Il divieto di chiedere la risoluzione ex art. 1453 comma 2 c.c.: dubbi di legittimità

Contratto
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Il divieto di chiedere la risoluzione ex art. 1453 comma 2 c.c.: dubbi di legittimità

 

La norma contenuta nell’art. 1453 comma 2 c.c., in base alla quale l’adempimento non può essere richiesto al Giudice dopo che sia stata domandata la risoluzione del contratto, appare illegittima per contrasto con gli artt. 112, 115 e 306 c.p.c. .

The rule contained in the art. 1453 paragraph 2 of the Civil Code, according to which compliance cannot be requested from the Judge after the termination of the contract has been requested, appears illegitimate due to conflict with the articles. 112, 115 and 306 c.p.c. 

 

L’art. 1453 comma 2 c.c. stabilisce che “la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione”.

Appare opportuno mettere tale norma in correlazione con quella contenuta nell’art. art. 1456 comma 1 c.c., il quale prevede che “i contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite”.

Ai sensi dell’art. 1456 comma 2 c.c., “la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all'altra che intende valersi della clausola risolutiva”. Non è sufficiente, ai fini della risoluzione, che al contratto sia stata apposta una clausola risolutiva espressa, ma è necessario che la controparte, la quale si trova adesso a poter invocare a proprio favore tale clausola, dichiari espressamente di volersene avvalere.

E’ infatti possibile che essa non intenda sfruttare tale strumento di tutela contrattuale originariamente previsto, ma che, al contrario, voglia continuare a chiedere alla parte di adempiere e che quindi, nonostante l’apposizione della clausola sopra citata, voglia perseguire un interesse opposto a quello a cui quest’ultima era finalizzata.

Dal raffronto tra le due norme (art. 1453 comma 2 e 1456), emerge quindi che mentre la proposizione della domanda giudiziale di risoluzione determina una scelta irrevocabile, in quanto poi non si può più chiedere alla parte di adempiere, invece l’apposizione di una clausola risolutiva espressa non comporta un vincolo a chiedere la risoluzione, in quanto la parte, la quale sarebbe legittimata a farla valere, potrebbe, in modo del tutto legittimo, preferire continuare a richiedere l’adempimento, avendo essa ancora interesse alla corretta esecuzione del contratto ad opera della controparte.

La ratio di tale differenza potrebbe essere individuata nel fatto che la proposizione di una domanda giudiziale con cui si chiede la risoluzione del contratto, siccome innesca l’avvio di un procedimento da parte dell’Autorità giurisdizionale, la quale si trova ad essere investita di altri procedimenti, deve necessariamente vincolare il ricorrente a perseguire lo scopo della domanda stessa, senza che quest’ultima possa essere tramutata in richiesta di adempimento. Il semplice fatto di aver avviato un contenzioso mirando ad una determinata finalità (domanda di risoluzione), vieta all’attore di modificare (da richiesta di risoluzione a richiesta di adempimento) tale finalità.

Tuttavia, la ratio non sembra poter essere questa in quanto, se così fosse, dovrebbe valere anche il discorso inverso: onde evitare un cambio di direzione dell’attività giurisdizionale, e pertanto un aggravio del relativo procedimento, non dovrebbe essere possibile neanche chiedere la risoluzione quando sia stata proposta domanda giudiziale per ottenere l’adempimento; invece, l’art. 1453 comma 2 c.c. prevede questa possibilità.

Probabilmente, allora, la suddetta ratio risiede in ciò.

Tizio, una volta che abbia domandato al Giudice la risoluzione del contratto, non può più chiedere a Caio di adempiere, in quanto la richiesta di risoluzione presuppone che Tizio abbia definitivamente accertato l’inidoneità di Caio a soddisfare i suoi interessi contrattuali.

Quindi il principio è quello della coerenza: se si instaura un giudizio per ottenere la cessazione anticipata del rapporto (con annessi danni), poi non si può, nell’ambito del medesimo giudizio, chiedere al debitore di eseguire la prestazione. Ciò in quanto, ogni volta che si cita qualcuno in giudizio, occorre essere animati da un “interesse ad agire”, come prevede l’art. 100 c.p.c., e tale “interesse” si misura in base all’oggetto della domanda: se si chiede la risoluzione, è perché si ha interesse esclusivamente a questa, e non ad altro, e quindi poi non è possibile modificare la domanda richiedendo l’adempimento, ossia una cosa alternativa a quello che si era chiesto all’inizio.

Tuttavia, anche tale interpretazione suscita perplessità, per le ragioni che seguono.

L’art. 112 cpc prevede che “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”.

Il Giudice non può concedere alla parte un qualcosa che questa non ha per nulla chiesto (“limiti della domanda”), in quanto è onere della parte stessa specificare quale interesse voglia giudizialmente soddisfare.

Quindi ciò vuol dire che il Giudice è invece tenuto a pronunciarsi su tutto ciò (“tutta la domanda”) che la parte abbia proposto, e pertanto anche su una domanda successiva (la richiesta di adempimento) la quale abbia sostituito la domanda originaria (la risoluzione). Il divieto di pronunciarsi, infatti, riguarda solo ciò che la parte non abbia mai chiesto, e non anche ciò che la parte abbia chiesto in sostituzione alla domanda originaria, come accade nel caso dell’art. 1453 comma 2 c.c. .

L’art. 115 cpc stabilisce che “il giudice deve porre a fondamento della decisione … i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.

Tizio prima aveva chiesto la risoluzione, adesso invece chiede al Giudice di condannare Caio ad adempiere; Caio non contesta la pretesa di Tizio all’adempimento; il Giudice può benissimo accogliere la richiesta di adempimento in quanto, per l’appunto, non contestata.

Ai sensi dell’art. 306 c.p.c.,il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. L'accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni”.

Tizio ha chiesto al Giudice di dichiarare risolto il contratto e di condannare Caio al risarcimento dei danni. Tizio, però, poi decide di rinunciare a tale domanda. Tale rinuncia, tuttavia, non potrà determinare l’estinzione del giudizio nel caso in cui Caio non la accetti. E per quale ragione Caio non dovrebbe accettarla? Perché egli intende a sua volta chiedere al Giudice di condannare Tizio stesso al risarcimento del danno oppure all’adempimento della prestazione, e quindi lui ha interesse a che il giudizio prosegua.

Allora il discorso potrebbe essere questo:

Come Tizio, il quale abbia rinunciato ad ottenere una sentenza che dichiarasse risolto il contratto, è comunque costretto a rimanere nel giudizio nel caso in cui Caio voglia a sua volta agire contro di lui, così Tizio stesso dovrà essere considerato libero di modificare la domanda (da richiesta di risoluzione a richiesta di adempimento) nel caso in cui Caio non si opponga a tale modifica.

Se il consenso del debitore (Caio) è essenziale al fine di consentire al creditore rinunciante (Tizio) di liberarsi dal processo, dovrebbe allora essere previsto, in base al principio di parità tra le parti, che il medesimo creditore possa modificare la propria domanda giudiziale nel caso in cui il debitore non si opponga a ciò e quindi manifesti il proprio consenso.

Di conseguenza, la norma contenuta nell’art. 1453 comma 2 c.c., in base alla quale l’adempimento non può essere richiesto al Giudice dopo che sia stata domandata la risoluzione del contratto, appare illegittima per contrasto con gli artt. 112, 115 e 306 c.p.c. .