Accordi Italia-Libia: tra istituzionalità e illegalità. Il doppio volto del fenomeno migratorio nel Mediterraneo: oggetto di accordi istituzionali e fonte di reddito per il crimine organizzato transazionale
The two-faces migratory phenomenon in the Mediterranean: subject of institutional agreements and source of financing for transnational organized crime.
Abstract
Gli accordi tra Italia e Libia in materia di immigrazione si pongono l’obiettivo di gestire il flusso migratorio attraverso la limitazione degli sbarchi sul territorio italiano. Le intese tra i due Stati sono parte di un più ampio processo di esternalizzazione europeo che, pur collocandosi dentro un complesso quadro di rapporti di politica estera, non è esente dal manifestare limiti e contraddizioni. Il presente lavoro si propone di analizzare le tre principali criticità emerse nella fase di attuazione dei suddetti accordi, partendo dalla complicità assunta dallo Stato italiano in relazione ad atti di violazione dei diritti umani. La ricerca prosegue focalizzandosi sulle infiltrazioni criminali nelle strutture ufficiali del governo libico, che ne hanno compromesso l’affidabilità come interlocutore sul piano internazionale. Infine, l’analisi mostra come una inadeguata gestione del fenomeno migratorio corra il rischio di beneficiare il crimine organizzato, per il quale il coordinamento illegale della rotta clandestina rappresenta un business altamente redditizio.
The agreements between Italy and Libya about migration are intended to manage the migratory phenomenon by reducing the arrival of migrants on the Italian territory. As a part of the wider externalization process of the European Union, these foreign affairs’ decisions however present some limitations and contradictions. The present work aims at analyzing three main problems related to the accords. Firstly, Italy has contributed to gross violations of human rights; secondly, long-standing criminal infiltration in the official structures have made the Libyan interlocutor an unreliable one at the international level; lastly, a mismanagement of the migratory phenomenon risks being an advantage for the organized crime that is able to seep into such a profitable business.
Sommario
Introduzione
1. La protezione italiana dei richiedenti asilo nel quadro internazionale ed europeo
1.1 Il quadro internazionale
1.2 Il quadro europeo
1.2.1 Consiglio d’Europa
1.2.2 Unione Europea
2. Gli accordi tra Italia e Libia
2.1 Gli accordi precedenti a Hirsi Jamaa
2.2 Una svolta storica: il caso Hirsi Jamaa c. Italia
2.3 Gli accordi successivi e l’esternalizzazione radicale
3. Un mare di indifferenza
3.1 Refoulement delegato: S.s. c. Italia
3.2 Refoulement segreto: Asso ventotto e Asso ventinove
3.3 Indifferenza e inazione
3.4 Il fondo Africa
4. Libia: un porto non sicuro
4.1 Gli “obblighi” internazionali
4.2 Il sistema di accoglienza nazionale
4.3 Gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani
5. Le infiltrazioni criminali libiche
5.1 Un circolo vizioso
6. I vantaggi per il crimine italiano
7. No safe way out
8. Verso un nuovo accordo?
8.1 La scarcerazione di Bija
Conclusioni
Summary
Introduction
1. The Italian protection of asylum seekers in the international and European frameworks
1.1 The international framework
1.2 The European framework
1.2.1 The Council of Europe
1.2.2 European Union
2. Italy-Libya agreements
2.1 Agreements before Hirsi Jamaa
2.2 A historical turning point: Hirsi Jamaa v. Italy
2.3 Subsequent agreements and radical externalization
3. Sea of indifference
3.1 Chain refoulement: S.s. v. Italy
3.2 Secret refoulement: “Asso ventotto” and “Asso ventinove”
3.3 Indifference and inaction
3.4 The Africa Fund
4. Libya: an unsafe third country
4.1 The international “obligations”
4.2 The national asylum system
4.3 Gross and systematic violations of human rights
5. Libyan criminal infiltration
5.1 A vicious cycle
6. Advantages for the Italian crime
7. No safe way out
8. Towards a new agreement?
8.1 Bija’s release from prison
Concluding remarks
Introduzione
Il presente lavoro si propone di analizzare la relazione ventennale tra Italia e Libia nella gestione del fenomeno migratorio. Lo scopo è di mostrarne alcune criticità e di evidenziare come, col passare del tempo, questi si siano inseriti nel più ampio fenomeno europeo della esternalizzazione: la decisione di affidare a paesi terzi la gestione dei flussi migratori, fornendo a questi assistenza e supporto. Così facendo, l’Italia ha potuto mettere in atto una vera e propria strategia di respingimento che verrà presa in analisi nelle seguenti pagine. Contemporaneamente, la trattazione che segue ha lo scopo di fare luce sulle condizioni cui sono sottoposti migliaia di individui che transitano sul territorio libico e che subiscono gravi violazioni dei diritti umani che vedono indirettamente coinvolto lo stato italiano.
Occorre evidenziare che le gross violations dei diritti umani commesse dalla Libia potrebbero qualificarsi come crimini contro l’umanità: dal marzo del 2011 presso la Procura della Corte Penale Internazionale è in corso un’indagine sulla situazione in Libia per i crimini commessi a partire dal 15 febbraio 2011 e la magistratura ha evidenziato, in più occasioni, che rientrano nell’indagine anche i crimini diffusi contro i migranti che transitano nel paese nordafricano.
Si dimostrerà inoltre come la gestione migratoria, di cui tanto si fan vanto alcuni attori politici, abbia avuto l’effetto di rimpinguare le tasche di un gran numero di trafficanti e criminali transnazionali.
È fondamentale aggiungere un ultimo elemento alla premessa: qualsiasi trattazione sul tema del fenomeno migratorio principia dalla distinzione tra la figura del migrante e quella del richiedente asilo o rifugiato. Ai fini del presente lavoro tuttavia, tale distinzione diviene superflua, in quanto si metterà in luce come l’Italia tenti di ostacolare l’ingresso, a prescindere e prima ancora dell’accertamento dello status di rifugiato cui sono connessi inderogabili diritti[1].
1. La protezione italiana dei richiedenti asilo nel quadro internazionale ed europeo
Per meglio comprendere gli accordi tra Italia e Libia in materia di immigrazione è utile fornire un quadro degli obblighi che l’Italia ha scelto di rispettare come membro della comunità internazionale ed europea. Trattasi di strumenti molto diversi tra loro che si pongono come obiettivo primario la creazione di un ambiente sociale internazionale che rispetti i diritti fondamentali degli individui e protegga i più vulnerabili.
1.1 Il quadro internazionale
Uno dei primi accordi che si pone l’obiettivo di tutelare i rifugiati risale alla Convenzione di Ginevra del 1951[2], ove si rinviene la definizione universalmente accettata di rifugiato. Il sistema di tutele approntato tuttavia, rischiava di rimanere inattuato, in assenza di un organismo preposto al controllo del rispetto delle norme. La lacuna è stata colmata affidando tale compito di controllo all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, già esistente per effetto della Risoluzione n. 428 dell’Assemblea Generale. L’alto Commissario ad oggi si occupa di controllare e supervisionare il rispetto delle disposizioni della Convenzione. Questa si pone come la fonte fondamentale per la tutela dei diritti dei rifugiati, esplicitando alcuni principi cardine della protezione internazionale, destinati a diventare principi generali immanenti, tra questi il principio di non-refoulement, previsto all’art. 33 della Convenzione. Indirizzato anche a coloro che attraversano il confine del territorio statale irregolarmente, esso vieta allo stato di respingere o espellere un rifugiato verso un territorio in cui la vita o la libertà di quest’ultimo sarebbero minacciate. Ai fini della presente trattazione, è di fondamentale importanza sottolineare che i beneficiari del principio di non-refoulement ai sensi della Convenzione non sono solo coloro il cui status di rifugiato è stato già riconosciuto, ma anche coloro i quali temono di essere vittima di persecuzione e la cui condizione non è ancora stata accertata. Nei confronti di tali soggetti, è fatto divieto agli stati di negare la protezione in assenza di un esame individuale delle condizioni di ciascun richiedente. Analogamente, è vietato qualsiasi respingimento verso un luogo dal quale possa essere ulteriormente respinto in direzione un territorio in cui sia comunque a rischio di persecuzione. Non è vietato, invece, l’espulsione o il respingimento verso un paese terzo sicuro ove non siano minacciati i diritti fondamentali dell’uomo.
Un secondo strumento di rilievo è rappresentato dal Patto sui Diritti Civili e Politici del 1966[3] la cui portata è senza dubbio più vasta e la cui importanza, ai fini della presente trattazione, risiede nell’interpretazione ampia della giurisdizione proposta dal Comitato dei diritti umani[4]. Quest’ultimo, infatti, ha più volte sottolineato come gli Stati parte debbano garantire la più estesa tutela dei diritti del Patto non limitandosi alla giurisdizione territoriale ma riferendosi al più ampio concetto della relazione tra individuo e stato, ovunque la violazione si sia manifestata. Inoltre, nonostante il Patto non preveda esplicitamente il divieto di non-refoulement, quest’ultimo è ricavabile[5] dagli artt. 6-7 che, rispettivamente, impongono il rispetto del diritto alla vita e il divieto di tortura, trattamenti inumani e degradanti.
Proprio in merito alla tortura, risulta necessario menzionare qui la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984 (CAT)[6] la cui rilevanza sta nell’imporre obblighi sia negativi che positivi agli Stati contraenti; da ciò discende non solo l’obbligo di astenersi da atti di tortura ma anche il dovere di evitare e reprimere atti di questo tipo all’interno della propria giurisdizione. Anche in questo caso, l’interpretazione riguardante la giurisdizione è di tipo molto ampio. Anche in tale fonte si rinviene esplicitato il principio di non-refoulement (art. 3), principio inderogabile, di cui si raccomanda il puntuale rispetto da parte degli stati firmatari.
