secoli banali e gravi aveva ripetuto i suoi enigmi crudeli e vani, ora pareva volersi far udire come se per la prima volta intendesse esplicare e non sol dire. Qui forse intervenne un’innominata fede, un piccolo fiore il cui sconosciuto aroma fu promessa e guida d’inattesa speranza. Quei pochi, quasi folli, che carchi di ricchezze votarono le torri seguendo il richiamo del fugace lume, scoprirono nei dubbiosi silenzi del periglioso viaggio che il loro ammirare il glaciale cielo sempre era stato sacramento della speranza di scorgervi dell’Altissimo Amore il segno.

Quelle tenebre, terribili e diverse, compagnandone il cammino ebbero il potere di svelare all’allenate menti ciò che i cuori, sempre svelti ed affamati, dal primo sguardo colsero nel subitaneo astro: non dell’immoto voler di dei bassi e meschini esso parlava ma dell’inspiegata tenerezza dell’Amor ch’amando tutto move. Confitti come erbe giovani e tenaci in questa speme, percorsero terre vaste colme di storia e di celate lame; si mossero armati solo d’un indizio, sostenuti da un luminoso vocalizzo che in quel sordo mare di domande pareva aver promesso una risposta tanto grande da poter chiamare indegno ogni luogo ed ogni regno.

Possiamo solo immaginare i dubbi ed i conflitti, i perigli, i torti ed i falsi appigli che con diabolico ingegno offesero animi simili, fattisi nudi e soli. Quella piccolezza ch’aprì le menti loro a ciò che ai semplici è serbato subì certo le gelide sferzate di chi spoglio s’è fatto e finisce per diventar più sofferente che grato. Eppure, quando ormai la sussurrante derisione del Mar Grande era vicina, s’appressarono ad una terra dimenticata e piccolina; vigna semplice e nascosta, al gran convito della storia aveva dato giusto un calice ed una porzione d’annerito pane, al punto che dai grandi era vista come poco più che stoppia. Fra quelle genti, d’antica e nobil Legge retti, i Magi udirono profezie e molti detti; diversi e sempre uguali, parlavano d’un Signore e d’un Re promesso e senza pari.
 

Il Re

Speranze nove e minacciose accesero scintille in quegli scorati cori, al punto che con disperata lena si diressero alla Santa Città ed al Gran re che ne reggeva la catena. Erode, cortese come ragno che senza fretta s’accosta al pasto, apparve subito sovrano umano, d’ambizioni carco ma di speranze e di promesse vano. Decadente apparve loro l’urbe da quelle genti nomata santa, purulenta come corpo che morente spera tanto ardentemente quanto la morte prossima avverte. Eppure di scarsa vita fu la loro disperazione, rintuzzata come fiamma smorta dalla sapienza ch’ancora calda albergava in quegli atri sussultanti e marcescenti. Sacerdoti ciechi indicarono la strada, forti del sapere d’uomini antichi, saggi e ardenti come fiere. E quando seppero qual piccolo borgo il Cielo avesse apparecchiato al Suo Discorso, partirono senza indugio, accogliendo con leggerezza le velenose parole del sovrano che di loro volea far strumento lontano.

Sazi della sapienza antica dell’ebraiche genti, di quella Gloria di cui il Cielo avea riempito uomini umili e illustri, i Magi abbandonarono le indegne mani nella quali tale alta Legge era caduta; e nel cammino, solitari ma non più soli, ritrovarono quell’astro novo e bello che mosse i cuori loro ad inatteso scopo. Esso apparve fermo eppur cangiante, mobile e fisso al tempo stesso, come se lo stesso cielo, all’or nota attesa del magnifico Giudeo Sovrano, fremesse d’impazienza agli umani e misurati passi.[3]

Cosa pensaste, o cuori saggi eppur d’infanti, quando invece che fiera cittadella o borgo carco d’antica magnificenza vedeste l’umile Betlemme? Il davidico villaggio v’accolse nel silenzio, inospitale in quella notte indifferente e fredda; perfino le stelle, cui tanto amore dedicaste in passato, ripetevano i loro annodati enigmi incuranti dell’estranea loro sorella che sola intendeva sciogliere ogni brano. Greggi sbandati vi furono corteo, ebeti orfani di pastori saggi che come voi scelsero la parte migliore. Dove quindi la regalità? Dove la gran Parola che vien dal Cielo sopra al cielo? Forse vi radicaste nella fede fra quei banali vicoli più che negli assordanti deserti poiché lì mai come altrove v’assalì il vero peso del silenzio.

Quando lo vedeste i sensi vostri gridarono, scandalizzati nell’udire un tale discorso su di un simile palco. Mai retore o campione scelse d’incarnar la grandezza dell’anima sua da tanto misero pulpito, temendo che il più nobile parlare si svilisse fra villani ed orecchie d’animale. Eppure qual palazzo o assemblea sarebbe tanto grande da dirsi degna non di parole ma del Verbo di fronte al quale ogn’altro tace? Meglio allora, così esultarono i cuori vostri, miseria e squallore, luoghi adatti non a dar forza ma a fiorir di cotanto Amore.

Quel cielo ora muto ora diffidente aveva infin parlato, non per enigmi alti ed intricati, adatti a menti gelide e vaste, ma per vagito di neonato. Voi Magi, che come molti grandi passati e futuri credeste che solo agli eccelsi la volta si schiudesse, scopriste che il guardar dell’occhio e della mente non è teso a trovar Dio ma a farsi pronto come chi devoto attende. Elargiti allora i vostri doni, di profezia dolorosi aromi, tornaste a quelle antiche torri ritrovando le sdegnose stelle che rinnovato sguardo facea novelle.

Forse, così m’azzardo a sperare, smetteste di far loro domande e prendeste ad ascoltare; non di alti ed intricati misteri parlano i loro moti ma della semplice lode a quell’Alta Stella di fronte alla quale devono star muti. A vederla scesa in umana forma, anch’esse esultano sperando d’ascoltare l’annuncio riservato alle terrene genti.

Testo consigliato

  • San Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo. (edd. Fra Roberto Coggi e fra Paolo Peruzzi), ESD, Bologna 2018.

 

[1] «Nato Gesù a Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco alcuni Magi vennero da Oriente a Gerusalemme […]» (Mt 2, 1); nonostante il testo evangelico non specifici il numero dei Magi la tradizione, ripresa da san Tommaso d’Aquino, afferma che furono tre sulla base dei doni portati al Signore. Cf San Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo. Capitoli 1-14, c. 2, vv. 1-2, n. 164 (edd. Fra Roberto Coggi e fra Paolo Peruzzi), ESD, Bologna 2018, p. 155.

[2] «E bisogna notare che tale stella non era una delle prime che furono create, […]. Quindi bisogna dire che essa fu creata appositamente per il servizio di Cristo»; San Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo. Capitoli 1-14, c. 2, vv. 1-2, n. 171, p. 163.

[3] «[…], per l’istruzione dei magi: infatti il Signore volle mostrarsi a loro non solo attraverso la stella, ma anche attraverso la Legge, così che alla conoscenza derivante dalle creature si aggiungesse la conoscenza derivante dalla Legge»; San Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo. Capitoli 1-14, c. 2, vv. 9b - 12, n. 192, p. 185.