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La vendita di cosa altrui ex art. 1479 C.C.

vendita di cosa altrui
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La vendita di cosa altrui ex art. 1479 C.C.

 

Nella vendita di cosa altrui ex art. 1479 c.c., nel caso in cui il venditore, pur essendosi attivato verso il terzo proprietario della cosa al fine di far acquisire la proprietà al compratore, non sia riuscito in tale intento, il compratore non dovrebbe considerarsi obbligato ad agire per la risoluzione, in quanto, se così fosse, l’azione di rivendica esercitabile da parte del terzo non avrebbe ragione di essere.

In the sale of another's property pursuant to art. 1479 of the Civil Code, in the event that the seller, despite having taken action towards the third owner of the thing in order to have the buyer acquire ownership, has not succeeded in this intent, the buyer should not consider himself obliged to act for the resolution, as , if this were the case, the claim action exercisable by the third party would have no reason to exist.

La vendita di cosa altrui ex art. 1479 c.c. non può essere qualificata come negozio nullo per illiceità della causa, in quanto, anche se il diritto di proprietà è sancito dall’art. 42 Costituzione, tale norma demanda alla legge i modi di acquisto della stessa, e pertanto la disciplina dell’art. 1479 c.c., che qualifica il contratto come “risolubile” (ossia come valido), deve essere fatta salva.

The sale of other people's property pursuant to art. 1479 c.c. cannot be classified as a void transaction due to the illicit nature of the cause, since, even if the right of ownership is sanctioned by art. 42 of the Constitution, this rule delegates to the law the methods of purchasing it, and therefore the regulation of the art. 1479 of the Civil Code, which qualifies the contract as "resolvable" (i.e. as valid), must be preserved.

L’art. 1479 comma 2 c.c., il quale prevede che il compratore ha diritto alla restituzione dell’intero prezzo pagato anche nel caso in cui la cosa si sia deteriorata, è da considerarsi come legittimo in quanto, ai sensi dell’art. 2037 c.c., neanche il terzo, effettivo proprietario della cosa, potrà esigere dal compratore una somma pari alla minore utilità causata dal deterioramento, nel caso in cui il compratore non abbia conseguito dall’uso della cosa alcun arricchimento.

The art. 1479 paragraph 2 of the Civil Code, which provides that the buyer has the right to a refund of the entire price paid even if the item has deteriorated, is to be considered legitimate since, pursuant to art. 2037 of the Civil Code, not even the third party, actual owner of the thing, will be able to demand from the buyer a sum equal to the reduced utility caused by the deterioration, in the event that the buyer has not obtained any enrichment from the use of the thing.

Ai sensi dell’art. 1479 c.c., “il compratore può chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l'ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà”.

La conoscenza, da parte del venditore, dell’altruità della cosa, non è sufficiente a rendere il contratto invalido, ossia “annullabile”. La norma infatti parla di “risoluzione”, e quindi ciò indica che il contratto è stato stipulato validamente. Ciò, del resto, è coerente con l’art. 1478 comma 2 c.c., a norma del quale “il compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa”.

Non si dice che il contratto è nullo od annullabile: si dice semplicemente che i suoi effetti sono subordinati al fatto che il venditore acquisti il diritto di proprietà dal terzo, il quale, al momento della stipula, è ancora il vero ed unico proprietario della cosa.

La domanda è questa: quando si afferma che, in base all’art. 1478 comma 2 c.c., l’effetto del contratto – ossia il trasferimento della proprietà – è subordinato al fatto che il venditore acquisti la proprietà del bene, si intende dire che si tratta di un negozio sottoposto a condizione sospensiva oppure a condizione risolutiva?

Se ci si basa sull’art. 1478 comma 2 c.c., si deve ritenere che la condizione sia sospensiva, in quanto, se il compratore diviene proprietario solo quando il venditore avrà acquistato la proprietà, ciò significa che il compratore, prima di quel momento, non essendo proprietario, non può vantare alcun diritto sul bene.

Se, però, ci si basa sull’art. 1479 c.c., si deve ritenere che la condizione sia risolutiva, in quanto si parla di “risoluzione”, e quindi sembrerebbe che intanto il contratto sia produttivo di effetti, ossia trasferisca effettivamente la proprietà al compratore. Tuttavia, ciò è vero solo all’apparenza perché il trasferimento della proprietà al compratore avviene solo se il venditore gliene fa acquistare la proprietà, e quindi ciò è la conferma che si tratta di una condizione sospensiva.

Deve, pertanto, applicarsi l’art. 1356 c.c., a norma del quale “in pendenza della condizione sospensiva l'acquirente di un diritto può compiere atti conservativi”.