Nonostante vi sarebbero molte altre fonti che pongono obblighi in capo allo Stato italiano, questa breve disamina si concluderà citando quegli accordi che vincolano la nazione in materia di soccorso in mare. In primo luogo, vi è la Convenzione di Montego Bay del 1982[7] il cui art. 98 obbliga il comandante di una nave a prestare assistenza a chi si trovi in pericolo; a correre in aiuto di persone in difficoltà qualora ne venga informato; e a prestare soccorso, in caso di collisione, all’altra nave. Ancora, la Convenzione Search and Rescue (SAR) di Amburgo del 1979[8] prevede l’istituzione di zone di ricerca e salvataggio di individui in mare, di qualsiasi cittadinanza, status o circostanze in cui questi si trovino. La Convenzione, inoltre, prevede l’individuazione di un porto sicuro per lo sbarco delle persone salvate e viene da sé che vi sia un divieto di far sbarcare gli individui in territori dove la loro vita o libertà siano a rischio.
1.2 Il quadro europeo
Per quanto riguarda gli obblighi dello Stato derivanti dalle norme regionali, è necessario condurre una breve analisi che tenga conto di due distinti quadri normativi: quello relativo al Consiglio d’Europa e le disposizioni derivanti dal diritto dell’Unione Europea.
1.2.1 Consiglio d’Europa
La Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e delle libertà fondamentali (CEDU) costituisce la fonte principale nel quadro del Consiglio d’Europa. Di grande rilievo è il lavoro della Corte EDU le cui sentenze non solo producono effetti vincolanti tra le parti ma hanno carattere di res interpretata che vincola gli stati nei loro comportamenti futuri. Un esempio ne è la giurisprudenza della Corte che ha ampliato l’ambito di applicazione della Convenzione, sostenendone l’efficacia extra-territoriale, nel caso in cui uno Stato firmatario eserciti un controllo effettivo su di un altro Stato[9]. Allo stesso modo, la Corte ha stabilito che le attività condotte da agenti statali a bordo di unità marittime in alto mare debbano identificarsi come rientranti nella competenza territoriale dello Stato battente bandiera. L’interpretazione ampia della giurisdizione risponde all’esigenza di fornire una garanzia quanto più collettiva dei diritti umani e delle libertà fondamentali. A questo fine, la Corte ha inoltre ricavato il principio di non-refoulement dall’art. 3 della Convenzione[10], limitando la discrezionalità statale sulle decisioni di allontanamento ed espulsione e favorendo l’applicazione della cosiddetta protezione par ricochet[11].
1.2.2 Unione Europea
Il processo di integrazione europea è stato spesso caratterizzato dalla reticenza degli Stati membri nel cedere parte della propria sovranità in determinati ambiti. Senza dubbio le decisioni in materia di migrazione rientravano in uno di questi e per questo motivo il quadro normativo relativo ad immigrazione e asilo si è evoluto gradualmente. L’indebolimento delle barriere interne all’Unione, a partire dagli accordi intergovernativi di Schengen, ha fatto sì che gli Stati europei percepissero una maggiore vulnerabilità dei confini esterni ed è in questo contesto che si sono visti i primi sviluppi in ambito comunitario con la costruzione di un’area comune di Libertà, Sicurezza e Giustizia[12]. Il Vertice di Tampere del 1999 rappresenta il primo passo in cui Capi di Stato e Governo concordarono sullo sviluppo di un sistema d’asilo e una politica migratoria comune. La seconda tappa fondamentale coincide con il vertice del Consiglio Europeo tenutosi all’Aja nel 2004. Nonostante quest’ultimo ponga per la prima volta l’accento sul rispetto dei diritti umani, il Programma dell’Aia rappresenta il primo vero passo verso l’esternalizzazione, in quanto in quel contesto fu delineata la necessità di trasferire una parte dei fondi comunitari a paesi terzi nel tentativo di supportarli nella gestione dei flussi migratori in partenza. A completamento di questa evoluzione, si è assistito al Programma di Stoccolma (2009) che accentua l’importanza del controllo dei confini e, da quel momento, l’Unione poteva contare su un’agenzia che sembrava essere la risoluzione al “problema” immigrazione: La European agency for the management of operational cooperation at the external borders, meglio conosciuta come Frontex.
Con il Trattato di Lisbona (2007), la volontà di costruire una politica comune in materia d’asilo diviene esigenza primaria e viene inserita nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)[13]. Contemporaneamente venne disposta l’adesione dell’Unione Europea alla CEDU e si impose agli Stati membri il recepimento della Convenzione di Ginevra come standard minimo di tutela. Si trattava di creare un sistema d’asilo europeo comune (CEAS) da integrare alle norme del diritto comunitario. Si può sostenere che l’attuale “pacchetto d’asilo” dell’Unione Europea si basi su un insieme di tre direttive e due regolamenti: la Asylum Procedure Directive (Direttiva 2013/32/UE[14]) che stabilisce standard procedurali per il riconoscimento o la revoca dello status di rifugiato e introduce il concetto di safe third country; la Reception Condition Directive (Direttiva 2013/33/UE[15]) la cui importanza risiede nel definire il carattere assolutamente eccezionale della detenzione e nell’ampliare l’obbligo degli Stati Membri di garantire condizioni adeguate ai richiedenti asilo anche al confine, in acque territoriali o in zone di transito; la Qualification Directive (Direttiva 2011/95/UE[16]) che inserisce la protezione di tipo sussidiario; l’EURODAC Regulation (Regolamento n. 603/2013[17]) che rende operativo il confronto delle impronte digitali; e in ultimo, non certo per importanza, il Dublin Regulation (Regolamento n. 604/2013[18]) che merita un’attenzione maggiore. Il regolamento di Dublino, attualmente alla sua terza formulazione, configura criteri e meccanismi per la designazione dello Stato competente alla domanda d’asilo che dev’essere riconosciuto nello stato “di primo arrivo” del richiedente, anche se quest’ultimo si sia spostato irregolarmente all’interno del territorio comunitario. Nato per contrastare il fenomeno dell’asylum shopphing, il meccanismo è stato spesso soggetto ad aspre critiche e proposte di riforma.
Accanto a queste norme va richiamata la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 2000 che esplicita una serie di obblighi cui sono sottoposti gli Stati Membri e diritti applicabili a tutti gli individui, indipendentemente da cittadinanza o status giuridico. Tra quelli degni di nota figura l’art. 19 che stabilisce il divieto di espulsioni collettive e, ancora una volta, il principio di non-refoulement[19].
Tuttavia, la struttura d’asilo in toto presenta ancora grossi limiti e il principio originario di burden sharing si è rivelato un continuo burden shifting; il processo di cooperazione in materia si è trasformato in un tentativo, sempre più radicale, di esternalizzazione. Alcuni stati europei, siano essi quelli all’estremità dell’area di libero scambio o i più preoccupati dai flussi migratori, hanno scelto di sottoscrivere accordi bilaterali con alcune nazioni africane, ricorrendo al tradizionale “carrot and stick approach[20]”. Un primo esempio è rappresentato dall’accordo bilaterale di riammissione tra Spagna e Marocco che ha permesso alla Guardia Civil spagnola e alla Gendarmerie marocchina di rimpatriare circa 50.000 migranti tra il 2013 e il 2017. Un secondo esempio è rappresentato dall’accordo tra Germania e Sudan attraverso il quale la Germania si impegna a fornire supporto tecnico e aiuti finanziari, pari a circa 12 milioni di euro, nel tentativo di fermare i flussi migratori che vedono il Sudan come principale snodo di transito. Anche l’Italia, ormai da anni, ha visto i propri governi impegnati nella stipula di accordi bilaterali con lo scopo di controllare e limitare l’arrivo di coloro che si dirigono nel Vecchio Continente in cerca di salvezza o protezione.
2. Gli accordi tra Italia e Libia
Oltre alla vicinanza geografica, sono molti i fattori che fanno del dialogo Italia-Libia una relazione privilegiata. La Libia, da molti anni porta d’uscita dell’Africa per chi vuole approdare in Europa, ha potuto fare leva sul passato coloniale e le proprie risorse energetiche, che tanto interessano alle aziende italiane, per concludere accordi che fossero vantaggiosi. L’Italia, dal canto suo, ha cercato di rafforzare i rapporti con la Libia per gestire quella che per anni è stata definita una crisi migratoria. Se l’obbiettivo di diminuire il numero di arrivi può dirsi in parte raggiunto, il prezzo pagato è assai elevato. Molti degli strumenti impiegati si sono rivelati in contrasto con le disposizioni in materia di diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati sopracitate.
2.1 Gli accordi precedenti a Hirsi Jamaa
Volendo proporre un’analisi a partire dal nuovo millennio, si noti che il primo accordo tra Italia e Libia risale al 2000[21] e si tratta di un accordo quadro la cui firma non ebbe un immediato risvolto pratico. Quest’ultimo arrivò nel 2007, durante il Governo Prodi II, con la stipula di due Protocolli tra la Repubblica Italiana e la Gran Giamahiria Araba Libica Popolare socialista. Oltre a riproporre l’obbiettivo di porre un freno all’immigrazione clandestina, i due Protocolli[22] stabilirono gli estremi per una cooperazione pratica in cui l’Italia si sarebbe impegnata a fornire un numero di unità navali, ad addestrare ed assistere il personale libico nell’impiego e l’utilizzo dei mezzi, e nella realizzazione di progetti di sviluppo in Libia e nei Paesi d’origine dei migranti, avvalendosi anche dell’aiuto della comunità europea. Alla Libia venne chiesto, in maniera generica ed indeterminata, di cooperare con i Paesi d’origine per la riduzione dell’immigrazione e il rimpatrio dei migranti. In realtà, i Protocolli rimasero a lungo inattuati a causa della reticenza delle autorità libiche.
