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Art. 51 - Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere

1. L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità.

2. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine.

3. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo.

4. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.

Rassegna di giurisprudenza

Ai fini della configurazione di una causa di giustificazione, l’imputato è gravato da un mero onere di allegazione, essendo tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze altrimenti ignoti che siano in astratto idonei, ove riscontrati, a configurare in concreto la causa di giustificazione invocata; ove tale onere di allegazione sia positivamente adempiuto dall’imputato, l’onere di dimostrare la non configurabilità della causa di giustificazione invocata grava sulla parte pubblica e, nei casi in cui residui il dubbio sull’esistenza di essa, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato (nella fattispecie, avente ad oggetto l’occupazione abusiva di un alloggio di edilizia popolare, la Corte, in applicazione del principio enunciato, ha disposto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata) (Sez. 2, 35024/2020).

Esercizio di un diritto

…Diritto di critica e di cronaca

L'esimente del diritto di cronaca è compatibile con il delitto di ricettazione (Sez. 2, 38277/2019).

È compatibile con il disposto dell'art. 10 CEDU l'applicazione dell'aggravante ex art. 3, comma 1, L. 205/1993 (ora art. 604-quater), in relazione al reato di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), L. 654/1975 (ora art. 604-bis) commesso da un parlamentare mediante dichiarazioni rese nel corso di un’intervista radiofonica, volgari ed irridenti nei confronti di esponenti dell’etnia Rom, ripetutamente associati ad una condizione di illegalità condivisa, per via genetica, dall’intero popolo, configurandosi in tal caso una manifestazione d’odio funzionale alla compressione dei principi di eguaglianza e libertà rientrante nelle "ipotesi eccezionali" individuate dalla giurisprudenza della Corte EDU, in presenza delle quali si giustifica l’ingerenza statuale punitiva nei confronti della libertà di espressione (Sez. 5. 32862/2019).

Non integra il delitto di diffamazione la condotta di chi invii una segnalazione, ancorché contenente espressioni offensive, alle competenti autorità, volta ad ottenere un intervento per rimediare ad un’illegittimità amministrativa, mediante attivazione dei poteri di autotutela, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51, “sub specie” di esercizio del diritto di critica, anche in forma putativa, laddove l’agente abbia esercitato il diritto di critica ed assolto l’onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti (Sez. 5, 34831/2020).

In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza si esprime ormai in termini consolidati in riferimento ai requisiti caratterizzanti il necessario bilanciamento dei valori in conflitto, individuandoli nell’interesse sociale, nella continenza del linguaggio e nella verità del fatto narrato. Nella delineata prospettiva, è stato evocato anche il parametro dell’attualità della notizia, nel senso che una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico, e dunque nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte (Sez. 5, 39503/2012), anche nel campo d’indagine dei fenomeni sociologici. Con specifico riferimento al diritto di cronaca giudiziaria, ai fini della configurabilità dell’esimente, il giornalista deve esaminare e controllare attentamente la notizia in modo da superare ogni dubbio (Sez. 5, 35702/2015) e la cronaca giudiziaria è lecita quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale, mentre ove informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica (Sez. 1, 7333/2008). Di guisa che la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste qualora essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, sicché è sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria (Sez. 5, 43382/2010: la Corte ha altresì precisato che il criterio della verità della notizia deve essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo e non già secondo quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale). Il diritto di cronaca, che può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato e della bontà della fonte per esigenze di velocità, presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, e, pertanto, non ricorre quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo, in relazione ai quali è legittimo pretendere una attenta verifica di tutte le fonti disponibili, con la conseguenza che, laddove si dà conto di vicende giudiziarie, incombe l’obbligo di accertare e rappresentare compiutamente lo sviluppo degli esiti processuali delle stesse (Sez. 1, 13941/2015). Siffatta impostazione ermeneutica si pone in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica». In riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la ‘verità del fatto narrato’ per ritenere ‘giustificabile la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva ‘eccessiva, non giustificabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali. Nella delineata prospettiva si pone la sentenza della Corte EDU, Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013, che costituisce la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 CEDU nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione). Deve essere, pertanto, affermato il principio di diritto per cui in tema di diffamazione a mezzo stampa, non costituisce reato la formulazione, nell’ambito di un’inchiesta giornalistica, di affermazioni e ricostruzioni che rechino valutazioni offensive della reputazione dei soggetti coinvolti, quando i dati di cronaca assumano una funzione meramente strumentale per supportare un giudizio critico di contenuto diverso e più ampio, di attuale e pubblico interesse; l’attualità della notizia deve, infatti, essere riguardata non con riferimento al fatto ma all’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e, quindi, alla attitudine della notizia a contribuire alla formazione della pubblica opinione, di guisa che ognuno possa liberamente orientarsi, con la conseguenza che solo una notizia dotata di utilità sociale può perdere rilevanza penale, ancorché capace di ledere l’altrui reputazione, e tale utilità è necessariamente connotata dall’attualità dell’interesse alla pubblicazione (Sez. 5. 2092/2019).