A tale riguardo, l’art. 1479 c.c. parla di “spese e pagamenti legittimamente fatti” dal compratore, nonché di “spese necessarie, utili e voluttuarie” sostenute dal medesimo, il che si attaglia perfettamente alla nozione di “atti conservativi”.

Ai sensi dell’art. 1359 c.c.,la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa”.

Il venditore potrebbe avere un interesse contrario al fatto di far acquistare al compratore la proprietà della cosa? In teoria no, in quanto, se lui non si attiva in tal senso, il compratore gli potrà chiedere la restituzione del prezzo pagato, nonché il rimborso di tutte le spese sopra citate.

Inoltre, il venditore dovrà tener conto anche dell’art. 1338 c.c., a norma del quale “la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”. Egli, quando ha stipulato, sapeva benissimo che la cosa non era di sua proprietà (a differenza del compratore, il quale invece ignorava tale circostanza), e quindi, se non fa acquistare al compratore la proprietà, si esporrà in modo pressochè certo ad un’azione risarcitoria da parte di quest’ultimo.

Pertanto, egli avrà, al contrario, tutto l’interesse ad adempiere al suddetto obbligo. Di conseguenza, se egli non riuscirà a far acquistare la cosa al compratore, ciò sarà dovuto non ad una sua inerzia o negligenza, ma unicamente al fatto che il terzo, vero proprietario della cosa, non intende privarsi della stessa, poiché alla base non vi era nessun accordo tra il terzo ed il venditore in forza del quale il primo avrebbe trasferito la proprietà al secondo, ragion per cui l’atto di vendita tra il venditore ed il compratore è stato fatto esclusivamente su iniziativa di quest’ultimo, il quale quindi è addivenuto alla stipula “abusivamente”.

Ciò vuol dire che, se il venditore non ha fatto acquistare al compratore la proprietà della cosa, non si potrà applicare l’art. 1359 c.c., ossia non si potrà dire che la condizione sospensiva si considera comunque avverata, ed il contratto si considera comunque perfezionato, sulla base del fatto che il venditore aveva un “interesse contrario” all’avveramento.

Allora da questo cosa si evince? Che il terzo proprietario, una volta negato al venditore il trasferimento della proprietà, dovrà necessariamente agire mediante l’azione di rivendica nei confronti del compratore, il quale detiene la cosa (tant’è che vi può avere apportato anche dei miglioramenti). Pertanto, in realtà, il contratto non può neppure considerarsi come risolto “ipso iure”, in quanto occorre che il terzo proprietario eserciti l’azione di rivendica: se non lo fa (e sarebbe comunque un comportamento contraddittorio, visto che lui ha negato al venditore il consenso al trasferimento della proprietà), a quel punto il compratore è legittimato a continuare a detenere la cosa, potendo addirittura arrivare ad usucapirla (vedi art. 948 c.c.).

 

Potrebbe, comunque, darsi anche il caso in cui il venditore non abbia alcun interesse a far acquistare al compratore la proprietà della cosa, avendo egli già in programma di rendersi irreperibile in modo da non restituire al venditore il prezzo da questi pagato né di rimborsargli le spese.

Il venditore, in questo caso, non interpella minimamente il terzo proprietario della cosa, e quindi il compratore, il quale ha scoperto che quest’ultima apparteneva al terzo stesso, dovrà necessariamente considerare il contratto come risolto (altrimenti verrebbe meno anche la buona fede del compratore medesimo), restituendo la cosa al terzo, salvo poi rivalsa nei confronti del venditore resosi irreperibile.

In tal caso, il compratore non deve attendere che il terzo eserciti l’azione di rivendica, in quanto egli, se si trattiene la cosa nonostante che il venditore non gliene abbia fatto acquistare la proprietà, diviene sostanzialmente un possessore di mala fede, il che lo esporrebbe, all’azione di rivendica da parte del terzo, con annessa domanda risarcitoria.
 

Un altro aspetto da analizzare è il seguente.

La fattispecie di cui all’art. 1479 c.c. è quella di un compratore che, al momento della stipula, “ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore”. Il compratore, pertanto, è incorso in un “errore” su un elemento essenziale del contratto, quale quello della titolarità, in capo non al venditore bensì ad un soggetto terzo, del diritto di proprietà sulla cosa, “errore” che, in quanto tale, dovrebbe legittimare il venditore a chiedere l’annullamento del contratto, e non la sua risoluzione, essendo quest’ultima operante solo nei casi di inadempimento della controparte e/o di sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione ma non anche per le ipotesi di “invalidità” del contratto.