Il successivo slancio si ebbe nel 2008 a Bengasi con la firma del Trattato di Amicizia durante il Governo Berlusconi IV. Quest’ultimo aveva una portata ben più ampia e vincolava l’Italia al pagamento di 5 miliardi di dollari da redistribuire come riparazioni risalenti al dominio coloniale. Nello specifico della materia dell’immigrazione, all’art. 19 del Trattato venne confermato il pattugliamento a bordo di unità navali fornite dall’Italia con equipaggiamento misto e si istituì un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche da affidare a società italiane. La ratifica del Trattato nel maggio del 2009 determinò anche l’efficacia del Protocollo di attuazione dell’Accordo di collaborazione fra Italia e Libia, firmato dal Ministro dell’Interno Maroni a Tripoli nel febbraio 2009. Il Protocollo, il vero strumento tecnico per la realizzazione degli obiettivi comuni, definì le modalità dei pattugliamenti congiunti e rappresentò l’inizio della controversa pratica secondo cui la Libia accettava di ricevere i migranti intercettati dalle autorità italiane, pratica che ha portato alla condanna dello Stato italiano da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
2.2 Una svolta storica: il caso Hirsi Jamaa c. Italia
Il caso Hirsi Jamaa c. Italia riguardò il respingimento di circa 200 persone partite dalla Libia il giorno 6 maggio 2009. I tre barchini con a bordo i migranti venivano intercettati dalla Guardia Costiera italiana a 35 miglia marine da Lampedusa in corrispondenza della zona SAR di Malta. In assenza di qualsivoglia procedura identificativa, i migranti venivano trasferiti sulle motovedette italiane, informati della destinazione e successivamente consegnati alle autorità di Tripoli.
Dopo circa tre settimane, undici cittadini somali e quattordici cittadini eritrei[23], presenti sulle imbarcazioni, presentarono un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sostenendo la violazione da parte dell’Italia degli art. 3 (Proibizione della tortura), art. 13 (Diritto a un ricorso effettivo) e art. 4 del Protocollo n. 4 (Divieto di espulsione collettiva) della CEDU. Nel febbraio del 2011 la Camera riferì il caso alla Grande Camera e nel giugno dello stesso anno, si tenne l’udienza per le presentazioni orali di ricorrenti e Stato.
La prima giustificazione[24] avanzata dallo Stato italiano fu che, data la posizione dell’intercettazione dei migranti, le vicende non fossero avvenute all’interno della giurisdizione nazionale[25]. L’argomentazione fu facilmente opposta dalla Corte: le acque internazionali non rappresentano un vacuum legale ma in esse vigono le regole del diritto internazionale marittimo e soprattutto le disposizioni della Convenzione di Ginevra. Inoltre, ai sensi dell’art. 4 del Codice di Navigazione, su una nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato bandiera. La Corte sostenne che vi fosse un controllo esclusivo, continuo, de jure e de facto dello Stato italiano.
In secondo luogo, l’Italia avanzò la giustificazione secondo cui la Guardia Costiera stesse adempiendo agli accordi bilaterali con la Libia ma anche questa argomentazione fu presto opposta, in quanto degli accordi di tipo bilaterale non possono compromettere il rispetto di norme cogenti e pattizie in materia di diritti umani.
Alla giustificazione che la Libia potesse essere considerata “un porto sicuro” nel rispetto della disciplina di assistenza e soccorso, perché parte di trattati multilaterali a garanzia dei diritti umani, la Corte replicò con la messa agli atti di numerosi report sulla reale condizione degli individui nel territorio libico da parte di organizzazioni autonome e autorevoli.
Gli argomenti posti a sostegno della difesa dell’Italia non risultarono soddisfacenti né conformi ai patti internazionali pertanto la Grande Camera si pronunciò all’unanimità contro l’Italia il 23 febbraio 2012. L’importanza storica della sentenza sta nell’aver ribadito l’applicazione extra-territoriale del principio di non-refoulement (par. 74), nell’aver riconfermato l’esercizio extra-territoriale della giurisdizione statale (par. 77 e 78), ma ancora di più, nell’aver applicato per la prima volta l’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU in una vicenda al di fuori del territorio nazionale.
La condanna all’Italia relativa alla vicenda rappresentò un campanello d’allarme ma le reazioni a questa si sono dimostrate controverse. Se da un lato si è cercato di rafforzare la garanzia di quei diritti così come imposto dalla sentenza della Corte[26], dall’altro lato si è scelto di ricorrere a misure ancora più estreme per evitare di incorrere nuovamente in responsabilità di questo tipo. Ha avuto inizio un processo di esternalizzazione radicale che affida il controllo delle barriere europee a stati terzi rispetto all’Unione e che, inevitabilmente, riduce la protezione dei più vulnerabili.
2.3 Gli accordi successivi e l’esternalizzazione radicale
Il più ampio contesto delle Primavere Arabe del 2011 coinvolse la Libia in maniera violenta al punto che questa divenne teatro di sanguinosi conflitti che ancora si ripercuotono sulla nazione. I tumulti nel paese portarono, tra le altre cose, all’incremento delle partenze dalle coste africane e ciò spinse l’Italia a riaprire il dialogo in materia di immigrazione, questa volta con un nuovo interlocutore[27]. In un primo momento il nuovo dialogo si aprì con il Consiglio nazionale di transizione (Cnt): il Presidente Abdel Rahim Al Kib incontrò il Presidente del Consiglio Mario Monti a gennaio per la firma della Tripoli Declaration, seguita da un incontro tra i Ministri dell’Interno dei due paesi il 3 aprile 2012. Fu lo stesso Monti ad affermare che qualunque decisione tra i due paesi sarebbe stata presa alla luce della sentenza della Grande Camera nel processo Hirsi e il processo verbale dell’incontro tra i due ministri esemplifica quanto deciso. Sicuramente si può notare un’apprezzabile attenzione sulla necessità del rispetto dei diritti umani ma sussistono elementi di evidente continuità con i precedenti accordi, come la ricostruzione del centro di detenzione di Kufra o la ripresa delle attività di monitoraggio e addestramento in mare. A testimonianza della minima efficacia di tali accordi, è doveroso notare che nel 2013 si è assistito ad un notevole incremento dei naufragi in mare, tra i quali si ricorda la drammatica “strage di Lampedusa” che il 3 ottobre spezzò la vita di 368 persone.
Il 2014 ha rappresentato un ulteriore importante spartiacque temporale per la Libia dal momento che la guerra civile ebbe come effetto la divisione del territorio in due zone di influenza: la Tripolitania sotto il controllo di un governo legato ai Fratelli Mussulmani e la Cirenaica sottoposta al governo di Tobruk e alla direzione del generale Haftar. L’ingente penetrazione dello Stato Islamico, che controllava intere porzioni del territorio, e la sempre maggiore instabilità del paese convinsero l’ONU a sollecitare la formazione di un governo di unità nazionale a Tripoli che, tuttavia, per molti anni non verrà riconosciuto dalla camera dei rappresentati di Tobruk. In questo precario equilibrio, l’interlocutore dell’Italia era infatti da ritrovarsi nel Governo di Riconciliazione Nazionale, presieduto da Fayez al Sarraj, e riconosciuto dalla Comunità internazionale.
Il Memorandum d’intesa del 2017 è il prodotto delle negoziazioni svolte dal Ministro Minniti con le quali si richiamano gli accordi precedenti tra i due paesi e si riconferma l’impegno dell’Italia nell’assistenza, supporto e finanziamento alla Libia allo scopo di creare un personale addestrato al controllo e il blocco dei flussi migratori: la sedicente Guardia Costiera libica.
L’accordo continua a perseguire l’obiettivo di contenere i flussi migratori sulle coste libiche cercando di evitare la partenza dei migranti diretti verso l’Italia. Si è cercato di spostare, esternalizzare per l’appunto, il confine europeo. Il Memorandum tra Gentiloni e al Sarraj – che incornicia gli accordi – non fa alcuna menzione alla protezione dei diritti umani, finanche nella parte dedicata ai centri di “accoglienza”.
Parallelamente al Memorandum, tuttavia, l’Italia cercò anche un dialogo con l’altro attore politico attivo sul territorio libico, riconoscibile nella persona del generale Haftar a capo dell’esercito nazionale (Lybian National Army – LNA). Già nel 2017, il Ministro Minniti incontrò il generale dopo che quest’ultimo minacciò di respingere qualsiasi nave italiana che avesse attraversato i mari antistanti le coste orientali del paese e dal 2019, dopo l’ennesima offensiva del Generale della Cirenaica verso Tripoli, il riconoscimento politico della figura di Haftar esemplificava i timori italiani di un possibile cambio di scenario.
Gli eventi più recenti che hanno coinvolto lo stato libico ne hanno modificato l’assetto governativo tuttavia, al momento, il Memorandum del 2017 rappresenta ancora il punto di riferimento della relazione bilaterale al punto che, nonostante le enormi critiche, lo scorso luglio 2020 il Parlamento ha approvato il rinnovo delle disposizioni per un ulteriore triennio. Al momento del rinnovo, il Ministro degli Esteri Di Maio ha dichiarato di impegnarsi a modificare le disposizioni dell’accordo per inserire maggiori garanzie dei diritti umani. Mentre si prosegue nella redazione di nuovi termini dell’accordo, però, il Mediterraneo continua ad essere teatro di naufragi e disgrazie.
3. Un mare di indifferenza
Prima di prendere in esame le diverse modalità di respingimento, vale la pena soffermarsi sulla parentesi dell’Operazione Mare Nostrum. Poco dopo la nota strage di Lampedusa del 2013, il Governo Letta optò per la creazione di un’operazione di salvataggio tutta italiana che dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 ha portato in salvo circa 100.000 persone. L’iniziativa, indubbiamente onerosa per lo Stato italiano, fu da molti etichettata come un “pull factor” e sostituita con operazioni di matrice europea: l’operazione Triton, la successiva Sophia e l’attuale Irini[28], le quali hanno tuttavia assolto a funzioni e ottenuto risultati completamente diversi rispetto all’operazione Mare Nostrum. L’operazione Irini ha oggi come scopo primario quello di monitorare l’embargo sulle armi istituito dalle Nazioni Unite nei confronti della Libia e non di portare in salvo migranti e richiedenti asilo.
Contemporaneamente, l’Italia e altri stati europei hanno optato per il ritiro di molte navi militari che pattugliavano frequentemente i mari, in modo da non dover adempiere all’obbligo di salvare persone in difficoltà nelle acque internazionali, così come sarebbe previsto dal diritto internazionale. In sostituzione e in maniera volontaria sono intervenute diverse organizzazioni non-governative che, tra il 2015 e il 2018, hanno portato in salvo più di 118.000 persone, ottenendo la riduzione del tasso di mortalità lungo la rotta mediterranea. Tuttavia, anche la presenza delle ONG venne considerato un “pull factor” e una parte della classe politica italiana ed europea ha tentato di ostacolarne il lavoro attraverso numerosi attacchi mediatici o giudiziari e, ancor più incisivamente, attraverso la creazione di un Codice di Condotta che imponesse controlli aggiuntivi e restrizioni. L’organizzazione Amnesty International ha definito questo atteggiamento come un modo per “punire la compassione”.