In tema di diffamazione a mezzo stampa, il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono (Sez. 5, 6062/1995).

In materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato (Sez. 5, 48698/2014; Sez. 5, 832/2006), occorre procedere alla verifica delle espressioni usate dall’imputato, secondo quanto emerge dal capo di imputazione, dal testo della pubblicazione incriminata, dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado, alla quale è fatto costante richiamo nell’atto di impugnativa, utilizzando il criterio della loro contestualizzazione (Sez. 5, 562/2019).

Integra il reato di diffamazione a mezzo stampa la condotta del giornalista che, in un articolo pubblicato, utilizzando insinuazioni generiche, attribuisce alla persona offesa la commissione di fatti illeciti non meglio specificati e privi di qualsiasi riferimento determinato, in maniera idonea ad ingenerare nel lettore medio la convinzione che il soggetto diffamato si sia reso autore di una qualsiasi condotta connotata da illiceità (Sez. 5, 4298/2016).

La scriminante del diritto di critica non è configurabile qualora manchi il requisito della verità del fatto riferito e costituente oggetto della valutazione critica, il quale sia, pertanto, privo di riscontro nella realtà (Sez. 5, 3389/2005).

La critica si articola in due distinti momenti: l’uno, rappresentato dall’«esposizione del fatto attribuito all’uomo pubblico»; l’altro, costituito dalle «critiche che alle parole pronunciate o ai comportamenti assunti dalla persona oggetto di attenzione vengono rivolte». Donde, è certo che «il fatto che costituisce il presupposto delle espressioni critiche debba essere vero, perché non può essere assolutamente consentito attribuire ad una persona comportamenti mai tenuti o frasi mai pronunciate e poi esporlo a critica come se quelle parole e quei fatti fossero davvero a lui attribuibili»: di conseguenza, «in ordine alla verità del fatto che costituisce il presupposto della critica non è ravvisabile nessuna differenza apprezzabile tra l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, dal momento che entrambe le esimenti richiedono la verità del fatto narrato» (Sez. 1, 35646/2008).

Il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti» (Sez. 5, 7499/2000).

Anche con riferimento alla scriminante dell’esercizio del diritto di critica «un nucleo di veridicità è comunque esigibile, in quanto, diversamente, la critica sarebbe pura congettura e possibile occasione di dileggio e mistificazione» (Sez. 5, 43403/2009).

Ai fini dell’operatività della scriminante, non si richiede che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, ma che «il nucleo ed il profilo essenziale di essi non sia stato strumentalmente travisato e manipolato» (Sez. 1, 4496/2008).

Sussiste l’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica qualora l’espressione usata consista in un dissenso motivato, anche estremo, rispetto alle idee ed ai comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni non obiettive, purché non trasmodi in un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale dell’avversario (Sez. 5, 46132/2014).

È configurabile la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di critica quando, pur risultando il fatto oggetto dell’elaborazione critica obiettivamente falso, il giornalista abbia assolto all’onere di controllare accuratamente il fatto riferito in guisa che l’errore sulla verità dello stesso non sia frutto di negligenza, imperizia o colpa non scusabile (Sez. 1, 40930/2013).

L’esercizio del diritto di cronaca integra una causa di giustificazione che, escludendo l’illiceità penale del fatto, è estensibile al coimputato (Sez. 5, 54508/2018).