Eppure, tra l’annullamento e la risoluzione di cui all’art. 1479 c.c. sembrano esservi delle analogie.

In primo luogo, a norma dell’art. 1432 c.c., l’annullamento del contratto può essere evitato se la controparte (il venditore), prima che alla parte (il compratore) sia derivato un pregiudizio, offre a quest’ultima una modifica equa del contratto che sia tale da azzerare gli effetti dannosi. Ciò è esattamente quanto prevede anche l’art. 1479 c.c., allorquando stabilisce che la risoluzione si può domandare solo nel caso in cui il venditore, nel frattempo, non abbia fatto acquistare la proprietà al compratore, ossia non abbia egli acquistato la cosa dal vero proprietario e non abbia ritrasferito il diritto di proprietà al compratore: questo “attivarsi per far acquistare al compratore la proprietà” altro non è che quella “offerta di modifica equa del contratto” mediante la quale si evita l’annullamento di quest’ultimo.

In secondo luogo, nel caso dell’annullamento “l’offerta di modifica equa” va fatta prima ancora che alla parte (compratore) sia derivato un danno, in quanto altrimenti tale offerta non sarà sufficiente ad evitare l’annullamento; nel caso di cui all’art. 1479 c.c. “il far acquistare la proprietà al compratore” deve avvenire nel lasso di tempo che intercorre tra il momento in cui il contratto è stato concluso ed il momento in cui il compratore ha scoperto che la cosa non era di proprietà del venditore: se il venditore fa acquistare al compratore la proprietà della cosa dopo che quest’ultimo ha scoperto l’appartenenza della medesima ad altri, il compratore può chiedere la risoluzione del contratto. Pertanto, sia nell’uno che nell’altro caso esiste un momento ben preciso entro il quale la parte non danneggiata (in tal caso, il venditore) deve attivarsi al fine di evitare la cessazione del contratto: se si attiva dopo tale momento, il contratto comunque cessa, con la differenza che mentre l’azione di annullamento viene proposta dalla parte danneggiata (che, in tal caso, sarebbe il compratore), nel caso di cui all’art. 1479 c.c. per ottenere la cessazione del contratto occorre che il terzo, effettivo proprietario del bene, eserciti l’azione di rivendica.

Nonostante tali analogie, l’art. 1479 c.c. parla comunque di “risoluzione”, e non di “annullamento”. Probabilmente la ratio di ciò è nel fatto che esso, se parlasse di contratto “annullabile”, dovrebbe automaticamente ammettere la “convalidabilità” del medesimo, ex art. 1444 c.c., il quale attribuisce alla parte, la quale sia incorsa in un “errore” (vedi, in tal caso, la mancata consapevolezza, da parte del compratore, dell’altruità della cosa), la generale facoltà di convalidare il vizio di annullabilità, a prescindere da quale sia stato l’oggetto dell’errore, e quindi, in ipotesi, anche nel caso in cui questo sia consistito nell’ignorare che la cosa era di proprietà di altri.

Quindi, il fatto che l’art. 1479 c.c. parli di “risoluzione”, anziché di “annullamento”, indica il divieto assoluto per il compratore, il quale abbia successivamente conosciuto l’altruità della cosa, di convalidare il contratto di vendita, un divieto che quindi in questo caso assimila tale contratto ad un negozio “nullo”, in quanto, ex art. 1423 c.c., anche per quest’ultimo vige appunto il divieto di convalida.

La tesi secondo cui il contratto ex art. 1479 c.c. dovrebbe essere qualificato come “nullo”, anziché come “risolubile”, potrebbe poggiare anche sul fatto che, ex art. 1325 c.c., uno dei casi di nullità è “l’illiceità della causa”, laddove, ai sensi dell’art. 1343 c.c., la causa è illecita quando è contraria a norme imperative: vendere ad un terzo un bene che è di proprietà di altri, è una violazione del diritto di proprietà sancito dall’art. 42 Costituzione, il quale, proprio in quanto contenuto nella Carta, può qualificarsi come “norma imperativa”. Tuttavia, su tale “imperatività” occorre discutere in quanto lo stesso art. 42 Cost. specifica che è comunque “la legge” a determinare “i modi di acquisto” della proprietà: ebbene, in tal caso, “la legge” è l’art. 1479 c.c., il quale qualifica come “risolubile”, e perciò come “valido”, il contratto di vendita di cosa altrui. Il diritto di proprietà, pur avendo dignità di diritto costituzionale, non è caratterizzato da quella “sacralità” che è invece assegnata ad altri diritti, come quello di difesa giurisdizionale. La sua disciplina viene comunque demandata alla “legge”, e quindi non può essere accolta la tesi secondo cui il negozio ex art. 1479 c.c. debba considerarsi come “nullo”, in quanto ciò vorrebbe dire attribuirgli una qualifica diversa da quella stabilita dalla “legge”.
 