L’allontanamento dei volontari e la creazione, sotto spinta delle autorità italiane ed europee, di una zona SAR libica[29] ha permesso alle autorità marittime europee di astenersi dal soccorrere i migranti in difficoltà in mare, nell’attesa che arrivino i “salvatori” libici. Come conseguenza, la Guardia Costiera libica (GCL) ha potuto adempiere ai propri obblighi indisturbata, minacciando chiunque entrasse nella zona, come molte ONG, e solo nel 2020 ha intercettato e riportato in Libia 11.265 migranti[30].
3.1 Refoulement delegato: S.s. c. Italia
Attualmente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il giudizio di ammissibilità, il caso S.s. c. Italia si pone lo scopo di accertare i fatti e le responsabilità di quanto avvenuto il 6 novembre 2017, quando la presenza della Sea Watch-3 ha potuto fare luce sulle operazioni di “salvataggio” della GCL. Secondo le ricostruzioni, l’IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Center) si occupò di segnalare all’organizzazione non-governativa Sea-Watch la presenza di un gommone che imbarcava acqua a trenta miglia dalla Libia. Una volta raggiunta la posizione, i volontari si trovarono davanti ad uno scenario già drammatico: molti migranti erano già annegati e la Guardia Costiera libica tentava di prendere a bordo i superstiti. Quando i naufraghi in mare si accorsero della presenza della Sea Watch tentarono di raggiungerla mentre i libici intimavano ai volontari di andarsene, ricorrendo anche al lancio di oggetti. Contemporaneamente, i guardacoste frustavano e bastonavano chi era già a bordo della loro nave o cercava di rigettarsi in mare per essere salvato dalla ONG. Una volta terminata l’operazione, la motovedetta libica – si ricordi, donata dall’Italia – si allontanava in corsa lasciando alcuni dei superstiti ancora legati alle cime. Ad osservare il tutto dall’alto c’era un elicottero della Marina Militare italiana. Il bilancio di quella giornata è di 20 deceduti (tra cui un bambino di tre anni), 59 soccorsi dalla Sea Watch e 49 riportati in Libia dalla GCL. Ciò su cui ci si interroga sono i profili di responsabilità attribuibili all’Italia per la condotta spregiudicata della Guardia Costiera libica. L’Italia sembra aver delegato l’attività di refoulement[31] al comando nordafricano, affidando ad uno stato terzo il compito di contenere e limitare i flussi migratori[32]. Le ipotesi di responsabilità dell’Italia si rifanno a due disposizioni del Progetto di Articoli sulla Responsabilità degli Stati. L’art. 16[33] – Aiuto o Assistenza nella commissione di un illecito internazionale – ipotizza una responsabilità indiretta per complicità. In riferimento al par. a), molti sono i pareri che configurerebbero la consapevolezza dello Stato italiano nella commissione dell’illecito. Tra le tante, basterebbe considerare la dichiarazione del Viceministro degli Esteri Giro che già nel 2017 aveva dichiarato “[…] riportarli in Libia, in questo momento, vuol dire riportarli all’inferno”.
Per quanto riguarda l’altra ipotesi di responsabilità, ci si rifà all’art. 17[34] che disciplina la responsabilità italiana in relazione alla direzione o il controllo dell’illecito internazionale. A parere di molti, il finanziamento, il supporto politico, l’addestramento e l’assistenza tecnica rientrerebbero nell’ipotesi della decisive influence.
3.2 Refoulement segreto: Asso ventotto e Asso ventinove
La vicenda notoriamente legata alla nave italiana Asso 28 risale al 30 luglio 2018 e riguarda il respingimento di massa di 101 migranti e potenziali richiedenti asilo, tra cui minori non accompagnati. A portare alla luce questo caso furono le registrazioni della conversazione radio tra la Open Arms, nota ONG attiva nel Mediterraneo, e la nave Asso 28 della società italiana Augusta Offshore. La nave italiana, impegnata nelle attività estrattive presso una piattaforma in Libia gestita da ENI, fu avvisata di un naufragio di migranti e coordinata nell’operazione di soccorrimento e respingimento verso Tripoli. Il problema risiede proprio nel coordinamento di quelle operazioni che a lungo è rimasto un’incognita. Se in un primo momento, come dichiara l’equipaggio a bordo della Open Arms[35], il capitano della Asso 28 sostenne di seguire le indicazioni provenienti dalla piattaforma ENI, la versione è stata poi mutata più volte. L’ENI ha prontamente smentito e la versione adottata dalla compagnia cui fa riferimento la Asso 28 è stata quella di aver riportato i migranti in Libia su indicazione della Guardia Costiera Libica. A conferma di questa versione vi sono anche le indagini della Procura di Napoli che, conclusesi nel luglio 2020, hanno individuato la responsabilità del comandante della nave italiana e del D.P.A.[36] dell’Augusta Offshore. Questi avrebbero violato l’art. 33 della Convenzione di Vienna e l’art. 19 del D.lgs. 286/98 che vieta il respingimento di minori in qualsiasi circostanza. Nonostante le tante smentite da parte della Guardia Costiera italiana che continua a sostenere di non aver preso parte all’operazione, di fatto escludendo una responsabilità statale italiana, ci si chiede quanto una nave che batta bandiera italiana in acque internazionali possa esimersi dal far rispettare le leggi cui l’Italia è vincolata.
Le ricerche riguardo la vicenda della Asso 28 hanno portato alla luce un altro avvenimento, facendo sorgere l’ipotesi che respingimenti di questo tipo siano all’ordine del giorno. Un ragazzo detenuto in un centro libico, intervistato dagli attivisti in relazione alla vicenda del 30 luglio, riferisce la propria esperienza di respingimento ma data e numeri sembrano non coincidere. Secondo il suo racconto, il 1° luglio 2018 almeno 257 migranti, a bordo di tre navi[37], partirono dalla Libia. Dopo aver navigato verso nord per circa venti ore, questi furono raggiunti da una motovedetta libica e una nave italiana molto simile alla Asso 28. Si trattava però della Asso 29, proveniente da Malta, ed è su questa che vennero fatti salire i naufraghi. Quasi subito molte donne cercarono di farsi identificare, sostenendo di essere eritree e di voler chiedere protezione internazionale. Gli italiani, secondo le testimonianze, avrebbero sorriso: “State tranquilli, vi sveglierete in Italia”. Il giorno dopo i superstiti si risvegliarono a Tripoli. In effetti, dopo quasi tre anni l’Italia è stata citata in giudizio da cinque cittadini eritrei che hanno subito il respingimento. L’iniziativa processuale è stata possibile grazie al supporto dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e di Amnesty International Italia i quali sostengono che sia stata proprio la Marina Militare italiana a coordinare le operazioni, tesi che alcuni documenti forniti dalla Augusta Offshore proverebbero. Al momento, non si hanno ulteriori notizie.
3.3 Indifferenza e inazione
Come precedentemente accennato, vi sono state diverse occasioni in cui le autorità italiane hanno optato per l’inazione nell’attesa che i soccorsi arrivassero da altre nazioni. La “strage di Pasquetta” dell’Aprile 2020 sembra rispecchiare queste modalità. Secondo le ricostruzioni, un gommone con 63 migranti partiva dalle coste libiche il giorno 9 aprile e lanciava la prima richiesta d’aiuto dopo 24 ore. La posizione veniva resa nota alle MRCC di Malta e Roma che tuttavia non mobilitavano unità di soccorso. Il giorno 14 aprile, alle 22:30, il gommone veniva intercettato dal cargo portoghese Ivan che si limitava a monitorarlo fino a quando, il 15 aprile, sopraggiungeva un peschereccio battente bandiera libica. Quest’ultimo, il Dar El Salam prelevava i migranti e faceva rotta verso il paese africano, scortato da una nave della Marina Militare italiana. All’arrivo del peschereccio in Libia, i migranti a bordo non erano più 63 ma 51, in quanto 3 persone erano annegate nel tentativo di raggiungere a nuoto una portacontainer che navigava a brevissima distanza; 4 si erano abbandonate in mare per la disperazione; 2 erano già decedute prima dell’arrivo dei soccorsi; 3 morte di sfinimento a bordo del peschereccio. I 51 compagni delle vittime vengono consegnati all’orrore di Tarek al Sika. Non risulta che l’Italia abbia dato la disponibilità di Lampedusa come porto di sbarco nonostante fosse, con chiara evidenza, il più vicino “porto sicuro”, autorizzando e rendendosi così complice di un silenzio durato cinque giorni e del trasferimento dei naufraghi a Tripoli. Un esposto è stato presentato alla Procura della Repubblica nel Luglio 2020 per accertare le responsabilità italiane nella vicenda.
Il silenzio che caratterizza la Strage di Pasquetta sopracitata non rappresenta un’eccezione lungo la rotta mediterranea. Lo scorso 22 aprile, poco più di un anno dopo, il mancato coordinamento tra le autorità nazionali competenti, probabilmente dovuto alla volontà di lasciare i soccorsi alla GCL, ha portato alla morte di circa 130 persone a largo della Libia in quella che il portavoce dell’OIM ha poi definito una “tragedia annunciata”.
3.4 Il Fondo Africa
Sono ormai innumerevoli le denunce da parte di organizzazioni non governative, privati e attivisti che cercano di fare luce sulla complicità italiana nelle gravi e sistematiche violazioni commesse in Libia e dalle autorità libiche. Un ennesimo tentativo è rappresentato dal ricorso amministrativo che Amnesty International Italia aveva proposto per contestare la legittimità dell’impiego di 2,5 milioni di euro del “Fondo Africa” per il sostegno operativo alle autorità libiche nelle loro operazioni di controllo delle frontiere marittime. Il Fondo Africa, istituito con legge di bilancio nel 2017, vede la cooperazione di Italia, Unione Europea e molte altre organizzazioni internazionali e l’impiego di circa 200 milioni di euro. A beneficiarne sono perlopiù Niger e Libia, ritenuti cruciali nelle partenze e nel transito di migranti. Il ricorso ha tentato di fare luce sul paradosso secondo cui dei fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo vadano a supportare gli ormai evidenti abusi e maltrattamenti posti in essere dalle autorità libiche. Nonostante l’evidenza, il Consiglio di Stato ha definitivamente rigettato l’appello con la sentenza n. 4569/2020, sostenendo che questo impiego sia in linea con le finalità del Fondo.