 

Adempimento di un dovere

L’adempimento di un dovere, per valere come causa di giustificazione di un comportamento contra legem, deve essere imposto da una norma giuridica e, quindi, deve rientrare nell’ambito dei doveri propri del diritto pubblico, onde i soggetti che ne possono beneficiare sono i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio ed i privati esercenti un servizio di pubblica necessità, oppure deve essere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità sicché, in questo caso, può valere come scriminante ma presuppone un rapporto di subordinazione che trovi fondamento nel diritto pubblico (Sez. 4, 1458/1968). 

Ne consegue che, in materia di cause di giustificazione, non è configurabile la scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51), qualora l’agente si avvale di una situazione giuridica esercitabile solo previa autorizzazione dell’Autorità senza formulare alcuna richiesta di rilascio del provvedimento autorizzativo (Sez. 3, 23484/2014, in tema di esercizio di un diritto), giacché l’adempimento di un dovere scrimina nei limiti in cui esso è riconosciuto, dovendosi verificare, per l’applicabilità della scriminante, una convergenza di norme che, di contenuto incompatibile, siano in conflitto tra loro (Sez. 1, 9368/1985) situazione che si verifica quando un medesimo soggetto sia destinatario, in una data situazione concreta, di due doveri (di cui almeno uno imposto da una norma incriminatrice) ed il cui superamento non può essere affidato ad autonome iniziative dell’agente, perché la condotta deve essere imposta, per espressa previsione normativa, da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell’autorità.

L’articolo 51 dichiara, infatti, non punibile il fatto commesso nell’adempimento di un dovere giuridico, cosicché l’applicazione della disposizione scriminante presuppone già risolto, in senso favorevole alla norma attributiva del dovere, il conflitto di doveri che si instaura tra tale norma e la norma incriminatrice (Sez. 3, 48263/2018).

Per quanto riguarda la scriminante dell’adempimento del dovere prevista dall’art. 51, perché se ne possa riconoscere il legittimo esercizio è necessario che sia rispettato il principio di proporzione, inteso come necessario bilanciamento tra interessi contrapposti in relazione alla specifica situazione (Sez. 5, 45350/2018).

L’adempimento di un dovere, per valere come causa di giustificazione di un comportamento contra legem, deve essere imposto da una norma giuridica e, quindi, deve rientrare nell’ambito dei doveri propri del diritto pubblico, onde i soggetti che ne possono beneficiare sono i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio ed i privati esercenti un servizio di pubblica necessità, oppure deve essere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità sicché, in questo caso, può valere come scriminante ma presuppone un rapporto di subordinazione che trovi fondamento nel diritto pubblico.

Ne consegue che, in materia di cause di giustificazione, non è configurabile la scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51), qualora l’agente si avvale di una situazione giuridica esercitabile solo previa autorizzazione dell’Autorità senza formulare alcuna richiesta di rilascio del provvedimento autorizzativo (Sez. 3, 23484/2014, in tema di esercizio di un diritto), giacché l’adempimento di un dovere scrimina nei limiti in cui esso è riconosciuto, dovendosi verificare, per l’applicabilità della scriminante, una convergenza di norme che, di contenuto incompatibile, siano in conflitto tra loro (Sez. 1, 9368/1985), situazione che si verifica quando un medesimo soggetto sia destinatario, in una data situazione concreta, di due doveri (di cui almeno uno imposto da una norma incriminatrice) ed il cui superamento non può essere affidato ad autonome iniziative dell’agente, perché la condotta deve essere imposta, per espressa previsione normativa, da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell’autorità.

L’articolo 51 dichiara, infatti, non punibile il fatto commesso nell’adempimento di un dovere giuridico, cosicché l’applicazione della disposizione scriminante presuppone già risolto, in senso favorevole alla norma attributiva del dovere, il conflitto di doveri che si instaura tra tale norma e la norma incriminatrice (Sez. 3, 48263/2018).