Un ultimo aspetto da considerare è il seguente.

L’art. 1479 comma 2 c.c. prevede che “il venditore è tenuto a restituire all'acquirente il prezzo pagato anche se la cosa è diminuita di valore o è deteriorata”.

Il fatto che il compratore abbia, inconsapevolmente, acquistato la cosa da chi non era proprietario, prevale sul fatto che, a seguito dell’uso fattone dal compratore stesso, la medesima si sia deteriorata: il compratore ha comunque diritto alla restituzione dell’intero prezzo pagato. Qual è la ratio di tale previsione?

L’aver pagato un prezzo per l’acquisto di una cosa che era di altri, e che quindi, almeno al momento, non può essere goduta dal compratore (infatti, ex art. 1478 comma 2 c.c., quest’ultimo diviene proprietario solo quando il venditore avrà acquistato la proprietà), ha determinato una lesione della sfera giuridica del compratore, il quale si è trovato a pagare un corrispettivo per una cosa di cui, giuridicamente, non è ancora proprietario. Egli, dopo la stipula, ha scoperto che la cosa era di altri, e quindi la sua posizione, mentre al momento della stipula era quella di un “possessore di buona fede”, ossia di un soggetto che pensava di poter godere della cosa come se fosse sua, adesso, dopo la scoperta, sembra essere piuttosto assimilabile a quella di un “detentore”, ossia di colui che, siccome ha saputo di non essere lui il legittimo proprietario, la tiene con sé fin quando il terzo, vero proprietario, non avrà esercitato l’azione di rivendica, oppure finchè non decida lui stesso di restituirla al terzo.

Ciò posto, ci si chiede se in questo caso il diritto del compratore a ripetere il prezzo pagato sia da inquadrare nell’ambito della generale azione di ripetizione d’indebito di cui all’art. 2033 c.c. . Tale norma prevede che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”. Nell’ipotesi dell’art. 1479 c.c., il pagamento fatto dal compratore era effettivamente un atto “non dovuto”? Il compratore, al momento in cui ha stipulato, non sapeva che la cosa fosse di altri, ma riteneva, in perfetta buona fede, che essa fosse effettivamente di proprietà del venditore, e quindi il pagamento era, secondo quanto egli si immaginava, un atto “dovuto” in quanto posto in essere in adempimento di un contratto. Egli però, successivamente, ha scoperto che questo pagamento non era “dovuto” (indebito soggettivo) in quanto il proprietario era non il venditore ma un terzo. Ma ciò del resto è la caratteristica essenziale dell’azione di ripetizione di indebito, la quale si fonda proprio sul fatto che, solo in un secondo tempo, ci si è accorti di aver versato una somma a chi non aveva il diritto di prenderla.

L’art. 2037 c.c. – anch’esso inserito nell’ambito del pagamento di indebito – al comma 3 prevede che “chi ha ricevuto la cosa in buona fede non risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del suo arricchimento”. Se il terzo, effettivo proprietario della cosa, dovesse agire per recuperare quest’ultima presso il compratore, il quale comunque l’aveva ricevuta in buona fede (ossia non sapendo che essa fosse del terzo stesso), quest’ultimo risponde, nei riguardi del terzo, dell’eventuale deterioramento della stessa soltanto nella misura in cui si sia arricchito in conseguenza del suo uso: se questo arricchimento non c’è stato, egli non dovrà versare alcuna somma al terzo quale corrispettivo dell’avvenuto deterioramento.

Allora il discorso è il seguente: il compratore, siccome (se non si è arricchito) non dovrà pagare al terzo, effettivo proprietario, alcuna prezzo per il deterioramento, a maggior ragione potrà chiedere al venditore la restituzione dell’intero prezzo pagato, senza alcuna decurtazione nel caso in cui la cosa si sia deteriorata, in quanto l’unico soggetto che potrebbe aver interesse a far valere il deterioramento è il terzo, ma, se neanche questi può esigere nulla dal compratore, allora di certo nessuna pretesa potrà essere fatta valere a tale titolo neanche dal venditore, il quale, quando ha venduto la cosa, era in mala fede.

Si deve, quindi, ritenere che la norma contenuta nell’art. 1479 comma 2 c.c. sia legittima.