4. Libia: un porto non sicuro
Più di una volta, di fronte alle accuse di collaborazione con le autorità libiche, l’Italia ha cercato di giustificare il proprio comportamento sostenendo che la Libia potesse essere considerata un porto sicuro in quanto Stato parte di alcuni strumenti internazionali volti alla protezione dei diritti umani.
4.1 Gli “obblighi” internazionali
La Libia risulta formalmente firmataria di buona parte dei patti internazionali volti alla tutela dei diritti umani. È però necessario porre l’attenzione su alcune norme che, sebbene formalmente ratificate dal Paese, risultano costantemente violate. In primo luogo, la Libia è parte del Patto sui diritti civili e politici del 1976. L’art. 9 del Patto stabilisce il diritto alla libertà e vieta la detenzione arbitraria; l’art. 7 sancisce il divieto di tortura, trattamenti inumani o degradanti; l’art. 4 prevede l’inderogabilità del divieto ex art. 7. Sempre nell’ambito della tortura, la Libia è parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura (CAT).
In secondo luogo, lo Stato ha ratificato il Patto sui diritti economici, sociali e culturali che, tra le altre cose, stabilisce il diritto degli individui a cure mediche, beni e servizi che siano esenti da qualsiasi forma di discriminazione. Allo stesso modo, la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (1990), di cui lo Stato è parte, stabilisce il diritto dei migranti a ricevere cure mediche di natura urgente. La Libia ha anche firmato, ma mai ratificato, la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 e i protocolli aggiuntivi del 1967. Proprio per questo motivo, l’UNCHR e il suo ufficio di Tripoli non godono ancora di pieno riconoscimento da parte delle autorità. A livello regionale, la Libia è firmataria della Carta Africana dei diritti umani e dei popoli (1981) e, come membro dell’Unione Africana, anche della Convenzione sui rifugiati (1969).
Prima di analizzare come e se la Libia abbia recepito e implementato questi obblighi all’interno del quadro normativo nazionale, vale la pena considerare che lo Stato, in quanto membro della comunità internazionale, sarebbe comunque tenuta a rispettare le norme vigenti sul piano del diritto internazionale generale. Per citare un esempio: le sparizioni forzate sono proibite dal diritto consuetudinario e la non-appartenenza della Libia alla CED[38] non dovrebbe ledere in alcun modo il diritto degli individui a non essere vittime di sparizioni forzate quando questi si trovano sotto la giurisdizione libica.
4.2 Il sistema di accoglienza nazionale
Come è noto, l’essere parte degli strumenti sopra citati non fa della Libia una nazione virtuosa nel rispetto dei diritti umani. Al contrario, non vi sono norme interne che dimostrino la volontà delle autorità di recepire quanto deciso a livello internazionale o regionale. Per molti anni, ad esempio, non vi è stata distinzione giuridica tra richiedenti asilo/rifugiati e migranti economici con la conseguenza che i primi non hanno mai beneficiato di un regime giuridico privilegiato. Tutti coloro che fanno ingresso in Libia sono soggetti alla legislazione interna che riguarda la generica entrata degli stranieri sul territorio. La legge 6/1987 stabilisce l’obbligo di un visto valido e l’assenza di questo può far incorrere in sanzioni che vanno dalla multa alla detenzione. Teoricamente, la Dichiarazione Costituzionale del 2011 introdusse all’art. 10 il diritto d’asilo ma questo non è mai stato affiancato dall’approvazione di una procedura concreta.
Va detto, inoltre, che dal 2011 il sistema legislativo e giudiziario libico ha subito le più disparate minacce e repressioni. Molte delle milizie hanno sostituito le autorità e le forze dell’ordine nello svolgimento delle loro funzioni e per lungo tempo è stato complesso individuare un’organizzazione statale stabile e unitaria.
4.3 Gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani
Per i motivi appena descritti e per il conflitto che ha riguardato la Libia per oltre dieci anni[39], il territorio è teatro di “orrori inimmaginabili” così come li ha definiti Federico Soda, l’italiano a capo della missione dell’OIM a Tripoli. Molti dei migranti che risiedono in Libia, avrebbero voluto transitare nel territorio solo come punto di sbarco ma, in virtù degli accordi esemplificati nelle precedenti pagine, vengono respinti e privati di libertà essenziali. Sono ormai innumerevoli i report che fanno luce sulle atrocità commesse in Libia: si pensi a quelli ufficiali delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, dei treaty bodies, delle più importanti organizzazioni in materia di diritti umani e alle molteplici inchieste di tipo giornalistico. La maggior parte degli esempi riportati in questo paragrafo si rifanno al rapporto di Amnesty International dall’eloquente titolo: “Between Life and Death: Refugees and Migrants trapped in Libya’s cycle of abuse” (settembre 2020). Per comprendere la vastità del fenomeno, si consideri che tra marzo e aprile 2020 l’OIM contava circa 600.000 migranti e rifugiati in Libia provenienti perlopiù dall’africa subsahariana.
La privazione della libertà attraverso la detenzione arbitraria è una pratica cui sono sottoposti centinaia di migliaia di individui in Libia. Ne sono vittime sia i migranti irregolari, così come considerati dalla legislazione interna, sia i respinti che sono stati intercettati nelle acque del mar Mediterraneo. Alcuni dei detenuti vengono trasferiti nei moltissimi centri di detenzione immediatamente dopo lo sbarco sulle coste libiche; altri vengono arrestati mentre si trovano in strada, nelle loro case o non appena varcano il confine del territorio libico. Il Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM), facente capo al ministro dell’interno, e le prigioni, di autorità del ministro della giustizia o dell’interno, fanno parte dei centri detentivi ufficiali. Accanto a questi, decine di edifici controllati da milizie affiliate alle autorità o da gruppi armati che, lontani dal controllo dalle organizzazioni non-governative o internazionali, tengono prigionieri centinaia di individui alla volta. Di quelli intervistati da Amnesty, nessuno dei detenuti è stato sottoposto a processo o accusato di qualsivoglia reato né conosce la durata della detenzione, che può andare da diversi giorni a lunghi mesi.
Tra le migliaia di persone arrestate, molti sono i casi di sparizioni forzate registrati sul territorio. Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate o involontarie (WGEID) ha sottolineato come le sparizioni forzate in Libia siano perlopiù attribuibili ad attori non statali, spesso criminali e trafficanti, che possono però contare sulla complicità diretta o indiretta di autorità ufficiali, tra le quali la nota Guardia Costiera libica.
Le condizioni detentive sono state definite inumane: sovraffollamento, servizi igienici inadeguati, mancanza di acqua potabile e di sufficienti posti letto, così come una scarsa e pessima qualità del cibo, quando fornito. A queste condizioni “strutturali” va aggiunto un altro dato: le forze dell’ordine, le forze armate e i miliziani all’interno dei centri si rendono protagonisti di gravi abusi. I detenuti vengono ripetutamente sottoposti a torture e trattamenti degradanti per diversi motivi: per costringere le loro famiglie a pagare una somma di denaro per il rilascio, per essersi rifiutati di pagare, per essersi lamentati delle condizioni detentive ecc. Molti sono anche i racconti di violenza sessuale a danno dei detenuti. L’assenza di controllori femmine ha reso ancor più vulnerabili le donne e le ragazze detenute nei centri che hanno subito ripetuti stupri e che, alle volte, sono state costrette alla prostituzione. Nel report congiunto di dicembre 2018 dell’UNSMIL e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) si sostiene che la maggioranza delle donne intervistate abbiano subito abusi sessuali da parte di trafficanti e ufficiali durante il loro soggiorno in Libia. Com’è intuibile, nessuna di queste violenze ha avuto un seguito giudiziario.
Inoltre, migranti e rifugiati nei centri di detenzione sono spesso costretti a lavori forzati, siano essi di manutenzione, costruzione o pulizia senza ottenere remunerazione e senza possibilità di rifiutarsi. Decine sono anche le testimonianze riguardo un alto numero di decessi nei diversi “campos”: vi sono ricostruzioni di sparatorie a danno dei migranti così come racconti di strane sparizioni. Secondo il report sopracitato di dicembre 2018: “Innumerevoli migranti e rifugiati hanno perso la vita in cattività per mano di trafficanti e contrabbandieri dopo essere stati sparati, torturati a morte o semplicemente lasciati morire di fame o per negligenza medica[40]”.
Quando interrogato proprio sulle condizioni inumane dei centri detentivi, il Ministro dell’Interno libico, Fathi Bashagha[41], rispose che le prigioni esistono per via della pressione esercitata da alcuni Paesi europei per impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo, in particolare alludendo all’Italia.
È anche molto comune che i detenuti vengano espulsi dalla Libia e, in assenza di qualsivoglia attività procedurale e garanzia processuale, respinti in altri paesi. L’OIM ha raccontato di un’espulsione di massa del luglio 2020 in cui almeno 636 individui sono stati riportati in Chad. Nonostante per la maggioranza di questi l’espulsione rappresentasse un rimpatrio, molti degli espulsi erano originari del Niger, della Nigeria o del Sudan. Accanto alle brutalità perpetrare ai danni dei migranti e aspiranti richiedenti asilo in violazione dei loro diritti fondamentali, si aggiunge anche una esplicita violazione del principio di non-refoulement.
Condizioni durissime di vita e sistematiche violazioni dei diritti umani spettano anche ai migranti che non sono sottoposti a detenzione. Sin dagli anni Ottanta la Libia è la destinazione di molti migranti economici così come il paese di transito per molte persone che desiderano arrivare in Europa. Il sempre crescente numero di stranieri ha alimentato uno spiccato sentimento di diffidenza che col passare degli anni si è trasformato in vero e proprio razzismo nei confronti dei migranti, in particolare dei provenienti dall’Africa Subsahariana. Per questo motivo, anche chi non viene costretto alla detenzione, viene spesso sottoposto a discriminazioni e abusi di ogni tipo. Allontanati o scherniti da autorità e funzionari pubblici, a volte anche dal personale sanitario, molti stranieri sono costretti ad accettare lavori sottopagati ed estenuanti pur di sopravvivere.