L’art. 54 bis DLGS 165/2001, introdotto dall’articolo 1, comma 51, DLGS 190/2012, nel testo aggiornato dall’articolo 1 L.179/2017, recante disciplina della “segnalazione di illeciti da parte di dipendente pubblico”, intende tutelare il soggetto, legato da un rapporto pubblicistico con l’amministrazione, che rappresenti fatti antigiuridici appresi nell’esercizio del pubblico ufficio o servizio. L’istituto, che presenta analogie con altre figure di ambito internazionale (da cui deriva anche il termine whistleblowing), si conforma strutturalmente all’art. 361 ma se ne distingue in riferimento ai presupposti ed all’ambito di operatività, nella doppia declinazione della tutela del rapporto di lavoro e del potenziamento delle misure di prevenzione e contrasto della corruzione.

La segnalazione in esame risponde, difatti, ad una duplice ratio, consistente da un lato nel delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnalata illeciti e, dall’altro, nel favorire l’emersione, dall’interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione. In riferimento al primo profilo, l’ultima parte del comma 1 dell’articolo 54-bis prevede che il dipendente virtuoso non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati alla segnalazione effettuata, che deve avere ad oggetto una condotta illecita, non necessariamente penalmente rilevante.

Quanto ai destinatari della comunicazione, la stessa può essere rivolta all’autorità giudiziaria ordinaria, alla magistratura contabile ed al superiore gerarchico del segnalatore. In riferimento all’oggetto, la formula riferita al contesto di acquisizione della notizia (“di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”) esprime che il fatto oggetto di segnalazione possa riguardare  a fini di tutela del dipendente  solo informazioni acquisite nell’ambiente lavorativo. Alle condizioni date, i commi 2 e 4 dell’articolo 54-bis prevedono un articolato sistema di protezione dell’anonimato del segnalante, in una prospettiva palesemente incentivante, escludendo la materia dalla normativa in tema di accesso civico e dall’ambito di applicazione della L. 241/1990 e limitando la rivelazione dell’identità ai soli casi di indispensabilità per la difesa dell’incolpato.

Con l’orientamento n. 40 dell’ANAC, il sistema è stato esteso anche mediante la previsione di informativa in favore del responsabile anticorruzione che viene, in tal modo, a potenziare il ruolo centrale, nell’ambito della singola organizzazione pubblica, in materia di prevenzione e contrasto alla corruzione. Così sinteticamente delineata la disciplina invocata dal ricorrente quale fonte di un dovere giuridico a cui l’imputato avrebbe inteso ottemperare, emerge, all’evidenza, come la normativa citata si limiti a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge.

Siffatta evidente limitazione dell’articolato normativo alla tutela del segnalatore e  soprattutto  la mancata previsione di un obbligo informativo non consente di ritenerne la configurazione neanche in forma putativa, non profilandosi come scusabile alcun errore riguardo l’esistenza di un dovere che possa giustificare l’indebito utilizzo di credenziali d’accesso a sistema informatico protetto  peraltro illecitamente carpite in quanto custodite ai fine di tutelarne la segretezza  da parte di soggetto non legittimato.

In tal senso, l’insussistenza dell’invocata scriminante dell’adempimento del dovere è fondata sui medesimi principi che, in tema di “agente provocatore”, giustificano esclusivamente la condotta che non si inserisca, con rilevanza causale, nell’ iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui (Sez. 5, 35792/2018).

In tema di omesso versamento IVA, non è configurabile il reato di cui all’art. 10-ter DLGS 74/2000 per il mancato versamento del debito IVA sorto prima dell’apertura della procedura di concordato preventivo, nel caso in cui, in data antecedente alla scadenza del debito, sia intervenuto un provvedimento del tribunale che abbia vietato il pagamento di crediti anteriori, essendo configurabile la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità di cui all’art. 51, derivante da norme poste a tutela di interessi aventi anche rilievo pubblicistico, equivalenti a quelli di carattere tributario (Sez. 4, 52542/2017).

Secondo un risalente ma ancora valido indirizzo della giurisprudenza di legittimità, l’art.51, che trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche e di disubbidire agli ordini legittimi della pubblica autorità, considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se siano commessi per adempiere ad un dovere derivante da tali norme ed ordini. Tuttavia, gli ordini, come si evince dalla precisa e chiara formulazione della legge, debbono emanare da una pubblica autorità, il che significa che i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico.

Nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione sopra indicata, perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge (Sez. 6133/1972, richiamata da Sez. 3, 3394/2017).

 

Altra casistica

La condotta del privato che collabori ad un’operazione di polizia in veste di agente provocatore risulta scriminata se risulta che egli abbia effettivamente agito in forza di un ordine dell’autorità e se risulta che il suo contributo non abbia travalicato i limiti di un’attività di mero controllo, osservazione e contenimento della condotta criminosa altrui, dovendosi escludere che la condotta dell’agente possa inserirsi con rilevanza causale nell’iter criminis (Sez. 2, 51962/2017).

All’obbligo che grava sul committente o sul costruttore di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo non corrisponde un vero e proprio diritto soggettivo protetto in modo diretto ed individuale, tale da comportare il sacrificio di tutti gli altri interessi in contrasto con esso (Sez. 5, 55876/2018).

In tema di falso, il pubblico ufficiale estensore dell’atto non può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto (art. 51), “sub specie” del principio “nemo tenetur se detegere”, per avere attestato il falso al fine di non fare emergere la propria penale responsabilità in ordine all’episodio in esso rappresentato, non potendo la finalità probatoria dell’atto pubblico essere sacrificata all’interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto.

Il principio del nemo tenetur se detegere ha natura di diritto d’ordine processuale; il valore dell’atto pubblico trascende le mere finalità difensive del soggetto indagato ed attinge una serie di interessi  primo fra tutti quello concernente la veridicità erga omnes di quanto attestato dal pubblico ufficiale  che non possono essere pregiudicati dalle prospettive del singolo di sottrarsi ai rigori della legge penale; il principio in questione comporta la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva, non comprendendo il diritto di difesa anche il diritto di arrecare offese ulteriori (Sez. 5, 12697/2015).

L’imputato può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni accusatorie mosse nei suoi riguardi, ed in tal caso l’accusa di calunnia, implicita in tale condotta, integra un’ipotesi di legittimo esercizio del diritto di difesa e si sottrae perciò alla sfera di punibilità in applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 51.

La questione attiene tuttavia alla individuazione del limite entro il quale l’imputato, nel negare la verità delle dichiarazioni accusatorie, travalichi il nesso funzionale tra tale negazione e l’attività difensiva. In alcune pronunce si afferma che il nesso indicato sarebbe superato quando l’imputato non si limiti a ribadire la insussistenza delle accuse a suo carico, ma assuma ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l’accusatore - di cui pure si conosce l’innocenza - nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto, sicché da ciò derivi la possibilità dell’inizio di una indagine penale da parte dell’autorità (Sez. 6, 18755/2015).

Si è fatto già notare in giurisprudenza come tuttavia non assuma decisiva, al fine di ritenere slegata la dichiarazione accusatoria dall’esercizio del diritto di difesa, che la falsa dichiarazione accusatoria, per essere scriminata, sia “generica” (Sez. 6, 1767/2013), “non accompagnata, cioè, da elementi fattuali circostanziali tali da farla apparire come vera”, ovvero che dalle dichiarazioni discenda la “possibilità di inizio di un procedimento penale”, atteso che se il fatto oggetto della falsa incolpazione fosse strutturalmente inidoneo ad originare un procedimento penale, il reato di calunnia di per sé, oggettivamente, non sussisterebbe e, quindi, il tema della scriminante dell’esercizio del diritto di difesa non avrebbe ragione di porsi.

Pare condivisibile l’indirizzo secondo cui il criterio di stretta correlazione funzionale esige “che il falso addebito sia formulato in termini che non eccedano l’utilità, l’essenzialità per una efficace confutazione dell’accusa, indipendentemente dal grado di articolazione dell’indicazione accusatoria mendace” (Sez. 6, 14042/2015). La correlazione funzionale, di cui si è detto, deve essere valutata con riferimento al caso concreto: essa va esclusa quando il contenuto dell’attività difensiva sia non necessitato, sia cioè non privo di ragionevoli alternative.