Nonostante l’instabilità sociale in Libia e la presenza di una moltitudine di attori, le violenze descritte nelle pagine precedenti sono anche perpetrate da funzionari libici. Siano essi membri della GCL o personale incaricato della gestione dei centri di “accoglienza”, si è spesso trattato di personale al servizio del precedente governo di Al-Sarraj e, di conseguenza, di organi statali che rendono lo stato libico responsabile di gross violations.
A questo punto diventa necessario aprire un altro spunto di riflessione e porsi alcune domande: i governi libici rappresentano un interlocutore affidabile? Chi componeva l’eterogeneo gruppo dei sostenitori di Al-Sarraj? Chi sono i componenti della famigerata GCL, creata tutta d’un tratto? Se tanto si è fatto per fermare gli sbarchi dalla Libia, come è possibile che vi siano ancora le partenze e le successive disgrazie? C’è qualcuno che ne beneficia? È a queste domande che i prossimi paragrafi cercano di dare una risposta.
5. Le infiltrazioni criminali libiche
Le conferme della collusione tra le autorità statali e i gruppi criminali, quali trafficanti e contrabbandieri, arrivano da numerosi report sia di organi delle Nazioni Unite sia da inchieste giornalistiche e ricerche di autorevoli organizzazioni non governative[42]. Molti di questi evidenziano come un gran numero di gruppi armati, organizzatisi durante le rivolte del 2011 e rifiutatisi di deporre le armi, siano stati integrati nelle istituzioni statali come parte del progetto di ricostituzione dello stato. Questi gruppi hanno avuto l’opportunità di continuare le loro attività criminali godendo della legittimità derivata dalla affiliazione alle autorità ufficiali. Approfittando di questa e dell’instabilità dovuta ai continui scontri, molte milizie armate hanno preso il controllo di un buon numero di aree strategiche che facilitassero le attività di contrabbando e, parallelamente all’aumento dei flussi migratori, hanno compreso l’importanza di controllare le coste. È per questo motivo che milizie e gruppi di trafficanti hanno preso il controllo sia dei centri di detenzione, ufficiali e non, sia degli alti gradi della Guardia Costiera libica, riuscendo a gestire le tratte di esseri umani e le rotte di immigrazione irregolare nelle modalità che verranno esposte a breve.
Tra gli esempi emblematici di questa commistione vi è il caso di Abdelrahman al-Milad, meglio conosciuto come Bija e nome ormai noto alla cronaca italiana. La tribù cui appartiene, la Abu Hamyra, si trova perlopiù nella cittadina costiera di Zawiya e durante tutto il regime di Gheddafi ha basato il suo sostentamento sulle prebende del petrolio, vista la presenza nella cittadina della raffineria più grande della nazione. Contestualmente alle proteste del 2011, molte tribù si schierarono contro il rais e ne approfittarono per affermare il proprio potere sul territorio. Una volta caduto il regime, Bija e i suoi gestirono la cittadina, il suo porto e il giacimento di petrolio al punto che il governo di Tripoli post-2011 fu costretto a scendere a patti con la tribù. Bija, che fino a quel momento era riuscito a guadagnarsi il ruolo di contrabbandiere, venne inserito nella riformata Guardia Costiera libica, beneficiò degli addestramenti e delle risorse devolute dall’Italia e dall’Europa ed arrivò ad essere il trafficante più temuto della Tripolitania. Nonostante già dal 2016 venga descritto come uomo-chiave nella tratta di esseri umani, Bija mise la sua milizia al servizio di Al-Sarraj ed entrò ufficialmente a far parte dell’interlocutore libico. L’11 maggio 2017 il guardacoste, riconoscibile da un evidente menomazione alla mano, venne in Italia come membro della delegazione libica in visita al CARA[43] di Mineo.
La sua attività criminale tuttavia proseguì, al punto che il 7 giugno 2018 venne inserito nella lista delle persone sottoposte a sanzioni dal Consiglio di Sicurezza e, dall’aprile 2019, fu destinatario di un mandato di cattura emesso dal procuratore generale di Tripoli, proprio in ragione del suo ruolo nel traffico di esseri umani. Nonostante ciò, l’ordine non era stato eseguito e Bija continuava a comandare la milizia Al-Nasr durante le battaglie contro le fazioni di Haftar, a coordinare il centro di detenzione di Zawiya e il contrabbando di petrolio. Ad affiancarlo nella gestione della prigione di Zawiya, vi era il cugino Osama, ufficialmente incaricato dalle autorità di Tripoli e che, secondo la magistratura italiana, sarebbe stato il vero capo degli aguzzini. È stata proprio la magistratura italiana che, il 16 settembre scorso, ha condannato a venti anni di reclusione tre funzionari della prigione che, attraversato il Mediterraneo e arrivati in Italia, sono stati riconosciuti da alcuni migranti nell’hotspot di Messina. La sentenza, dopo aver stabilito che i tre uomini lavorassero e torturassero i migranti su ordine di Bija e Osama, ha accertato come l’intera filiera di cattura, respingimento e internamento dei migranti in una struttura istituzionale sia una macchina infernale i cui artefici godono della legittimazione statale.
In seguito all’annuncio delle dimissioni di Al-Sarraj, il Ministro degli Interni Fathi Bashagha si è posto l’obiettivo di unire le bande armate e di centralizzarne il comando. A questo proposito ha posto Bija in detenzione provvisoria a causa del suo ruolo ingombrante. Secondo alcuni analisti, più che di un arresto si tratterebbe di una consegna concordata di un soggetto che gode di protezione internazionale, nonostante le sanzioni dell’ONU, e il cui ruolo resta influente.
Come Bija, altre sono le figure ambigue che hanno combattuto al fianco del GNA nonostante i loro interessi criminali. Tra questi vi è Ahmad al-Dabbashi, anche conosciuto come al-Amu (lo zio), anch’egli inserito tra gli individui sottoposti a sanzioni dal Consiglio di Sicurezza per il suo ruolo nel traffico di esseri umani.
5.1 Un circolo vizioso
Per comprendere in che modo questa collusione tra trafficanti e autorità si manifesti nel concreto, è necessario consultare le centinaia di testimonianze di coloro che sono riusciti a scappare dalle prigioni libiche e ad arrivare in Europa. Nella comunicazione scritta congiuntamente da Amnesty International e Human Right Watch alla Corte Europea dei Diritti Umani nell’ambito del caso S.S. c. Italia, le autorevoli ONG spiegano come i gruppi armati e i trafficanti abbiano modo di usufruire di strutture e fondi statali nella loro gestione irregolare delle rotte migratorie. La Guardia Costiera libica, in particolare, non solo è coinvolta in serissime violazioni dei diritti umani ma spesso, dietro enormi compensi, collude con i trafficanti seguendo tre diverse modalità: una prima forma di protezione è rappresentata da un vero e proprio accompagnamento della nave con a bordo i migranti da parte della GCL fino ad acque internazionali; in altri casi, le barche gestite dal “giusto trafficante”, colui che ha pagato, vengono contrassegnate da simboli in modo da essere riconosciute e lasciate libere di proseguire la traversata; in altri casi ancora i migranti, se fermati dalla GCL, si trovano a dover comunicare il nome del trafficante a cui hanno pagato il viaggio e se si tratta del “right name”, il viaggio prosegue.
Se ciò non dovesse accadere e se la GCL si trovasse costretta a riportare i migranti in Libia[44], come previsto dagli accordi precedentemente analizzati, può accadere che questa consegni i migranti ai proprietari dei centri di detenzione in cambio di denaro. Anche qualora i migranti vengano lasciati liberi sulle coste una volta riportati in Libia, spesso essi vengono adescati e trasportati nelle prigioni clandestine[45]. Qui le persone, come si è già avuto modo di analizzare, subiscono atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti e, soprattutto, gli vengono estorte ingenti somme di denaro al fine di tentare nuovamente la fuga. Fuga, ancora una volta, affidata ai trafficanti i quali dovranno pagare la Guardia Costiera per evitare che le proprie imbarcazioni vengano fermate in mare. Il risultato è un pericoloso rapporto simbiotico tra chi dovrebbe garantire il controllo delle coste, applicando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con l’Italia, e i criminali dediti al traffico dei migranti che possono contare sulla complicità di quella stessa Guardia Costiera.
6. I vantaggi per il crimine italiano
«[...] Tu c’hai idea de quanto ce guadagno sugli immigrati? il traffico de droga rende meno…»: Così Salvatore Buzzi, indagato e poi condannato per le infiltrazioni nelle gare d’appalto pubbliche, spiegava al telefono quanto fosse redditizio speculare sugli aiuti forniti dallo stato italiano agli immigrati e/o richiedenti asilo. Invero sin dai primi momenti, il crimine organizzato italiano, nelle sue diverse forme e appartenenze regionali, ha individuato nella più ampia gestione-migranti un possibile business remunerativo.
Occorre qui fare una breve distinzione tra traffico di migranti e tratta di esseri umani (rispettivamente migrant smuggling e human trafficking). Il primo fenomeno si configura come un crimine contro lo Stato i cui confini vengono attraversati illegalmente e rappresenta un servizio fornito a coloro che volontariamente desiderano attraversare un confine. In linea teorica, il servizio termina una volta superato il confine e pagato il “passaggio”. La tratta di esseri umani è un crimine contro la persona molto più complesso che prevede lo sfruttamento, attraverso la coercizione, di uomini e donne per ottenere un continuato beneficio economico. Nonostante la distinzione, tuttavia, la linea di confine tra i due fenomeni risulta essere sempre più labile. Considerando il caso libico, molti dei migranti che partono dalla nazione sono stati presumibilmente già vittime di traffico[46] e una volta detenuti nei famigerati centri, divengono vittime di tratta e sfruttamento. Se di tali attività perpetrate dalle organizzazioni libiche se n’è parlato ampliamente, bisogna adesso comprendere in che modo anche il crimine nostrano si è infiltrato in tale sistema.
Per quanto riguarda il traffico di migranti, sono molte le fonti autorevoli che descrivono il ruolo del crimine organizzato nel facilitare l’entrata illegale sul territorio italiano. Ne sono un esempio le parole del Professore Ranieri Razzante[47] il quale sostiene che il crimine organizzato italiano (ed europeo) rappresenti l’ultimo anello di una lunga catena di pagamenti che il migrante è costretto ad effettuare fin dalla partenza dal suo luogo d’origine. Il crimine organizzato, secondo Razzante, avrebbe degli accordi “a monte” con le organizzazioni criminali operanti in Libia. In secondo luogo, molte sono le inchieste che sono riuscite a fare luce su accordi transnazionali tra organizzazioni criminali che coinvolgessero anche i migranti. L’operazione Scorpion Fish 2 della Guardia di Finanza, ad esempio, nel 2018 riuscì a smantellare una organizzazione criminale italo-tunisina che da un lato favoriva l’entrata illegale dei migranti in Italia, dall’altro introduceva nel territorio nazionale un gran numero di sigarette di contrabbando da rivendere sul territorio Palermitano. Fu il Copasir, già nel 2009, a scoprire che le organizzazioni criminali non solo guadagnano dallo sfruttamento degli stranieri ma beneficiano di alcuni vantaggi in altri traffici illeciti se mostrano “tolleranza” o forniscono supporto logistico agli smuggling networks.
Il caso della prostituzione è senza dubbio emblematico. Le organizzazioni criminali italiane, in particolare la Camorra e Cosa Nostra, hanno stretto accordi con i gruppi criminali nigeriani che ogni anno destinano decine di migliaia di giovani donne alla prostituzione. A questo scopo, si è dovuto fare affidamento su accordi intermedi tra i gruppi criminali nigeriani e le organizzazioni criminali in Libia da cui queste donne partiranno, quasi sempre senza conoscere il loro vero destino. Sempre nelle parole di Razzante, la Camorra agisce oggi come “azionista” del crimine nigeriano, fornendo supporto con strutture e alloggi e ricavando una percentuale sui guadagni.
Un’ ulteriore fonte di guadagno per il crimine organizzato italiano è rappresentato dal reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” che trova nel caporalato il suo esempio più palese. Già dai primi anni Novanta e dai numerosi arrivi provenienti dall’Est Europa, il crimine organizzato riusciva ad inserire i migranti nelle proprie strutture criminali. Gli arrivi dal nord africa si sono spesso tradotti in una ingente offerta di manodopera a basso costo e le difficoltà dei migranti ad inserirsi nei contesti legali hanno fatto sì che il crimine italiano potesse ingaggiare e sfruttare un gran numero di individui.
Alcune inchieste della magistratura italiana hanno dimostrato come questo adescamento possa anche avere luogo nelle strutture governative dedicate all’alloggio dei richiedenti asilo mentre questi attendono che le loro richieste d’asilo vengano valutate[48]. È il caso delle infiltrazioni criminali nei CARA italiani in cui migliaia di uomini e donne si ritrovano in condizioni di vita spesso precarie e vengono adescati da chi intende sfruttarli.
Vale anche la pena notare come il crimine italiano abbia non solo integrato i migranti nelle loro attività ma sia riuscito a trovare il modo di monetizzarne l’inserimento nel complicato sistema d’asilo italiano. L’inchiesta “Mafia Capitale” ha smantellato un sistema criminale il cui scopo era lucrare sui fondi destinati al Cara di Mineo[49], infiltrandosi nel sistema degli appalti per la fornitura di specifici servizi (ad es. la mensa) o dichiarando un numero maggiore di ospiti nella residenza per ottenere più fondi pro-capite. Similmente, la Direzione Distrettuale di Catanzaro, attraverso l’Operazione Johnny[50], ha portato all’arresto di 68 soggetti, alcuni dei quali particolarmente vicini alla ‘Ndrangheta, colpevoli di essersi appropriati di milioni di euro dai fondi statali, al punto che il CARA di Capo Rizzuto è stato ironicamente definito “il bancomat della Mafia”.
7. No safe way out
Da marzo 2020 la priorità, per molti paesi, è divenuta quella di contenere e mitigare la pandemia di COVID-19. In Libia le complicazioni relative al virus hanno aggravato alcune delle già difficili situazioni esemplificate nelle pagine precedenti. Le restrizioni alla libertà di movimento e le chiusure di molti confini dei paesi occidentali, ad esempio, hanno esacerbato la sofferenza dei migranti in Libia. Gli aeroporti e le frontiere nei territori sotto il controllo del GNA e dell’LNA sono stati chiusi rispettivamente il 16 e 19 marzo 2020. Nello stesso mese, l’UNHCR ha dovuto sospendere le evacuazioni e l’OIM ha dovuto interrompere i programmi di ritorno, lasciando migliaia di uomini e donne in Libia senza una “via d’uscita” legale, che già prima era una opportunità riservata a pochi. Nonostante alcuni programmi dell’IOM siano stati ripresi in estate, questi risultano andare a rilento e non si hanno notizie di operatività da parte dell’UNCHR, almeno fino a settembre 2020.
8. Verso un nuovo accordo?
Da pochi mesi in Libia vi è un nuovo governo che si propone come unitario e che rappresenta l’attuale interlocutore dell’Italia e della comunità internazionale.
La formazione del Governo di Unità Nazionale è il risultato di anni di negoziazioni, intervallati da sanguinosi conflitti militari, sotto l’egida ONU; specificatamente nell’ambito della missione Onu in Libia (UNSMIL). Un apparente balzo in avanti sembrò essere rappresentato dalla Conferenza di Berlino del gennaio 2020 ma la successiva offensiva militare di Haftar, poi fermata dai turchi, aveva disatteso le aspettative di riconciliazione. Quella stessa conferenza, tuttavia, permise la definizione delle strade da seguire per risolvere il conflitto. In questo percorso si sono inseriti i quattro round delle conferenze di Ginevra. Monitorate dall’UNSMIL, le Conferenze hanno portato a due importanti risultati: l’istituzione di un cessate il fuoco il giorno 23 ottobre 2020 da parte del Comitato Militare Congiunto (5+5) e la designazione di un presidente e un premier ad-interim da parte del Forum per il Dialogo Politico libico (LPDF). È a seguito di questi sforzi diplomatici che il 15 marzo 2021 è avvenuto il passaggio di consegne tra il Governo di Accordo Nazionale uscente di Al Sarraj e il nuovo Governo guidato da Abdul Hamid Dbeibah, incaricato di traghettare il paese alle elezioni del prossimo 24 dicembre. Nonostante l’evidente importanza storica relativa a questo momento, non mancano le ombre e le ipotesi di fallimento relative alla nuova iniziativa.
Il governo di unità nazionale ha il compito di ricostruire il paese, di gestirne le risorse e di proporsi come unico interlocutore libico sul piano internazionale. Si sono infatti riaperte le relazioni diplomatiche con molti paesi e anche con l’Europa tutta che, come precedentemente annunciato dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, è nuovamente presente in Libia con una delegazione stabile dal 17 maggio 2021. Anche l’Italia è in procinto di scrivere una nuova pagina delle relazioni bilaterali con la Libia: lo scorso 6 aprile il premier Mario Draghi e il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio hanno incontrato il neo-premier Dbeibah in un colloquio che le autorità italiane hanno definito come strategico e proficuo. A questo sono seguiti diversi viaggi diplomatici, come quello della Ministra degli Esteri libica, Naila el-Mangoush a Roma. Se molto si è detto dei benefici economici riconducibili a questo nuovo dialogo, l’interesse specifico del presente lavoro si poggia su altri aspetti.
Come si è potuto analizzare, l’Italia ha continuato a lungo a mantenere i rapporti con la Libia senza condizionare il dialogo al rispetto dei diritti umani. In un primo momento, a destare preoccupazione furono le parole del premier italiano che si disse soddisfatto per “quello che fa la Libia con i salvataggi”. Tenendo ben a mente quanto descritto nelle pagine precedenti, l’affermazione dell’ex-governatore della BCE apparve quasi uno scherno nei confronti delle organizzazioni umanitarie internazionali e dei migranti che tentano la fuga.
Tuttavia, in un secondo momento la Ministra dell’Interno Lamorgese, recatasi a Tripoli, ci ha tenuto a porre l’accento sugli aspetti umanitari degli accordi così come sulla riapertura di corridoi umanitari. Il precedente sarebbe rappresentato dall’accordo, risalente al 2017, tra Governo italiano, GRN libico, ONU e Conferenza episcopale italiana che permise l’istituzione di corridoi umanitari per le persone bloccate nei centri di detenzione libici ma che venne poi sospeso nel 2018.
Al momento la Libia, il cui governo legittimo ha ancora sede all’Hotel Corinthia a Tripoli, sollecita lo stanziamento di nuovi fondi per una migliore collaborazione.
8.1 La scarcerazione di Bija
Se per il giudizio sull’eventuale nuovo accordo bisognerà attenderne la definizione dei dettagli, vi è un evento che merita senz’altro un giudizio negativo. Domenica 11 aprile 2021, Abdurahaman al-Milad è stato rilasciato ed è tornato trionfante tra le strade di Zawyah, omaggiato da danze, lodi e cortei. Dopo sei mesi di detenzione provvisoria, Bija è tornato in libertà ed è stato promosso al grado di maggiore della Guardia Costiera libica; la motivazione del rilascio da parte del nuovo governo è “mancanza di prove”. A questo ha voluto rispondere l’inviato speciale dell’UNCHR Vincent Cochetel: “le prove sono in fondo al Mar Mediterraneo e in molti Paesi europei”. L’ipotesi è che la scarcerazione fosse uno dei prezzi da pagare per la tanto agognata pace; ciò che resta è che “il più pericoloso trafficante”, come definito dai magistrati italiani, è di nuovo a piede libero.