L’attività decettiva deve essere contenutisticamente vincolata, una volta maturata, da parte dell’interessato, la scelta di contestazione dell’accusa: “L’affermazione infondata di colpa a carico di altri, sia essa esplicita od implicita, deve risultare in sostanza priva di ragionevoli alternative quale mezzo di negazione dell’addebito, a prescindere dal grado della sua specificazione e fermo restando il divieto di ogni attività decettiva che esuli dall’enunciazione della falsa accusa “essenziale (Sez. 6, 44886/2018).

L’art. 72, comma 2 DPR 309/1990 consentiva l’uso terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope, debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto, previsioni oggi ampliate per effetto delle normative regionali che hanno esteso la possibilità delle prescrizioni medicinali, rendendo possibile l’accesso ai trattamenti terapeutici a base di farmaci derivati dai cannabinoidi per finalità palliative, ma che non hanno comportato la indifferenziata legalizzazione del possesso di sostanze stupefacenti derivanti dai cannabinoidi.

Le disposizioni adottate disciplinano le modalità ed i presupposti della prescrizione e somministrazione di tali farmaci, che può essere fatta direttamente dai medici di base, anche con trattamento domiciliare ponendo i costi a carico del servizio sanitario nazionale, con l’intento specifico di tutelare il diritto alle cure per tutti i pazienti, pur ribadendo che i preparati contenenti sostanze stupefacenti vanno prescritti esclusivamente «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente».

A disposizione del paziente sono posti, dunque, non genericamente le sostanze stupefacenti tal quali ma, sulla base di un opportuno piano terapeutico redatto dal medico, specifiche formulazioni farmaceutiche ad un dosaggio standardizzato e riproducibile, che assicurano l’efficacia terapeutica e tutelano dal rischio di effetti collaterali, laddove, invece, l’assunzione degli stessi principi attivi, nel caso del ricorrente attraverso il fumo, determina l’assunzione di dosaggi non riproducibili né prevedibili, in quanto dipendenti da diverse variabili individuali ed ambientali.

La prescrizione del medico e la somministrazione di specifiche formulazioni standardizzate  ieri come oggi, nel pur mutato quadro di riferimento che ha esteso la prescrittibilità anche per finalità palliative  servono a distinguere l’impiego medico, per le finalità terapeutiche e palliative, dall’ abuso a scopo ricreativo e condizionano l’esercizio del diritto.

L’esercizio di tale diritto, implica che il diritto stesso, inteso in senso lato ossia come mera situazione giuridica attiva, sia esercitato secondo le forme previste e che, con riguardo alla fattispecie in esame, non si risolve nella libera coltivazione e auto prescrizione di sostanze stupefacenti (Sez. 7, 45922/2018).

Il rifiuto al prelievo ematico finalizzato all’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza non rientra tra i diritti fondamentali della persona, costituzionalmente garantiti, e non può essere invocato come esimente ai sensi dell’art. 51 (Sez. 4, 49367/2018).

La causa di non punibilità prevista dall’art. 598 e la scriminante di cui all’art. 51 operano su piani tra loro differenti: la prima non escludendo l’antigiuridicità del fatto ma solo l’applicazione della pena e ricomprendendo anche condotte di offesa non necessarie, purché inserite nel contesto difensivo; la seconda ricollegandosi, invece, all’esercizio del diritto di difesa e richiedendo il requisito della necessarietà ed il rispetto dei limiti di proporzionalità e strumentalità (in applicazione del principio, la Corte ha precisato che le offese non punibili ai sensi dell’art. 598 sono solo quelle che si riferiscono all’oggetto della causa ed hanno una qualche finalità difensiva) (Sez. 5, 14542/2017).

Quando l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato è stata pronunciata per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, o per la presenza di una causa di giustificazione diversa da quella di cui all’art. 51 o per un’altra ragione, la sentenza non ha efficacia di giudicato nel giudizio di danno e spetta al giudice civile o amministrativo il dovere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del giudizio penale (SU, 29.5.2008).

La condotta di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato da parte del cittadino straniero già espulso non è scriminata dalla necessità di ricongiungersi al coniuge non legalmente separato o a un altro dei familiari indicati al comma 1 dell’art. 29 DLGS 286/98, atteso che tale necessità può eventualmente legittimare una richiesta di autorizzazione (nullaosta) nelle forme e nei termini prescritti dal comma 7 del decreto citato (Sez. 1, 265/2012).