Conclusioni
Vale la pena porre l’accento sul tentativo di una parte della magistratura italiana di invalidare l’attuale accordo di riferimento tra Italia e Libia. Il 23 maggio 2019, durante le indagini relative al caso della nave Vos Thalassa, il Tribunale di Trapani aveva concluso che il Memorandum del 2017 fosse in contrasto con il principio di non-refoulment e di conseguenza, essendo questo annoverato tra i principi di ius cogens, che l’accordo fosse da ritenere nullo ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e incompatibile con l’art. 10 della Costituzione italiana. Tuttavia, la sentenza verrà ribaltata dalla Corte di Appello di Palermo nel giugno 2020 che, pur senza ricostruire le fonti normative sovranazionali ed interne, arriverà a conclusioni del tutto diverse rispetto al primo grado di giudizio.
Resta a questo punto da chiedersi quando la comunità europea prenderà coscienza dell’inadeguatezza di questi accordi e delle conseguenze umanitarie che ne derivano. Senza dubbio, molto è da imputare all’instabilità politica e sociale in Libia che ancora oggi non è libera da infiltrazioni criminali che rendono difficile ritenere affidabile l’interlocutore libico. La Libia, nonostante l’unità nazionale su carta, resta un paese spezzato e il rinnovo dello stanziamento dei fondi per la gestione migranti si è rivelato ormai fallimentare. Una valida soluzione sarebbe rappresentata dalla riapertura di canali legali. Non c’è dubbio che permettere a donne e uomini di raggiungere l’Europa e di rimanervi in maniera sicura e legale limiti la probabilità che questi si affidino ai trafficanti o che siano adescati nel tessuto criminale del nostro paese.
[1] Si intende qui sottolineare l’utilizzo della parola “accertamento”. Quella di rifugiato è una condizione che lo Stato deve limitarsi a constatare e la protezione ai richiedenti asilo non rappresenta una “gentile concessione” ma un obbligo nei confronti di un individuo che scappa da una situazione oggettiva di disagio. Tale principio è anche esplicitato nel Manuale dell’UNCHR sulle procedure e sui i criteri per la determinazione dello status di rifugiato (Ginevra, 1972).
[2] Firmata dall’Italia nel 1952 e ratificata nel 1954.
[3] Ratificato dall’Italia nel 1978.
[4] Il Comitato dei Diritti Umani è l’organo preposto al controllo sul rispetto del Patto che effettua giudizi sui rapporti periodici predisposti dalle parti contraenti. Seppur non vincolanti, i commenti generali e le osservazioni conclusive predispongono una linea interpretativa delle disposizioni contenute nel Patto.
[5] Così come esplicitamente chiarito dal Comitato dei Diritti Umani, in merito all’art. 7, nel Commento Generale n. 20 del Comitato dei Diritti Umani del 30 settembre 1992.
[6] Firmata dall’Italia nel 1985.
[7] La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, ratificata dall’Italia nel 1994.
[8] Resa esecutiva in Italia con la ratifica nel 1989.
[9] È quanto sostenuto, ad esempio, nella Decisione della Commissione EDU del 1975 nell’ambito del caso Cipro c. Turchia. La Turchia è stata condannata per violazioni dei diritti umani nell’area di Cipro Nord, territorio notoriamente sotto il controllo effettivo delle autorità turche.
[10] L’art. 3 della CEDU sancisce il divieto, inderogabile, di tortura e di trattamenti e pene inumani e degradanti.
[11] Caso-scuola a riguardo è rappresentato dal caso Soering c. Regno Unito in cui la Corte accerta la responsabilità di uno Stato parte per l’estradizione di un individuo che lo avrebbe esposto al rischio di trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU.
[12] Area of Freedom, Security and Justice (AFSJ)
[13] Art. 67 TFUE: “1. L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri. 2. Essa garantisce che non vi siano controlli sulle persone alle frontiere interne e sviluppa una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi. Ai fini del presente titolo gli apolidi sono equiparati ai cittadini dei paesi terzi […]”.
[14] Precedentemente Direttiva 2005/85/CE.
[15] Precedentemente Direttiva 2003/9/CE.
[16] Precedentemente Direttiva 2004/83/CE.
[17] Precedentemente Regolamento 2725/2000.
[18] Precedentemente Regolamento 343/2003.
[19] Che si rifà all’art. 4 del Protocollo 4 della CEDU secondo cui l’esame per l’espulsione deve avvenire sulla base di un esame individuale della condizione del richiedente.
[20] Il carrot and stick approach descrive un processo negoziale in cui un attore più influente ha la capacità di persuadere il secondo attore alternando ricompense e riconoscimenti con le “maniere forti”. Esempio emblematico di questo approccio è rappresentato dai rapporti tra Turchia e Unione Europea basati sul continuo stop e re-start del processo di ingresso della nazione all’interno dell’Unione. Nel caso dei paesi africani, la cui entrata nell’UE non rappresenta un’ipotesi, la carrot è da ritrovarsi nei development funds.
[21] Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista per la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di stupefacenti e di sostanze psicotrope ed all’immigrazione clandestina, Roma, 13 dicembre 2000.
[22] Protocollo tra la Repubblica Italiana e la Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, Tripoli 29 dicembre 2007 e Protocollo aggiuntivo tecnico-operativo al Protocollo di cooperazione tra la Repubblica italiana e la Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, Tripoli, 29 dicembre 2007.
[23] I ricorsi individuali di questo tipo sono permessi e disciplinati dall’art. 34 CEDU.
[24] Le stesse giustificazioni verranno avanzate dall’Italia anche dinnanzi al Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CEPT).
[25] Ai sensi dell’art. 89 UNCLOS non vi è la possibilità di proclamare la sovranità statale all’interno di acque internazionali.
[26] Ne è un esempio il Regolamento 656/2014 che stabilisce il divieto di refoulement verso paesi che non siano sicuri.
[27] Gli scontri mirati al sovvertimento del regime di Gheddafi portarono alla sua cattura e uccisione nell’ottobre del 2011.
[28] Lanciata dall’Unione Europea il 31 marzo 2020 con il preciso scopo di assicurare il rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che dal 2011 vietano il traffico di armi da e per la Libia.
[29] La creazione di una zona SAR Libica, riconosciuta dalla Organizzazione Internazionale del Mare nel 2018, è stata criticata aspramente da molti e diverse associazioni considerano il riconoscimento come un modo per ritardare i soccorsi e consentire i respingimenti. La lettera aperta delle associazioni all’IMO:
https://docs.google.com/document/d/1XBW_nWU6kbF7nkzxeMRWjO5a4W7Cp4KR8EYR-_PuGMU/edit
[30] Dalla approvazione del MoU del 2017, i migranti riportati in Libia sono circa 50.000.
[31] Amnesty International e Human Right Watch, nel loro rapporto alla Corte proprio nel caso S.s. v. Italia, lo hanno definito indirect or chain refoulement.
[32] Questo eventuale comportamento, poi verificatosi, era stato ipotizzato da Liguori dopo la sentenza Hirsi, immaginando che gli Stati avrebbero trovato un altro modo per non incorrere in responsabilità internazionali.
[33] Art. 16: “Uno Stato che aiuti o assista un altro Stato nella commissione di un atto internazionalmente illecito da parte di quest’ultimo è internazionalmente responsabile per siffatto comportamento se: a) quello Stato agisce così con la consapevolezza delle circostanze dell’atto internazionalmente illecito; e b) l’atto sarebbe internazionalmente illecito se commesso da quello Stato”.
[34] Art. 17: “Uno Stato che dia direttive ad un altro Stato e ne controlli il comportamento nella commissione di un atto internazionalmente illecito da parte di quest’ultimo è internazionalmente responsabile per quell’atto se: a) quello Stato agisce così con la consapevolezza delle circostanze dell’atto internazionalmente illecito; e b) l’atto sarebbe internazionalmente illecito se commesso da quello Stato.”
[35] Tra cui vi era anche il parlamentare Nicola Fratoianni come volontario.
[36] Designated Person Ashore.
[37] Una delle tre è affondata prima dei soccorsi, provocando un gran numero di dispersi.
[38] Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata (2006).
[39] Per la precisione, la scarsa, se non assente, protezione dei diritti individuali in Libia risale ad un periodo precedente alla guerra civile, come dimostrato dal report di Human Right Watch: Stemming the Flow: Abuses Against Migrants, Asylum Seekers and Refugees (2006).
[40] Traduzione.
[41] L’intervento a cui ci si riferisce è relativo alle domande poste al Ministro dell’Interno dal Panel di esperti sulla Libia delle Nazioni Unite in occasione della redazione di un report pubblicato l’8 marzo 2021.
[42] Tra questi vi è il Report del 1° giugno 2017 (S/2017/466) del Panel of Experts on Libia istituito dal Consiglio di Sicurezza e il Report di Amnesty International del 2017 Libya’s Dark Web of Collusion.
[43] Centro Accoglienza Richiedenti Asilo.
[44] Secondo alcune testimonianze, le imbarcazioni fermate dalla GCL sono quelle i cui organizzatori non hanno versato somme alla Guardia Costiera, al punto che un migrante intervistato da Amnesty nel luglio 2017 in Sicilia ha sostenuto “If they [LCG] take a boat, it means that this boat did not pay.”
[45] La tendenza a lasciare andare i migranti è in costante aumento dato il sovraffollamento dei centri detentivi, come affermato dal colonello della Guardia Costiera di Tripoli Abdallah Toumia al panel di esperti delle Nazioni Unite.
[46] Avendo dovuto pagare il viaggio fino in Libia a diverse organizzazioni criminali, terroristiche o tribù al fine di attraversare il viaggio, piuttosto estenuante, lungo il continente africano.
[47] Il Professor Ranieri Razzante è stato intervistato a Roma, il 22 Gennaio 2020.
[48] Si tenga presente che questi centri governativi, teoricamente, dovrebbero ospitare i richiedenti asilo per un massimo di sei mesi ma è estremamente frequente che la permanenza si prolunghi molto di più a causa di lente strutture burocratiche, negligenza e grande carico di lavoro delle autorità.
[49] Il CARA di Mineo è stato ufficialmente chiuso nel luglio 2019 su volontà dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini ed ebbe come effetto l’incremento di migranti “irregolari”.
[50] L’operazione prende il nome da un maresciallo del Raggruppamento Operativo Speciale che ha perso la vita durante le indagini.